La calma dei sicofanti

Durante il primo giorno dei suoi arresti domiciliari, Kaspar Massof sedeva tranquillo e composto all’unica sedia presente nel suo appartamento. Fissava soddisfatto la grande finestra in salotto, che si era premurosamente adoperato a ricoprire con lenzuola e federe, dato che non sopportava l’idea di osservare il mondo che si muoveva mentre lui era obbligato a stare fermo. In grembo teneva un grosso quaderno a righe nuovo di zecca, che aveva già iniziato a riempire con i calcoli delle ore che mancavano allo scadere della sua condanna. E pensava, senza rancore ma con genuina curiosità, all’espressione calma e distratta dell’uomo che l’aveva accusato e fatto imprigionare ingiustamente. Non sapeva perchè l’avesse fatto, ma sapeva che un giorno l’avrebbe incontrato di nuovo e in un modo o nell’altro avrebbe ottenuto le risposte che gli spettavano.

Era solo questione di avere pazienza.

Dodici anni più tardi, seduto alla stessa identica sedia, Kaspar Massof respirava rocamente, lisciandosi la barba incolta con ossute dita marroni. Le lenzuola erano scivolate a terra da chissà quanto, ma a Kaspar non importava, perchè il mondo fuori aveva comunque smesso di esistere. Il quaderno giaceva dimenticato al suolo poco distante, le pagine ingiallite, ricoperte da intricate foreste di numeri malati e insignificanti. Anche pensieri e ricordi si erano ammalati nel tempo, cominciando a morire silenziosamente uno dopo l’altro, dissolvendosi tra le onde del torpore immobile che aveva sostituito la vita. L’ unica cosa che ancora rimaneva salda e chiara era un viso, un viso familiare, dall’espressione calma e distratta.

Prima o poi sarebbe uscito, di questo era sicuro; e quando fosse accaduto, tra pochi minuti o decine d’anni, Kaspar Massof avrebbe trovato sè stesso e si sarebbe fatto spiegare cosa era successo alla sua vita.

Kire

La paura dei colori

L’orologio analogico da due soldi appeso alla parete ovest affermava fossero le ventitrè e trentasette, e non c’erano motivi particolari per non credergli. Sotto di lui, seduti tutto fuorchè comodamente in striminzite sedie di plastica bianche, si trovavano quattro sconosciuti dai nomi qualsiasi.

Per ognuno di loro era la prima volta. Ognuno di loro aveva sentito storie. Ognuno di loro si muoveva in turni inconsapevoli, spostando lo sguardo dal pavimento lurido alla parete est, dove una malandata porta di compensato spiccava come un ascesso da un muro di mattoni grezzi.

Ognuno di loro era profondamente simile agli altri in almeno un aspetto: la confusione. Ognuno di loro riusciva a vedere l’ombra delle cose nascoste dietro le cose, ma senza poterle afferrare o capire, né attraverso la ragione, né attraverso i sensi. Avevano imparato a mistificare, ognuno secondo le proprie capacità, con gli altri e con sé stessi, ignorarando il perenne cuore pulsante di rumore statico che li avrebbe altrimenti imprigionati dietro i colori vivaci di un’esistenza balbettante e vagabonda. La monocromia era una fede, che ognuno di loro stava perdendo.

C’era una quinta persona nella stanza. La stessa che, dopo le dovute formalità, aveva scortato i quattro sconosciuti fino alle soglie del Segreto. Era un omino basso e minuto, di origine asiatica, con dei vestiti talmente vecchi e sporchi che a strapparglieli si sarebbero tenuti la pelle. Sedeva silenzioso alla parete nord, concentrato in un rotocalco che aveva raccolto dall’immondizia sparsa al suolo. L’umidità aveva fatto gonfiare e strappare le pagine, e le celebrità in copertina apparivano ora più deformate di quanto non fossero già state, i sorrisi mutati in pallide anguille di perfetta menzogna, gli sguardi dssolti dentro pozze di parole miserabili.

Il tempo e il silenzio passeggiavano insieme con calma, borbottando nelle loro lingue incomprensibili, ma si fermarono quando un rumore cominciò a squittire oltre la porta di compensato. Un rumore mai sentito prima, dal tono interrogativo, che in qualche modo cigolava avvicinandosi all’uscio. L’omino minutosi alzò e cominciò a parlare rivolto alla porta: le sue labbra si muovevano senza alcun suono ma la sua risposta sembrò gradita al cigolio curioso, che si spense in una nota finale di soddisfazione. Dopo questo scambio, senza ulteriori frivolezze, l’omino uscì dalla stanza attraverso la porta nella parete sud dalla quale erano arrivati.

I quattro sconosciuti che non capivano i colori osservarono il buio che sgorgava copioso dall’ascesso a est, ora esploso. Guardarono in quello che era ignoto. L’Ignoto guardò in loro, e il suo ruggito fu maestoso. Ciò che era reale trattenne il respiro e il segreto ballò per poco meno di mille anni.

Poi la fragile porta si richiuse.

L’orologio analogico da due soldi affermava fosse mezzanotte in punto, ma nella stanza non c’era più nessuno interessato alle sue opinioni.

 

Kire

Da Nessuna Parte

 “Senti qualcosa?”

Natalya sollevò lentamente le palpebre. I suoi occhi sembravano sorbire la luce del tramonto come se fosse vino da un calice. Un giorno di venticinque anni prima, alle elementari, una compagna di classe l’aveva accusata con un certo entusiasmo di essere brutta. Da quel giorno Natalya non si era mai sentita bella, ma in quel momento sul suo viso era dipinto qualcosa che avrebbe fatto accelerare il cuore di chiunque fosse anche solo un minimo sensibile alla grazia.

“Per qualche instante ho avuto la concreta sensazione che stesse nevicando. Ora è passata.”, rispose.

“Bah. Io non sento nulla.”

In Ivàn non c’era nulla che fosse sensibile alla grazia. In quello stesso esatto giorno di venticinque anni fa, alle medie, fumava la sua prima sigaretta. Quella che si stava accendendo ora era la numero quarantottomilaseicentroventiquattro. Ma lui non lo sapeva.

“Non siamo ancora abbastanza vicini. Continuiamo ancora un po’.”

“Sono stanco di camminare, Na. Un conto è fare due passi ascoltando le tue stupidaggini per farti contenta, un altro è camminare dieci chilometri a cazzo in cerca dell’albero degli gnomi. Torniamo indietro.”

“Ma quali gnomi. Si chiama Davidia Involucrata, è un albero rarissimo pieno di fiori bianchi a forma di fazzoletto, è l’unico così da queste parti. Mia nonna mi ci portava sempre da bambina. Ci si sente bene vicino a quell’albero. E’ vero. A volte si hanno visioni. Nonna diceva che che all’ombra di quell’albero si sentono respirare altri mondi.”

“Tua nonna era una pazza rincoglionita, sparava ai gatti randagi con una balestra.”

“Non le piacevano i gatti, non vuol dire fosse pazza. E poi è vero, mi sentivo sempre bene vicino alla Davidia.”

“Eri una bambina, Na. I bambini non hanno bisogno di motivi per sentirsi bene. Sta facendo buio, torniamo indietro.”

“Non può mancare ancora molto. Se lo troviamo te la do.”

“Beh…ma se non lo troviamo entro poco io torno indietro in ogni caso, ti avviso.”

Natalya e Ivàn si immersero nel tramonto e camminarono ancora un po’, facendosi coraggio a vicenda, ognuno sperando di trovare qualcosa che li facesse sentire  vivi.

Kire

L’intravisto

L’autobus era partito da pochi minuti.

Quando cominciava esattamente la storia di oggi? E come si svolgeva?

La comparsa non se lo ricordava. Aveva da sempre la brutta abitudine di leggere i copioni solo superficialmente, o di non leggerli affatto. La cosa aveva già creato problemi in passato, ma lei non riusciva proprio a ravvedersi. Scrutò le altre comparse, in cerca di indizi su come dovesse comportarsi, ma non incontrò nessuna verità particolare. Alla fine decise di indossare un’espressione qualunque e si mise a guardare per finta l’enorme scenografia attraverso il finestrino, persa nelle sue fantasie personali.

Poco dopo l’autobus si fermò, aprendosi a una giovane donna dallo sguardo velato di lacrime. La porta automatica si richiuse quindi con uno sospiro meccanico, lasciando intravedere per un istante un ragazzo dall’espressione confusa e sconfitta, in piedi alla fermata. Non un’interpretazione memorabile, ma nessuno se ne accorse.

Il tempo di girare l’angolo e il veicolo si fermò nuovamente. La giovane donna, che ora non piangeva più e sembrava scocciata, scese velocemente seguita da tutti gli altri figuranti. Al loro posto salirono le persone normali, con il loro chiacchericcio e i loro problemi, e l’autobus riprese il suo giro abituale.

La comparsa era ancora al suo posto, lo sguardo bene a fuoco sul nulla, e non si accorse minimamente di tutto ciò. Rimase seduta e continuò a recitare a lungo, fantasticando del giorno in cui sarebbe stata finalmente ingaggiata per un ruolo da protagonista, su come sarebbe stata emozionante e diversa e indimenticabile la sua storia.

 

Kire

 

L’ora prima

Improvvisamente alzò la testa: il problema era ancora irrisolto e c’era nell’aria quella sensazione tipica dell’ora prima dell’alba che è così terribile per chi conduce una vita dubbiosa”

(B. Stoker)

Se ne stava lì tranquillo, la testa appoggiata dolcemente al vetro della finestra aperta, e guardava fuori, ascoltava soprattutto, piccoli rumori della notte, i vagiti dell’anno appena nato. Non un grande spettacolo. La strada di periferia dormiva tranquilla e senza sogni, e andava benissimo così: bastava lui da solo, per popolarla di carnevali, di rivoluzioni, di assalti alle diligenze, di artisti di strada, di ricettatori di speranza, di venditori di fumo, di criminali famosi, di presidenti sconosciuti, di candele immobili, di paesaggi che tremano al vento, di esploratori del tutto, di cartografi del niente, di Re disoccupati,

di

Smisurati porti notturni, di sale da gioco orientali, di enormi treni a forma di bara, di binari fatti di sogni, di torri, di carri, di lettere da luoghi distanti, di maniglie che galleggiano negli specchi d’acqua, di lucchetti troppo complicati, di vie d’uscita troppo semplici, di profumi nascosti nelle parole, di parole nascoste nel silenzio, di casalinghe che lucidano lavandini, di fogne che straripano, di gente che bussa, di gente che prega, di Dei sospettosi, di inquilini sordi,

di

Risate sguaiate, di sguardi calmi, di denti che battono, di bicchieri che si toccano, di poesie dimenticate nell’erba alta, di note attutite dal cigolare dei motori, di sorrisi fotografati per sbaglio, di quadri di pelle impolverata, di colori strappati, di voci rotte dall’emozione, di emozioni rotte dalle voci, di incontri, di carezze, di guerre, di certezze, di aghi conficcati sotto le unghie, di addii.

Sospirò. La strada era ancora vuota e silenziosa. Lontano, nei punti più timidi dell’orizzonte, scorse i fari dell’alba, che rincasava guidando piano.

Decise che non aveva voglia di vederla. Spense la sigaretta e andò a dormire.

Kire

L'ora prima - by Anna (theannuz@gmail.com)

L’ora prima – by Anna ([email protected])