Deleted scenes

La collina era il punto più alto del paese. Digradava dolcemente (ma non troppo dolcemente, in effetti) verso la periferia del piccolo centro abitato, distante qualche centinaio di metri, dove erano accalcate alcune palazzine di pochi piani: condomini per piccoli borghesi e grandi proletari, nè brutti nè belli, con le pareti che stingevano al sole mediterraneo anno dopo anno.
Sul fianco del colle due ragazzi di circa tredici anni si crogiolavano al sole del luglio inoltrato, seduti sull’erba, e si passavano a turno un binocolo che puntavano verso una ben precisa palazzina, una ben precisa finestra aperta. Una ragazza dall’età sconosciuta ma apparentemente diciassettenne dormiva su un letto, perfettamente inquadrata nella cornice della finestra, quasi un quadro del Goya dal vero. Ed era una ragazza veramente carina. Ed era seminuda.
La posizione e l’intensità del sole non permettevano una visuale granchè chiara dell’interno giorno, ma per due adolescenti in tempesta ormonale poteva andare bene anche così. I due voyeur in erba proseguirono a scambiarsi oculari e commenti per parecchi minuti.
– Ehi, che direbbe tua sorella se sapesse che le fai questo?
Era stato uno dei due ragazzi a parlare. Non si era rivolto al suo compare, ma a un terzo figuro che era rimasto sdraiato in silenzio, qualche metro dietro di loro, per tutto quel tempo. Era il fratello della bella addormentata, un ragazzo di quindici anni dall’aspetto trasandato e l’aria svogliata. Ascoltò la domanda come se l’avesse già sentita mille volte, e cominciò a rispondere stringendo le spalle.
– Fatti suoi. Se ci pensasse un attimo si renderebbe conto che cani e porci la possono spiare.
– Ma tanto di qua non potrebbe salire nessuno.
– Come no. Intanto noi ci siamo venuti.
– Sì, ma se ci scoprono ci fanno un culo così. – interloquì il secondo guardone.
Era vero. La collina e il territorio retrostante erano proprietà privata. Per quanto i proprietari restassero più entità leggendarie che figure concrete, data la scarsa frequenza con cui solevano farsi vedere, il terreno era recintato. I tre invasori erano penetrati sfruttando il più classico degli stratagemmi: un provvidenziale buco nella recinzione.
– Mi sa che non corre mica tanti rischi. E comunque non hai risposto: se ti scopre che ti fa?
Altra stretta di spalle – Non ho paura di lei.
– Mi sa che fai male. E’ più grande di te e secondo me ti mena senza problemi. Mi hanno detto che è un tipo che picchia.
I due guardoni risero. Il terzo si sentì punto sul vivo, ma sapeva che le ultime due affermazioni erano vere e non poteva farci nulla. L’irritazione lo fece reagire nel modo più istintivo possibile: si tirò in piedi e dichiarò chiusa la seduta di osservazione. I due protestarono, ma l’altro fu irremovibile.
– Trenta minuti. E sono passati. Sganciate e tagliamo la corda.

Mezz’ora, cinque euro a cranio: la tariffa per godere della visione di una ragazzina dalle tendenze ninfomani, che senza ritegno dormiva quasi nuda nel suo letto. Non aveva mai creduto che potesse essere un business valido, ma ben presto si era accorto che era merce piuttosto vendibile. La sorella suscitava un certo fascino (a ragione, doveva ammetterlo), ingigantito dal brivido della spiata proibita, e soprattutto tra i ragazzini più ricchi c’era sempre chi poteva e voleva spendere qualche soldo per afferrare l’illusione di vedersela concessa. Era una strana, embrionale forma di prostituzione.
Ora, da solo, mentre le ombre di fuori già si allungavano, risalì le scale ed entrò in casa. Si infilò poi nella stanza di lei e chiuse la porta, appoggiandovi le spalle e guardando verso terra.
– Quanto hai fatto?
Aveva anche una voce suadente, maledetta.
– Dieci euro.
– Certo che come ruffiano vali pochino, eh?
A volte arrivavano commenti del genere, e lui reagiva sempre con la sua stretta di spalle standard. Ma oggi era nervoso e non gli andava di subire.
– Non è mica sempre un lavoro facile. Te te ne devi stare solo lì sdraiata a farti guardare. Ma per me è più difficile. E tu ti prendi anche più soldi.
– Oh, il lumpenproletarier alza la testa! – lei si alzò a sedere e lo fissò (lui aveva ancora gli occhi sul pavimento) – Povero piccolo. Ricorda che l’idea è stata mia, e il gioco lo dirigo io. Se non ti va puoi metterti in proprio. Quanto pagherebbero i ragazzi per vedere te nudo?
Il discorso di lei e il suo tono canzonatorio, decise lui, erano andati troppo in là. Alzò finalmente lo sguardo.
– Senti, vaffanculo. Non mi piace più questa storia. Non mi è mai piaciuta. Trova un altro scemo come socio.
Lei non sembrava troppo impressionata dalla inedita rabbia del fratello. Rispose con sufficienza – Ti fai troppi scrupoli.
– Non è questo!
– E allora cos’è?
Già, cos’era. Non se ne rendeva bene conto, ma l’idea gli si chiarì d’un tratto. La esalò con un filo di voce.
– Voglio solo un po’ di rispetto.
Lei sorrise e si ributtò supina.
– Mio fratello che pretende rispetto. E sembra quasi dimostrare carattere. Una cosa nuova. Mi piace. Mi eccita. Dì un po’ fratellino… quanto ce l’hai grosso?
La domanda lo scioccò. Ma non quanto il rendersi conto che in fondo sperava da tempo in una richiesta del genere. Prima ancora di riaversi, si accorse di essersi istintivamente tolto i pantaloni, e che era a pochi istanti dal vendere l’anima a sua sorella.

Opossum

Stile Vittoriano

Quanto è malato ? Quanto è triste ? Quanto è inquietante ?
Guarda questa, c’è lei a terra stesa sul tappeto, vestita di bianco, circondata da giochi. E tutta intorno a lei la sua famiglia.
Cosa vedi ?

La lunga e appuntita unghia del dito ossuto punta la foto. È un’istantanea vecchia e non di poco, roba vittoriana.
Un ritratto di famiglia, tutti ben vestiti sorridenti in un salotto ben arredato. Vecchi e giovani guardano l’obbiettivo, tranne lei a terra. Ha gli occhi chiusi, dorme, è morta.
Un terrore mi esplode nello stomaco, la fiammata mi arriva in gola e fuoriesce sotto forma di gemito.
Hai paura ? Mi dice il volto coperto dall’ombra.
Paura di una bambina ? Di una bambina morta ? Che male può farti ? C’è ne sono tante altre.

Stende un braccio e la parete si illumina, centinaia di foto simili, stesso stile, stessa epoca quasi tutti bambini. Morti che fanno finta di essere vivi. Padri con in braccio il loro neonato morto, due bimbe adagiate insieme in una piccola bara bianca, vestite a festa, boccoli biondi.

Questa è interessante, mi dice.
La parete torna buia eccetto una foto.
Ci sono due ragazze, una seduta, una in piedi. La prima ha gli occhi aperti, sorride all’obbiettivo. La seconda ha gli occhi chiusi, viso sereno.
La tenevano in piedi con un sistema di cinture e un busto. Roba grezza ma sai a quel tempo avevate una morale diversa.

Allora sei giunto a una conclusione ? E’ malato ? E’ triste ? E’ inquietante ?
Non rispondo.

O è solo un altro vostro patetico tentativo di sfuggire alla fetta di realtà che non vi piace ? Vi credete gli eletti di Dio, gli unici esseri nel regno animale che non meritano la morte. Patetici esseri, sempre pronti ad ogni cosa per rendere meno amaro l’inevitabile.
Fa un passo, la luce gli illumina il volto. Rugoso, millenario, due sporgenti palle bianche per occhi scavate in profonde fosse nel cranio, pupille nere e minacciose, squallidi capelli bianchi, unti e lunghi.
Chiudo gli occhi per la paura, fuggo via da lì senza muovere un passo.

Tipico di voi, mi dice mentre la sua voce svanisce, chiudete gli occhi davanti alla realtà.

Sono altrove, non sono ancora sveglio.
Credo di essere tornato bambino, sono in un museo, vedo tanti coetanei vestiti con un grembiule blu. Percorriamo un lungo corridoio di marmo, grosse vetrate fanno luce ma essa è talmente forte da non mostrare nulla dall’esterno, solo un puro bianco.
Ai lati del corridoio ci sono statue greche, credo. Sculture perfette di perfetti corpi nudi, eccetto per il cazzo, è stato tagliato via a tutte, c’è solo il segno di un secco colpo di scalpello.
I bambini ridono tutti, rido anche io.

E vado via di nuovo, dormo ancora.
Sono in macchina, su una strada dritta come il corridoio di marmo, piove tanto che il tergicristallo nel fare destra sinistra a quella velocità sta per saltare via.
In lontananza vedo due babbo natale, non sono in rosso ma blu. Stanno facendo un posto di blocco. Uno sul lato della strada paletta in mano, l’altro poggiato su un’Alfa Romeo 75 sfoglia delle carte. Entrambi incuranti della pioggia.
Quando arrivo a cento metri quello al lato della strada mi mostra la paletta.

Vado via di nuovo e questa volta sono sveglio, c’è il gatto sul mio petto, fa le fusa e con gli artigli mi accarezza il collo.
Sento il bruciore causato dal suo sfregare.

Slon

Solus Loquor

Diciannove e quarantadue.

Il treno parte proprio ora, e io me ne sto ancora seduto sulla scalinata fuori la stazione, a parlare di nuovi inizi e antichi finali con una vecchia amica.
Sullo sfondo, Venezia è qualcosa di strano, sembra una vecchia signora con un vestito elegantissimo e il viso deforme, ricoperta fino alle spalle da formiche asiatiche che trasportano teleobiettivi-briciola da dieci volte il loro peso.
Sembra voler fare l’indifferente, Venezia, ma quasi per forza, la vedo che mi controlla con la coda dell’occhio, lo so che mi ascolta. E qui da bravo antipatico io la pacco, chiudo il discorso sul più bello, e poi, ma non dovevo prendere un treno io?

Bacio frettolosamente la mia amica e inizio a correre verso il binario, i borsoni e le borsette di birre che saltellano e mi sbattono addosso tintellando (….tintell..are? Esiste?).
Zion, la mia cagna, mi trotterella dietro, il guinzaglio che striscia sulle mattonelle, le unghiette che fanno tikitik, ehy, ci sono anch’io, ma guardatemi che figa che sono, c’ho settant’anni io, tikitik, tikitik.

Fermo una carinissima… (Controllora? Controllice? Cosa succede oggi all’italiano?)

Fermo l’OPERATRICE DI CARROZZA mentre sta salendo e chiudendo le serrande, e salto su, op.

Lei guarda prima la tuba, poi me, poi Zion, con un’espressione tra il divertimento la pietà la malizia, e mi ammonisce sorridendo, la mia divoratrice di cuori dovrebbe portare la museruola, lo sapevo?

“Cara, è più probabile che ti morda io”

Sai mai, a volte funzionano, ste battutelle da telefilm argentino. Però ora che la guardo meglio non è che sia mica così così carinissima. Beh, magari è splendida dentro. E sicuro ha un bel culo. E poi tanto mentre penso a ste stronzate lei se ne è già andata. Tutti contenti.

Il treno parte, butto la roba in un angolo e me stesso su una poltronetta.
Tempo ce n’è, stanco sono stanco, il cane fa la guardia, facciamoci un giretto di là.

Chiudo gli occhi.

Drin drin, telefono. Rispondo ed è una cara amica che non vedo da una vita ( sì, un’altra, ho un sacco di vecchie amiche, posso?). Dal tono sembra davvero giù, ma non mi dice che ha. Decidiamo di incontrarci, lo facciamo in una casa che mi sembra familiare ma non metto a fuoco.
Ah questa poi, ecco perchè è giù. Gli manca la gamba destra, amputata all’altezza della coscia. Il motivo non si sa, né io mi ricordo di chiederlo. Penso solo ad abbracciarla e consolarla, gioco ad acchiappare le sue lacrime con le dita e le labbra, e neanche a dirlo finiamo a letto ed è strano, facciamo l’amore piano, piangendo, tutti e due, e paradossalmente lei non è mai stata così brava, ed è bellissimo. Poi lei si addormenta, ed io mi sento improvvisamente di troppo, è come se avessi svolto il mio ruolo e bon, è tempo che la lasci.
Esco, e camminando per strada vengo affiancato da un’automobilona scura che procede a zig zag, che mattacchioni. L’auto si ferma e ne escono dei tizi ben vestiti e palesemente ubriachi e attaccabrighe.
Mi sanno da poliziotti, forse in borghese forse fuori servizio, boh. Cominciano a provocarmi malamente, e dio che fastidio, ci son poche cose più tristi di un ubriaco che si atteggia a gran figo. Me ne sto zitto ma mi tendo tutto, corpo e mente, pronto a scattare. In quel momento, sbucando dal buio dei sedili posteriori, la figura di mia NONNA spunta fuori. E’ tutta truccata in ghingheri, ed è sbomba di alcool pure lei, e urla “Oh cazzoni! Che, è mio nipote quello! Che è un bravo ragazzo, un attimo strano, ma lasciatelo stare che se no che se no…” e qui RUTTA, ma di gusto proprio, e dai non ce la faccio, scoppio a ridere, e con me i cazzoni.
Tutti amici, ora: gli ufficiali son tutti contenti e mi danno grandi pacche sulle spalle, e mi dicono sali sali dai andiamo a bere, declino gentilmente e riprendo per la mia strada, ma pensa te.
Continuo a camminare e mi ritrovo a seguire un fiume, mi siedo sull’argine e mi godo il paesaggio. Forse sono triste, forse no, non capisco. Vorrei che ci fosse qualcuno con me ora, eppure anche da solo mi sento bene. Mi sembra quasi di essere egoista, a gustarmi questo bel momento da solo. Il mio cervello forse mi sente, perchè materializza una specie di ventilatore parlante, alto e bianco, che mi si piazza di fianco. Di cosa mi parla non ricordo, però ogni volta che si gira verso di me mi investe di leggere folate d’aria, non realmente fastidiose, ciononostante gli dico scortesemente di andarsene, o almeno di girarsi dall’altra parte.
Il ventilatore si mette a piangere, non chiedetemi come, so solo che schizza acquamatta dappertutto attraverso le pale in movimento. Butta invece l’aria dall’altra parte smuovendo l’erba, e singhiozza duro, io mi sento un po’ in colpa, dai dai su piccolo coso delonghi, scusami va tutto bene dai, ssccch.
“Sono una cosa inutile”, mi dice (credo), “tutti mi cercano per alleviare un po’ il calore, ma è un trucco, il calore non se ne va, resta! E quando se ne va davvero, vengo dimenticato. La gente ama quello che faccio, non me. Sono così inutile!”

“Mi sa che quello che fai è quello che sei”, rispondo (credo), “almeno in quel momento. E se sai fare solo quello, vedi di abituartici. Frignare perchè non sei amato è patetico, è come piangere perchè qualcuno non ti regala il mondo. Impara piuttosto ad amare un po’ quello che fai, a non fare male agli altri, e soprattutto impara a farti i cazzi tuoi.”

Il coso ora non schizza più acqua. Si gira lentamente verso di me, mi scompiglia i capelli, mi guarda con quell’espressione intensa che solo un ventilatore triste può darti.

“Ma con chi stai parlando?”

“Come con chi sto parlando, ebete di un giravento, sto parlando con…”

Qualcosa di ruvido mi lecca la mano, un avvertimento. Subito dopo qualcos’altro mi batte sulla spalla, un vocione roco si fa strada tra i miei sensi, mi risucchia via da Efemeride, mi riporta in quest’allegra fogna che tutti amiamo e odiamo e la la la.

“Buongiorno. Biglietto, per favore.”

Kires

Crescere

Un bel giorno, mentre passeggiava per strada, la Sensibilità di una persona conobbe per caso un educato e distinto giovanotto, appartenente alla tanto discussa stirpe dell’Eventualità.

Si piacquero subito; e dopo un breve e intenso corteggiamento denso di spettacolari emozioni danzanti, si ritirarono in una mansarda semibuia e appartata, e lì vissero una notte di fuoco, amandosi con delicatezza e passione e istintiva forza. All’alba il giovanotto lasciò la stanza e andò per la sua strada per non tornare mai più, lasciando la Sensibilità sola ma non ferita, abituata com’era ai brutali meccanismi della Creazione.

Come spesso succede la sensibilità restò incinta e, sempre adagiata nella piccola mansarda, partorì in fretta e furia una piccola idea. Da madre esperta ma indifferente qual era, cullò e nutrì la piccola neonata il tanto che bastava per non farla morire di stenti, e poi la abbandonò, per tornare nel mondo, a cercare altri amanti.

La piccolina aveva suo malgrado un’indole forte, e dopo un iniziale attimo di smarrimento, cominciò a camminare fiera. Viaggiando e vagando per le sterminate città della mente, nutrendosi come e dove poteva e stringendo passeggere amicizie con i pensieri che le abitavano, la piccola idea cresceva e imparava, faceva errori e soffriva, guadagnandone in forza e personalità, imparando a rispettare i suoi limiti, e allo stesso tempo a coltivare la sua ambizione. Divenne abbastanza furba da capire come evitare le pattuglie della Razionalità e del Giudizio, che l’avrebbero sicuramente arrestata e portata a marcire nelle prigioni dello Sconforto; quando si sentì abbastanza matura e allo stesso tempo stanca di vivere in un mondo tanto magico, quanto effimero e crudele, come quello della Fantasia, la piccola idea, ora non più così piccola, decise di partire.

Raccolse i sui pochi vestiti e tutto il suo coraggio, e si presentò ai confini del Pensiero.

Lì si imbarcò clandestinamente in un treno velocissimo e mutevole di processi chimici e fisici, e si trasformò, da impulso elettrico ad energia pura, e viaggiò veloce veloce, guadando fiumi di sangue e calandosi da montagne di muscoli e fibre nervose, fino ad arrivare finalmente alle vette più alte e sdrucciolevoli delle dita, e lì forse si fermò un attimo a riprendere fiato e coraggio, ad osservare lo sterminato quadro della Realtà che si stagliava oltre l’infinito strapiombo di fronte a lei.

Quando si sentì abbastanza pronta, quando si sentì abbastanza folle, chiuse gli occhi e si lasciò cadere.

Cadde, in pace, senza sapere più cosa fosse, senza sapere se sarebbe sopravvissuta al volo, cadde a lungo, gustandosi il vento dell’improbabilità che le scompigliava i capelli.

Cominciò a scorgere un mare bianco e perfettamente calmo, sotto di lei, che si avvicinava sempre di più. E poco prima di infrangersi, fu catturata al volo da una torre enorme e nera e cilindrica, che rallentò la sua caduta e sezionò con gentilezza il suo essere, trasformandola in piccole molecole d’inchiostro sparse, che poi planarono ballando, adagiandosi sulla superficie immobile del mare bianco, diventando onde di parole che si espansero piano fino alle spiagge ai bordi del foglio, riempendo il mare di carta anonimo e movimentandolo con tempeste e brezze gentili, quello stesso mare che poi si trasformò ancora e ancora pur rimanendo lo stesso, e che è lo stesso in cui voi state navigando ora.

La piccola idea ora è diventata realtà, e passeggia nel mondo, e forse chissà, forse anche lei un giorno conoscerà qualcuno, e amerà o verrà amata, e avrà a sua volta dei figli.

Non ha importanza il futuro; la piccola idea ora è felice, e vive dei vostri sorrisi tanto come dei vostri sbadigli.

Questa è la sua storia; grazie per averla respirata.

K

Lacune

Fu solo il mattino seguente, quando uscì di casa per andare a prendere la posta arrivata il giorno prima, che Jeremy si accorse che il muro sull’altro lato della strada era stato abbattuto e il panorama dello strapiombo si estendeva ora platealmente davanti a lui. Il muro, che era lì da prima che arrivasse lui, gli aveva sempre celato la vista di quello spettacolo, che era lì da prima che arrivasse il muro. Impalato nel cortile, la posta ancora in mano, Jeremy fissava lo spazio vuoto, e l’oceano sottostante, convinto che il mare ricambiasse lo sguardo con un odio che, per quanto gli pareva, doveva essere immotivato.
Dopo un paio di minuti riguadagnò l’ingresso di casa camminando all’indietro e sentendosi ridicolo ad ogni passo di più, e durante la giornata si sorprese più volte a sbirciare da dietro le tende la nuova visuale, in attesa che l’oceano -che la prospettiva gli rendeva ora invisibile- si ribellasse improvvisamente per tutti quegli anni di insensata prigionia.

 

Opossum