Sarò ogni giorno con voi

Le lapidi ben disposte e il cielo arancione contornato da nuvole grigie e nere erano una gran bella istantanea.
Passeggiava tra i larghi viali del grande cimitero gustando il suono dei suoi passi, alternato dall’erba e dalla ghiaia, nel silenzio.
Non c’era mai nessuno lì.

“…ricordate…”

E lei non riusciva a trovare la motivazione delle sue visite.
A macinare passi tra le tombe calmava il vuoto che echeggiava nella sua testa.
Scorreva la zona vecchia dove c’erano tombe risalenti anche a due secoli prima, toccava le spesse lapidi in pietra leggendo tra le muffe date di morte e di nascita.
Esercitava la sua matematica, le piaceva calcolare l’età dei morti.

La sua tomba preferita era quella della famiglia Reed.
Era un grosso monolite di pietra alto quanto lei e forse anche più spesso di lei. Il colore originale era stato affogato dall’erosione e dal verde della muffa. Sopra il monolite troneggiava un angelo decapitato con le braccia protese in avanti, pronto ad accogliere l’anima di qualcuno.
Robert Joseph Reed era nato nel 1788 ed era morto nel 1866. Una lunga e precisa vita. Sua moglie, Anne, era nata nel 1812 e morta nel 1843 mentre dava alla luce il suo terzo figlio, nato morto e sepolto con lei sotto l’angelo decapitato. Il tempo aveva cancellato il suo nome dal monolite.La primogenita di Robert si chiamava Elizabeth, nata nel 1829 e morta nel 1836. Il secondogenito era Francis, nato nel 1831 morto nel 1847.
Ai piedi del monolite c’era scritto grande e ben leggibile: DIO CONCEDE E DIO TOGLIE.
Per lei era impossibile trovare il perché Dio avesse tolto tutto a Robert, se un uomo prende la vita di tre bambini e una donna si ritroverà spedito il culo al chiuso per sempre o peggio.
A Dio sono concesse troppe libertà.

Il percorso di ghiaia la portò più avanti.
Sette lapidi ben disposte avevano ceduto sul davanti appiattendosi nel terreno e guardando la stazza il loro tonfo aveva disturbato anche chi ci riposava sotto quel terreno. Probabilmente erano lì da anni, decine di anni. Non c’era nessun parente in vita che si preoccupasse della lapide del suo consanguineo.
Di fronte alle lapidi chinate c’era una panchina, le piaceva sedere lì e immaginarsi le lapidi inginocchiate al suo cospetto, un tributo dei morti a una donna ancora in vita.
Un rito religioso al contrario.

Mentre sedeva la leggera brezza che le pizzicava il collo annunciò l’avvicinarsi del buio.
Nella sua mente vuota il buio le ricordava il pericolo.

“La guerra ?” si chiese.

Scavò nella sua mente, tornando indietro nel tempo. Ritornò nel rifugio, tre sere prima. Era strano che non lo ricordasse.
Decine di uomini e donne e bambini erano inginocchiati davanti al prete che urlava il suo sermone di spalle e rivolto alla croce, la soffusa luce delle candele colorava l’atmosfera di un arancione come il cielo sopra la sua testa nel cimitero.
“…ricordate…” sembrava dire il prete, ma lei non badava a lui, stava parlando con una grassa donna quasi calva e priva di denti. La sigaretta che stava fumando aveva un sapore tosto e le bruciava la trachea fino ai polmoni.
La donna parlava mentre fumava con lei, non ricordava le parole ma ricordava il tema, lei ne aveva avuti tre… di bambini.
Lei era come Robert.
Non c’erano lacrime mentre parlava di figli morti, era un tema comune in quei tempi, come parlare di cani e gatti morti.
Il ricordo della guerra l’esplose in testa, si guardò le mani nere e callose, le vesti stracce e i tagli sulle gambe scoperte.
Dolori e paure si risvegliarono, così come l’urgenza di soddisfare il suo stomaco che ora era trafitto da un’ignobile fame.
“Lo spaccio…non hai soldi per lo spaccio” si disse.
Ricordò come pagava il cibo allo spaccio, ricordò il senso di nausea e d’odio e ricordò che il Signore era sempre con lei.

“…ricordate che il Signore sarà sempre con noi…” diceva il prete.
“…quanti ne hai avuti ?” chiedeva la donna.
“Due” rispondeva lei.

Le loro facce erano sepolte nella sua memoria tra le macerie della guerra.
“Non li hanno uccisi…” si disse “…è stato il colera” ricordò.
Sorridendo si alzò di scatto e cominciò a camminare verso l’ala est del grande cimitero, dove c’era la fossa comune.
Le sirene strillarono il pericolo, il lungo lamento inondò i vialetti d’erba e ghiaia ma lei non se ne curò, affrettò il passo, stava andando a far visita ai suoi figli.

Sotto la sfregiata statua del Redentore si estendeva il cerchio di pietre che delimitava la terra smossa.
“RICORDATE! IO SARO’ OGNI GIORNO CON VOI”, era inciso su una targa ai piedi del Redentore.

Sì chinò sul cerchio e parlò con loro.
Tutto era passato.

Slon

#PILLOLELDCDS 6

L’argomento del vento è stato trattato nella precedente pillola dal socio.
Ma il vento non è il problema, è solo una parte del problema.

La tipica giornata in Gran Bretagna comincia alle 7:30 quando il ruggito del vento ti sveglia mezz’ora prima della sveglia. Visto che quel giorno hai delle inderogabili commissioni da svolgere alzi il culo dal letto.
Non guardi fuori dalla finestra, sai già cosa sta succedendo ma non ne vuoi saperne, vai dritto in doccia, punti la freccetta della temperatura su 9 e non esci finché non hai ustioni di terzo grado.
Dopo esserti vestito metti il naso fuori e ti ritrovi a tre numeri civici più in là del giorno prima.

Aspetti che il vento si calmi e lui si calma. Due minuti dopo dal cielo arrivano secchiate d’acqua, quindi aspetti che passi anche questa. Questa passa solo per lasciare il posto a una bufera di neve che si mischia col vento tornato più stronzo di prima.
Verso le due appare il sole, il cielo diventa azzurro a tratti e forse finalmente puoi uscire.
Peccato che alle tre e mezza fa già buio (sì, tre e mezza non scherzo).

La Gran Bretagna uccide la tua produttività e ti deprime perché fuori piove e devi stare chiuso in casa.
Non è una sorpresa che abbiano invaso tutto il mondo alla ricerca di un clima migliore.
Oh shit weather! Fuck this…oha John, take your bloody gun let’s go to the India.
Il Colonialismo non è stato un orrendo crimine, è stato un’impellente necessità dettata dalla sopravvivenza.
Immaginate il povero cristo di Birmingham che si trova di fronte i Boeri, i Zulu o i Moghul, la scelta era caricare i figli di puttana o ritornare nel tepore grigio e umido della vecchia patria.
Cosa avreste fatto ?

E per finire ecco una rarità:

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Arrivederci al prossimo allineamento di pianeti compagno Sole.

Slon

Il Custode

A Seth non piaceva Raoen, lo rendeva nervoso.
Non era la distanza da casa a renderlo nervoso, né il cibo o la gente o il clima del luogo.

Cinque dei suoi sette compagni erano arrabbiati, furiosi, non in grado di compiere un lavoro degno e quando lavoravi oltre il confine un lavoro degno era l’unica opzione.

Il Consiglio voleva un morto e un trofeo.
Uomini arrabbiati possono procurarti un morto e un trofeo, qualsiasi esso sia.
Tre sere prima Lohan aveva ottenuto informazioni e un morto, per gli standard di Seth, gli stessi che lui insisteva a far adottare ai suoi uomini, le informazioni non costavano un morto.
Lohan aveva dimenticato quest’aspetto quando fece sputare sangue, vita e il nome della Locanda Altura dalla bocca di un mendicante. Lohan era arrabbiato, Lohan aveva dimenticato cosa era.
Questo era un altro motivo che rendeva nervoso Seth.

Il gruppo di cui Seth faceva parte non aveva un nome.
Un dettaglio che accresceva ancor di più la fama delle spie al saldo del Consiglio, sovrano delle terre di Pentel.
L’egemonia di Pentel era forte da secoli e si diceva che il Consiglio avesse orecchie ovunque, nelle case della sua gente e nelle case oltre i confini.
Niente di più falso. Il gruppo era stato inattivo per la grande maggioranza della storia di Pentel e aveva operato oltre i confini ben poche volte, compiti marginali, recupero di informazioni inutili.
Ma le storie su come senza muovere un solo battaglione Pentel difendesse i suoi interessi con solo pochi invisibili uomini erano tante lo stesso.
Ora era diverso, il gruppo era in terra straniera per prendere la testa di un uomo.

Questo era un ulteriore motivo che rendeva nervoso Seth.

Il Custode, secondo quando detto dal mendicante, era un frequentatore abituale della Locanda Altura.
Il Custode era il morto, la sua testa il trofeo.
Questo era il principale motivo che rendeva nervoso Seth.

Per uno cresciuto a Pentel l’insegnamento era che i seguaci del culto del dio morto erano ciarlatani.
La loro ostentazione contro il progresso e la modernità e il semplice fatto di adorare un dio morto non portava altro che derisione. Nessuno badava a loro, nessuno era preoccupato da loro.
I Custodi susseguitesi nel corso degli anni avevano svolto la loro opera di predicazione tenendo vivo un culto in emorragia di adepti, trent’anni prima il Custode Foval aveva danneggiato varie costruzioni industriali e ferrovie con la motivazione che tali opere sfiguravano il cadavere di Vannohel, il dio morto.
La visione di Foval era delirante: Il cadavere non era altro che la Terra stessa e i cultisti, in quanto curatori del corpo, avevano il dovere di compiere atti di terrorismo per fermare lo scempio.
Fovel penzolò da una corda in breve tempo, il Culto fu dichiarato illegale e si nascose in una clandestinità mai troppo osteggiata.

Montebiel era un fiorente porto e la sua industria arredava di nero il cielo sopra la città, le ciminiere sputavano giganteschi spifferi scuri giorno e notte. Quel nero cielo e i nuvoloni gialli erano simbolo della ricchezza di Pentel, Montebiel non era la capitale ma era la turbina della nazione.
Fino a quando, poche settimane prima, Montebiel aveva cessato di esistere.
Il nuovo Custode operava lì, pochi se ne interessavano, era solo l’ennesimo ciarlatano dalla bocca larga.
Le parole dei pochi sopravvissuti al cataclisma di Montebiel avevano acceso una miccia in tutta la nazione, false o vere ora gruppi di seguaci si riunivano in un vero e proprio esercito. Non ancora pericolosi ma alquanto noiosi.
La storia era di sicuro falsa e stupida: si diceva che il Custode avesse cominciato a camminare sulla spiagge seguito da altri cultisti e dall’acqua del mare, in una notte gran parte della città era stata inghiottita.
Non c’erano vere spiegazioni sul perché l’operosa Montebiel fosse morta sotto la foga di una violenta e inaspettata marea ma la coincidenza con i tumulti dei Cultisti preoccupava il Consiglio già indaffarato con questioni ben più urgenti e ora la civile nazione di Pentel voleva una testa da esporre per calmare gli animi, per far capire ai disagiati religiosi che non c’era alcun dio morto e vendicativo.

Era idea di Seth che un’esecuzione avrebbe dato altre motivazioni alla loro causa ma la politica non era il suo campo.

Quella era la terza notte alla locanda, era la terza notte che lui e i suoi pretendevano di passare per normali consumatori, sommersi in quel circo di canzoni improvvisate, chiacchiericcio continuo, puzza di alcol e gente disgustosa in generale. Del Custode nessuna traccia eppure le voci dicevano che si era spostato a Raoen.

Seth fissava la struttura in legno.
La locanda era su due piani, la sala al piano terra era composta da trenta tavoli, più una grande tavola comune, la cucina non era separata dal resto, sulle griglie grossi pezzi di carne cuocevano senza mai una sosta, il grasso colava sulle fiamme inondando l’aria di un odore dapprima appetitoso e di seguito nauseante quando sostavi lì per una notte intera. Le travi di legno erano annerite dal fumo e potevi grattarci grosse il grasso spalmato dalle lunghe grigliate. Servivano solo birra e vino, entrambi annacquati, le bevande distillate non erano comuni in Raoen. Il gestore era un grasso puttaniere che offriva sempre le due cameriere, grasse quasi quanto lui, agli ubriachi collassati sui tavoli dopo la chiusura, ci teneva a specificare che non erano le sue figlie, lui non avrebbe mai fatto prostituire le sue figlie, infatti loro erano a Tiugh da suo fratello che aveva un locale parecchio elegante ma meno rustico del suo e comunque sono trenta Coppe o quarantacinque se vuoi passare la notte nelle stanze di sopra. Due compagni di Seth avevano provato le cameriere la notte prima, probabilmente più per il desiderio di togliersi dalle tasche un conio con un nome tanto stupido che per il desiderio di fotterle.

Al piano di sopra c’erano quindici stanze, variavano da i due letti fino ai sette. Erano semplicemente scompartimenti con letti di paglia, pareti sottili quanto una foglia, se un solo ospite fotteva una delle cameriere anche gli altri, in un certo senso, la fottevano.

Quando l’uomo in tonaca nera tolse il cappuccio dalla testa i capelli argentei attirarono subito l’attenzione di Seth portando via i suoi occhi dalle travi di legno.
La descrizione del Custode parlava di un uomo basso, dai lineamenti appuntiti, capelli argentei, carnagione chiara e faccia libera da rughe, un ventenne forse, a differenza di quanto dicevano i capelli.
Seth fece scivolare sul polso la piccola lama che teneva nascosta nella manica e comincio a camminare tra il vociare assordante verso l’uomo, vicino alla tavola comune.
Quattro dei suoi stavano già facendo lo stesso movimento, ansiosi di affondare i loro ferri nella carne dell’uomo che aveva distrutto Montebiel, anche se in realtà era stata solo una tragica e improvvisa marea.
Il Custode si girò verso Seth fissandolo con i suoi occhi vitrei, Seth ricambiò.
Un ubriaco ondeggiante con due boccali per mano lo colpì con la spalla, un boccale cadde esplodendo in piccoli pezzi di vetro, anche la lama cadde per l’impatto, l’occhio di Seth andò verso il basso vedendo l’esplosione, fu lì che si accorse che il vociare era sparito anche se nessuno aveva smesso di parlare, non c’era più alcun rumore, il vetro si frantumò in silenzio e la lama si piantò al suolo senza dire nulla.

Seth tornò a guardare davanti a sé, il Custode era sparito, lentamente i colori si dilatarono, tutto stava diventando bianco nella locanda, le pareti in legno, le travi, il rozzo pavimento di terra battuta, le facce, ogni cosa.

In breve Seth era da solo in nessun luogo, tutto era bianco, tutto era indistinguibile.
Dì il mio nome. Gli ordinò la voce.

Slon

Un Incontro (II)

 

 Praga, 30 novembre 2022

Sono appena al mio terzo whisky, e le mani mi tremano già che è una meraviglia. Rovescio quasi mezzo bicchiere sul bancone, bestemmio e scolo d’un fiato il resto, prima di combinare altri guai. Resisto alla tentazione di ordinarne subito un altro; stringo i denti e mi costringo ad aspettare almeno dieci minuti. Mentre le dita fanno spola dalle gocce sul bancone alla mia lingua, gli occhi stanchi mi cadono sul grande schermo acceso in fondo al locale.

Danno un retegiornale. Non c’è volume, non serve. Seguo una serie di servizi cronometrati, 50 secondi l’uno. Il vento tossico in medio oriente. Le piattaforme di contenimento nel pacifico. Stronzate politiche con la Cina, forse un embargo. Strage e saccheggi in vaticano. Colpo di stato a Cape town. Pubblicità.

Ordino il mio quarto whisky.

Nemmeno me ne accorgo, quando lui mi si siede di fianco. O forse me ne accorgo, ma non me ne frega nulla. Pronuncia il mio nome con tono interrogativo. Dopo circa un minuto di silenzio ci riprova, e stavolta aggiunge “lo scrittore?” alla fine.

Devo ammettere che è una domanda piuttosto interessante, soprattutto qui, soprattutto ora. E’ quasi un peccato che abbia già altri bellissimi piani per la serata. Non rispondo, fra un po’ si stancherà e

“Karim Mureau, nato ad Annaba il 17 maggio 1989. Famiglia normale ma assente, anche a causa della tua natura fredda e schiva fin da piccolo. Cresci in periferia con pochi amici, senza imparare granchè della vita. A 16 anni ti trasferisci in Inghilterra con i genitori…”

Le mie dita stringono il bicchiere fino a sbiancarsi, e qualcosa di biologicamente vicino al panico puro mi impedisce di voltarmi. Non tanto per quello che sta dicendo. E’ la sua voce. Ha cambiato voce. Ora è sottile, strascicante, incolore, gorgogliante. E’ come sentire parlare una palude. E’ come

“..ma una volta lì le cose non migliorano. Primi sintomi di narcolessia e allucinazioni ipnagogiche, ma nessuno prende la cosa sul serio. A 19 anni hai un attacco e ti addormenti mentre stai viaggiando da passeggero sulla moto di un amico. Cadi e vieni investito da un furgone. Resti in coma tre settimane. Dal tuo risveglio, la tua mente va in caduta libera. Università di Manchester, ti laurei a stento in filosofia…”

Sento dolore, mi accorgo che mi sto mordendo il labbro. Devo fare qualcosa, reagire, questa voce fa male, MORDE, ti scivola dentro è come masticare sabbia è

“..gli attacchi peggiorano con il tempo, non esci più di casa per paura. I pochi amici che hai ti abbandonano. Nei momenti di lucidità scrivi. Per pura fortuna più che per reale talento vinci un piccolo concorso letterario e pubblichi un libro mediocre con storielle sulle tue allucinazioni. Che peggiorano. Diventi un ometto patetico e paranoico che prende aerei a caso nel cuore della notte per sfuggire a ombre viste sui muri. Affitti monolocali in città che non conosci e passi intere nottate nei bar senza muoverti, sempre nella stessa sedia. Il mondo muore intorno a te e l’unica cosa che riesci a pensare è che sia tutto così norm…”

“SILENZIO!”

La mano scatta da sola, senza chiedere la mia opinione. Batte sul bancone mandando in mille pezzi il bicchiere. Mi volto. E’ un uomo. Non fa paura. E’ vestito bene, completo marrone e lungo soprabito nero. Ha un vecchio cappello e dei piccoli occhiali da sole. E’ ben rasato. Molto pallido. Quasi bianco. C’è una macchia nera sulla sua guancia destra. Sembra quasi che si muova leggermente, che galleggi sopra la pelle. In effetti fa paura. Sono ubriaco. E’ a piedi nudi, anche se mi accorgerò solo più tardi di questo. C’è qualcos’altro che galleggia, dietro le lenti dei suoi occhiali. Fa scivolare il suo bicchiere verso di me. Whisky, naturalmente. Sorride. Gesticola, indica il liquore, mima una sorsata. Quando comincio a piangere, piega esageratamente le labba all’ingiù. Mi mette la mano sulla spalla.

“Silenzio”, sussurra.

Le sue dita sono roventi, sento il calore attraverso i vestiti. Non so perchè ma ho la certezza che se provassi a fare resistenza, semplicemente mi strapperebbe via il braccio.

Non faccio resistenza.

“C’è qualcosa che devi vedere. Andiamo a fare un giro in macchina.”

 Kiree

#PILLOLELDCDS 5

Carnival Cunt, il suo nickname.
Simpatici i siti d’incontri, un catalogo di facce, puoi sfogliarlo come quello dell’IKEA e scegliere il Lack fatto apposta per il tuo soggiorno.
E come per il Lack non leggi la descrizione, niente altezza, larghezza, lunghezza, peso o colore. Decidi solo con la foto se cliccare o no “compra”.
Carnival Cunt aveva scelto un autoscatto ben riuscito, mostrava il suo viso rotondo, pelle color perla, un ferro nel naso, diversi nelle orecchie, Ray Ban davanti occhioni azzurri, capelli tinti rosso forte.
E Carnival Cunt è un nickname dannatamente divertente.

Mi scrive che i suoi occhiali non sono da vista ma da ornamento.
Mike McCready è il più grande chitarrista di sempre.
Si incazza perché non ho la minima idea di chi sia.
Linka una decina di canzoni, fanno cagare tutte.
Sì domani sera sarebbe bello prendere un caffè.

Il culone era ben nascosto nella foto, i capelli hanno una ricrescita nera. Due dettagli che apprezzo.

Fondamentalmente è solo lei a tenere vivo il discorso.

Apatia. Apatia. Apatia.

L’emisfero destro si fa pesante, il fischio sordo che penetra le mie orecchie zittisce la sua voce, entra in testa prende i miei pensieri portandoli lontano, tipo quella volta che nel 96 quando spaccai col pallone lo specchietto destro di un’auto, un senso di colpevolezza, paura e vergogna mi stringe il collo, qui, diciassette anni dopo come allora.
La ragione alza la voce, fa notare il ridicolo della situazione, il fischio la zittisce immediatamente. Le ricorda quando odio mio padre.
Le ricorda ogni momento vissuto nel terrore di deluderlo, ogni decisione sbagliata o rimandata all’infinito solo per non deludere lui.
La ragione ora urla che è colpa di mio padre se questa è la prima e l’ultima volta che vedo Carnival Cunt, è colpa sua se la vita non è facile, è colpa sua se non ho mai avuto una motivazione qualsiasi che mi spingesse a migliorarmi, è colpa sua se prima di fare qualsiasi cosa affogo nell’ansia.

Odiare le persone è più facile che amarle o semplicemente sopportarle.

E non sopporto più Carnival Cunt, non sopporto il suo continuo tentativo di trascinarmi nella conversazione.
L’orgoglio fa squadra col fischio e con la ragione, urlando che non ho bisogno della sua compassione. Cercare di farmi parlare non è una cura per la sua noia ma compassione per me.
Cosa curiosa l’orgoglio.

Anche lei è stanca e gentilmente si congeda. Finalmente.

Niente stronzate nichiliste e altra roba da lauree fruttuose, semplicemente accade questo quando hai tre cose che urlano nella tua testa.

Slon

L’astrazione dei treni [terzo tratto]

Sabato pomeriggio, ai margini del centro città: significa torme di studenti e soprattutto studentESSE pericolosamente adolescenti che si spostano verso le zone più chic. Com’è che non l’ho capito subito?
– È il massimo per un vecchio pedo infoiato come me.
Ovviamente non ha detto questo. Non ho la minima idea di cosa abbia detto realmente, io ho registrato solo quello che intendeva realmente dire.
= Capisco perfettamente la situazione, sì.
– Lei approva queste mode nei vestiti d’oggigiorno, così parche di tessuto? Io sì.
= Mentirei se dicessi di no.
Me ne rendo conto, del resto. Il vecchio ha una strana luce felice negli occhi. Ha riconosciuto un simile? Bravo coglione, mi dico.
– Mi dica, che lavoro fa?
“Sono nella buoncostume”. Sarebbe una bella risposta.

 

Opossum

Una bella serata (pt.3)

Per parecchi anni Frank fu l’ultimo.
Un mese dopo il parcheggio della tavola calda ritrovarono Melanie nella sua cantina, qualche anno dopo Frank veniva legato sulla sedia e fritto come pastella.

Intanto mi ero spostato a est, in New Jersey.
Nei trent’anni di tranquillità che seguirono non trovai discepoli degni, ci fu un Samuel ma deluse le aspettative quando vomitò in piena faccia della cameriera di Morristown, rovinando il gran lavoro di esportazione che avevo appena finito.
Quella sera stessa feci un altro lavoro di esportazione, sulla sua faccia, con uno specchio ben piazzato per dargli un buon panorama.

Tentai di nuovo con un Robert, lui era quello che definirebbero malato ma in realtà era solo un animale.
In mia assenza lui giocava con i corpi.Roba fuori dalla civiltà, faceva disgustosi “esperimenti” amputando e ricucendo parti come se il corpo fosse un Mr Potato di carne.
Inoltre aveva rapporti carnali con loro, non solo nelle canoniche vie ma ricavandone di nuove in altre parti.

Inaccettabile e selvaggio. Non sono una bestia e non cerco bestie.
Gli sparai, non volevo toccarlo. E’ stata l’unica volta in vita mia che ho sparato.

La mia dote divina era andata via e non sarebbe tornata per diversi anni.

La prima volta che poggiai gli occhi su Edward fu in un bar di italiani ad Hammonton.
Capii subito cosa era.
Quella notte pedinò due donne che aveva visto nel bar e lo stesso feci io con lui.
Era bravo, loro non si accorsero di nulla. Contai circa tre occasioni in cui avrebbe potuto fare quello che voleva fare indisturbato ma lui esitò ogni volta, un muro nella sua coscienza dove andava a sbattere il suo desiderio stoppandone la sua corsa.
Aveva bisogno di una spinta.

Lo osservai per una settimana, di giorno lavorava a una decina di metri d’altezza maneggiando cavi elettrici e di notte pedinava gente.
La notte con sé portava un volgare coltello da cucina, lo estraeva di tanto in tanto sfregando le dita sulla lama.
Quando lo seguii a casa sua fui sorpreso di scoprire che non viveva da solo: aveva una moglie.
Era una prima volta, adoro le prime volte. Tutti i miei discepoli erano lo specchio della solitudine, Edward no, aveva una moglie e dalla faccia ruvida e tumefatta di lei era chiaro a cosa lei servisse.

Quella sera lo baciò e così fece ogni sera, persino quella volta che le prese il volto tra le mani, schiacciandole le tempie e tirando le orecchie in basso quasi come se volesse strapparle.
Dalla sua bocca non uscì nemmeno un gemito di dolore, appena lui ebbe finito, lei si ricompose prese la giacca che il marito aveva buttato sul pavimento appena rientrato a casa, svuotò le tasche, coltello compreso, sistemò ogni cosa al suo posto e dopo andò da lui per il suo bacio.

Quei due avevano la mia curiosità, erano una dannata novità.

Quon Cheng aveva tredici anni, era membro della risicata comunità asiatica del posto.
Quando non rincasò quella sera la preoccupazione cominciò a diffondersi lentamente come olio versato su una superficie piatta, una settimana dopo la sua faccia era ovunque.

L’avevo portato a casa di Edward la sera stessa in cui lo rapii.
Fu un buon lavoro, piacevole tempo e piacevole compagnia.

Proprio una bella serata.

Slon