Αχέρων [iii]

La zattera procedeva senza fretta particolare, al ritmo delle tranquille remate del traghettatore. Lui si era seduto alle sue spalle, senza una parola, quando -ancora sulla riva- il vecchio aveva girato la misera imbarcazione. Nell’anziano non pareva  ci fosse la minima curiosità verso il suo passeggero, che dal canto suo aspettò il momento in cui il rematore avrebbe detto qualcosa. Il momento non venne e anzi sembrava non dover mai venire. Per cui.
– Quanto è largo questo lago?
La risposta venne da una voce sorprendente. Sorprendentemente normale: – E’ un fiume.
– Un fiume? – Era davvero sorpreso – E’ vastissimo.
– E’ quanto basta.
Non era granchè come interlocutore, certamente. Lui aspettò invano che la discussione continuasse, ma l’accompagnatore rimaneva taciturno e si sentì costretto a riprendere l’iniziativa. Quel silenzio lo sfiancava, e ne aveva avuto anche troppo ultimamente.
– Mi sarei aspettato di vedere più movimento.
– E perchè mai?
– Beh, muore tanta gente…
– E tanta gente vive. Ma lo stesso il vostro mondo è in gran parte deserto.
La logica gli pareva fallace, ma non fece in tempo a protestare, perchè stavolta fu il vecchio a riprendere.
– Come ti chiami?
Fu preso alla sprovvista. Gli disse il proprio nome.
– E perchè sei qui?
Non sapeva se rispondergli. Non trovava una sincera curiosità nel tono di voce, che restava completamente neutro. Per di più parlava alle spalle del traghettatore e non poteva scrutarne il viso per farsi un’idea dei suoi pensieri. Qualora ve ne fossero, ovviamente. Giocò la carta della verità.
– Io… Conoscete la storia di Orfeo ed Euridice?
Ci fu silenzio per alcuni secondi.
– No.
– E’ una vecchia leggenda di amore e morte.
– La posso immaginare. Oppure non posso. O magari non voglio. Lascia stare. Tutte le storie sono uguali.
Rimase piccato, nonostante un certo sollievo. – Siete diverso da come mi aspettavo, sapete?
– Sapevi di me?
– Siete molto noto. Un vecchio italiano vi incontrò e scrisse di voi.
– So di chi parlate. Che disse di me?
Quando sentì la risposta l’anziano abbandonò per la prima volta il proprio distacco e scoppiò in una rauca risata. Si fermò per mormorare: – Caron dimonio dagli occhi di bragia… lo sapevo che ne aveva di fantasia. – e riprese a ridere.
Il suo ospite ne fu sollevato. Aveva temuto di offenderlo. La risata dello psicopompo lo aveva rincuorato, e pose una domanda che lo tormentava dall’inizio del viaggio.
– Mi hanno detto che si può tornare.
– Ti hanno detto il vero. Tornare è possibile. Non impossibile. E non certo.
L’eco dell’ultima vocale non si era ancora spento che la zattera toccò qualcosa. Era l’altra riva. Il traghettatore si voltò verso il suo passeggero. Lo sguardo lo invitava a scendere.
Passò sul terreno. Era a disagio, cercava il modo più semplice per accomiatarsi: – Devo lasciare un obolo? Temo…
Il rematore lo fissò. Occhi mortalmente seri. – Molti sono scesi quaggiù, in tempi lontani, pensando di poter pagare i miei favori con i loro strani simulacri metallici. Quegli oggetti tappezzano il fondo del fiume su cui siamo, se quel fondo esiste, cosa che personalmente ignoro. Io non sapevo che farmene. Ora ascolta. Forse ti ho mentito o forse no. Forse ho sempre saputo chi sei. Forse conosco meglio di te le strane storie che citi, e forse non ho mai incontrato poeti, o anche proprio nessuno prima di te. Forse non ho incontrato nemmeno te.- S’interruppe. Lui si sentiva gelare. Lo psicopompo riprese: – Continua a camminare, allontanati dalla riva. Forse troverai quel che cerchi.
– Non mi augurate buona fortuna?
– Perchè mai?
La zattera si allontano dalla riva. Un minuto dopo non esisteva già più.

 

Opossum

Mobilitat mortis [ii]

Le scarpe erano rimaste in albergo, e ok. Così la strada la doveva fare tutta a diretto contatto col suolo, perchè si trattava di camminare -e anche tanto-, piante a terra e niente lamenti. Scoprì che la cosa era sorprendentemente facile. Le pietre squadrate su cui procedeva sin dall’inizio non erano il massimo della comodità, per i piedi, ma ancora non sentiva dolori o fastidi. Forse che essere morti facilitava le cose? Poteva solo supporlo.
Era sceso per una scala a chiocciola dai larghi gradini in pietra e dall’ampissimo raggio, nell’oscurità quasi completa, senza sapere come si fosse ritrovato lì. La scala saliva e scendeva nel buio. Prese per il basso e scese parecchio prima di toccare infine il suolo. Fu sorpreso di vedere che la scala aveva termine ma, si dise poi, doveva pur essere così.
Ancora nero tutto intorno e pietroni come terreno. Intuiva attorno a sè la vastità dello spazio, sebbene invisibile, ma con la strana sensazione di non trovarsi all’aperto. Un luogo chiuso con le pareti a giorni di distanza fra loro. Possibile?
E perchè mai avrebbe dovuto essere impossibile?
La marcia riprese, anche se non sapeva proprio da che parte dovesse andare. Semplicemente si allontanò dalla scala prendendo una direzione qualsiasi, per quello che gli parve qualche giorno di ininterrotto cammino su quella superficie piatta e tutta uguale, nell’oscurità quasi totale. Fu senza preavviso che ad un tratto la terra gli mancò sotto i piedi: al buio non aveva potuto vedere che il terreno finiva, e cadde in quella che aveva tutta l’apparenza di essere acqua, con un capitombolo da commedia del muto.
Si riarrampicò imprecando sull’asciutto – c’era un dislivello di trenta centimetri – e si distese. Non poteva vedere quasi nulla, ma lo specchio d’acqua non era un ostacolo da affrontare alla leggera, lo sapeva. Come sapeva che per ora non poteva più fare nulla.
Era di nuovo impotente, intrappolato nei meandri dell’attesa. Restò sdraiato e zuppo, senza muoversi. Se non altro, non sentiva freddo.

L’attesa si protrasse per parecchio, ma lui aveva già da un bel po’ rinunciato a farsi un’idea di come scorresse il tempo da quelle parti: senza riferimenti esterni doveva basarsi sulle sue sensazioni, che di certo erano completamente inattendibili. Era ancora sdraiato ma si era ormai asciugato, e cercava di cogliere qualche indizio di vita nel vuoto che lo circondava. Ne sarebbe ben dovuto arrivare uno, prima o poi. E infatti arrivò. Si rialzò a mezzo e fissò il nero davanti a sè.
Era un rumore vago e acquoso: qualcosa che si muoveva nel bacino di fronte a lui. Aspettò, e sentì il suono crescere. Ancora un po’, e un bagliore spezzò debolmente l’oscurità. E quando rumore e luce furono vicini potè finalmente vedere una zattera, una lanterna, un remo e, soprattutto, il proprietario di queste tre cose. Vecchio, pareva vecchio: e aveva ben ragione di esserlo. Era grigio, smunto, pallido, estremamente trascurato nell’aspetto. Ma gli occhi erano curiosi e vitali, e le mani manovravano il remo e la barca senza sforzo.
Il vecchio lo guardava con una certa tranquillità. Lui era ancora semisdraiato, e stentava a decidersi ad alzarsi. In quel teatro crudelmente insensato le due surreali creature restarono a fissarsi per un po’.

Opossum

La genesi di un recupero [i]

Per quanto si potesse far viaggiare lo sguardo dal battiscopa al soffitto e attorno alle pareti, la stanza appariva grigia e ruvida quanto un rifugio partigiano. E umida quanto una trincea in un giorno di pioggia. Essenziali i mobili, poche le suppellettili; nudi e scabri i muri, che avevano visto il loro ultimo imbianchino in tempi dimenticati ed erano lievemente ammuffiti e percorsi da rade ma inquietanti tracce di sgocciolamenti, segni verticali di gocce che erano penetrate in giorni di forte pioggia ed avevano passeggiato indisturbate verso il pavimento in cerca di un bel posto asciutto dove morire. Era l’ultimo piano, sopra di lui solo il tetto. Poteva supporre fosse fatto di carta velina, e per quel che vedeva poteva pure essere vero.
Non c’era bagno. I servizi stavano fuori, in fondo al gelido corridoio sul quale la stanza si affacciava e dal quale era separato da una porta che, soprannaturalmente in quella trascuratezza, era il solo oggetto in sorprendente buona salute. La porta avrebbe ragionevolmente difeso ogni cosa contenuta nel locale. I muri davano meno affidamento.
Un albergo poco ospitale, senza dubbio. Ma era così che voleva.
Lui, sdraiato supino sul letto, completamente vestito -solo le scarpe giacevano accanto sul pavimento- fissava il grigio soffitto sopra di sè, gomiti in fuori e mani sotto la testa: la più classica delle fisionomie, per un uomo pensieroso sdraiato sulla schiena. Era lì già da qualche ora, e c’era tutta l’apparenza che qualcun’altra ne sarebbe trascorsa prima che qualcosa mutasse nella sua posizione. Finora solo l’irregolare battito delle palpebre e il costante lavoro del diaframma indicavano presenza di vita nel suo corpo.
Passò qualche tempo, ma non poi troppo, prima che lui girasse la testa verso sinistra: la prima iniziativa che avesse preso da quando si era gettato sul letto. A sinistra stava la finestra, da cui un chiarore da cielo lattescente penetrava a rischiarare quell’atmosfera beckettiana.
Dopo un respiro più forte si alzò. Il tempo del pensiero era finito e si mutava in quello dell’azione.
Si disinteressò delle scarpe, che peraltro stavano dall’altro lato del letto, e con severo sprezzo dell’incolumità dei propri piedi camminò sulle nude mattonelle fino alla finestra. La spalancò sul giorno nascente. La posizione era sopraelevata e la vista inaspettatamente dolce, in contrasto col luogo dal quale si affacciava: un vasto cortile pubblico, seguito da un fiume, seguito da una periferia qualunque di edifici rozzi e poveri ma a loro modo dignitosi.
Dopo aver guardato il panorama per qualche minuto, senza peraltro vederlo, abbassò gli occhi sul piazzale sterrato che si stendeva diversi metri più sotto. Il tempo del pensiero era finito, lo sapeva già. Abbassò le mani sul davanzale e scavalcò.

Pochi secondi, e fu dall’altra parte.

 

Opossum

Requiem? (Il Lento Risveglio della Memoria)

“Tradurre è tradire.”

Non so da quanto stessi scendendo, ma doveva essere parecchio.
Anche in condizioni normali, le scale che portavano giù alle Fornaci si inabissavano nella terra per svariate centinaia di metri; scenderle tutte, piano piano per via dell’illuminazione fioca e dei gradini sottili e scivolosi, richiedeva il suo bel tempo.
Nel mio caso, quel tempo andava almeno triplicato. Stavo trasportando, con molta attenzione e fatica, una vecchia sedia a ruote, in cui languiva una specie di mummia. Non quelle appartenenti a quell’antico popolo di cui avevamo sentito storie da viaggiatori di altri mondi: era semplicemente un corpo adulto, immobile, completamente fasciato da sottili rotoli di seta bianca.
Il suo peso, unito a quello della sedia viaggiante, non era indifferente: dovevo far scivolare le grosse ruote con sfiancante attenzione, gradino dopo gradino. Quando mi fermai in uno dei pianerottoli a prendere fiato, mi resi conto di essere veramente esausto: abbandonai per un attimo il mio carico e mi sedetti su uno degli stretti gradini a riposare e riflettere. Fu allora che lo vidi, accucciato in un angolo, nascosto nella penombra.

“Giornata faticosa?”

Era un uomo dall’età indefinibile, vestito di stracci e di un semidistrutto cappello a tesa larga, che gli oscurava tutta quella parte di viso non ancora reclamata dalle ombre. In grembo teneva un’antica guitarra di legno, le cui corde argentate uscivano disordinate dalla cassa per finire intrecciate alle dita e polsi dell’uomo. Un Artista, qui? Mi ero aspettato di trovare qualcuno durante la discesa, ma perlopiù i soliti vagabondi e derelitti disperati che ciondolavano da queste parti: questo incontro mi sorprendeva.

“Quanto ogni altra”, risposi. “Non ti avevo visto.”

“In pochi mi vedono. Per questo me ne sto qui.”

“Stai Creando? Qui sotto?”

“Sto riposando. Come saprai la Creazione richiede sofferenza, e ora come ora me ne resta poca.”

Fece un cenno quasi impercettibile con la testa, rivolto alla sedia viaggiante e al suo taciturno passeggero.

“Tu, invece, mi sembri ben messo.”

“No, non è come sembra. Non appartengo alla tua stirpe. Cerco solo di sbarazzarmi di qualcosa che mi è capitato per caso, e che mi sta dando solo problemi.”

“Oh, sera. Fammi capire. Tu hai tradotto i canti, e li hai incarnati in quel..quella cosa. E dato che non riesci a farci nulla, l’idea migliore che ti è venuta è sbarazzartene portandola a bruciare alle Fornaci? Tutto ciò è bizzarro. E stupido, lasciatelo dire.”

“Ti ripeto che non è così. Io non…”

Mi fermai di colpo, stupito. Aveva perfettamente, razionalmente, semplicemente ragione. Mentire è faticoso. Io ero stanco.

“Sia.”

“Perchè le bende?”

“E’ una vecchia storia che ho sentito una volta e che mi ha affascinato. Dovevo comunque coprirlo in qualche modo. Sotto è..non è bello.”

“Anche se è brutto come dici, dovrebbe comunque poter respirare, non credi?”

Alzò leggermente la testa, riuscii a scorgere un mento sottile, una barbetta ispida.

“Allora, hai scelto?”

“Scelto cosa?”

“Se continuare o risalire.”

Chiusi gli occhi. Da qualche parte, distanti, delle voci plananti cantavano sommesse.


K

La conversazione

L’evento che ricordo maggiormente di quel periodo è un’inattesa conversazione.
C’ero io con l’ufficiale di Torino e i due Inglesi.

Mi aveva in simpatia, l’ufficiale, e quella sera mi disse andiamo a parlare con gli Inglesi.
Potevo chiedergli un po’ di cose, magari come avremmo fatto a parlarci con questi Inglesi ma ricordavo quello che era successo tre giorni prima; uno di Valenzano aveva chiesto perché questi due praticavano spesso da noi, dopo tre tentativi per farsi capire dall’ufficiale aveva avuto come risposta un volgare invito a farsi gli affari propri.
Memore di questo non chiesi nulla e lo seguii, ricordando che i due Inglesi avevano spesso della buona roba, magari del caffè.

Mentre camminavamo nello stretto della trincea l’ufficiale mi spiegò un paio di cose, disse che uno di loro era figlio di un Duca, una persona eminente a cui era concessa anche la compagnia di Re Giorgio. L’altro era il suo servo ma lo chiamò in altra maniera, non ricordo che termine usò.
Continuò dicendo che a discapito di quello che potrebbe sembrare il futuro Duca non era propriamente una persona fine e di buoni modi o che forse un tempo, prima della guerra, lo era.
Oggi era “uno come noi”, disse.

Erano accovacciati al coperto dentro uno scavo nella parete e grazie a Dio bevevano del caffè.
Disse qualcosa all’ufficiale che con mia sorpresa rispose nel loro idioma.
Ci invitano a sedere, mi informò.

Sedemmo e guardando le facce dei due e il fango dove erano accomodati capii cosa volesse significare quel “uno come noi” usato dall’ufficiale. Non avrei saputo dire chi dei due era il Duca e l’avrei capito solo diversi minuti dopo quando me lo indicò l’amico di Torino rendendomi finalmente partecipe di quella conversazione e ledendo il mio imbarazzo.
Da diversi minuti i tre ridevano e oltre a porgermi del caffè non mi avevano considerato, finché l’ufficiale mi disse che il Duca lì, indicando con il dito, stava raccontando di una sua cameriera.
Diceva che l’aveva sempre in mente da quando tutto era cominciato, ricordava con piacere le ore di clandestinità trascorse con lei.
È la donna migliore al mondo mai ne troverà una come lei.
Raccontò della sera dell’ultimo giorno della sua ultima licenza, aveva appena finito di lavorare di bocca e appena sputò nel suo fazzoletto lo guardò negli occhi e disse: Ne vuoi un altro ?
Il Duca sostiene che queste siano vere parole d’amore; mille strofe di poeti decantanti cuori, stelle, oceano e altro sono solo roba buona per l’editoria. Quelle della cameriera sono le vere parole d’amore. Mi informò l’Ufficiale.
Ora nessuno rideva più, sorrisi leggermente e guardai il Duca, fissava il terreno con occhi lucidi e chiunque l’avrebbe visto in quel momento mai avrebbe creduto che poco prima rideva a crepapelle.

Ricominciarono a parlare la loro lingua e dopo aver finito l’Ufficiale mi traduceva il succo. Cominciai a farci l’abitudine con quel nuovo modo di conversare e nelle pause mi ritrovai a pensare che spesso tra di noi stessi avremmo avuto bisogno di un interprete come con gli Inglesi ora.
E pensare che combattevamo sotto la stessa bandiera per gli interessi della nostra (presunta) nazione.

La conversazione si spostò sulla guerra, l’Ufficiale e gli Inglesi concordavano che questa di Vittorio era l’ultimo sforzo per noi e forse per tutti; restava da vedere dopo cosa sarebbe successo.
Gli Imperi sarebbero sopravvissuti ? O chi diceva che un’epoca sarebbe finita insieme alla guerra aveva ragione ? Di sicuro avremmo avuto tempi migliori ma era difficile fare peggio.
La vittoria avrebbe consolato le immense perdite a sentire l’Ufficiale e qui il Duca torno a ridere.
Non c’è una vittoria, disse, almeno per noi europei. Soltanto gli americani potranno guardare questa guerra come una vittoria. Non saremo più il centro del mondo.
Dei rozzi lo saranno.
L’ufficiale mi riportò il pensiero del Duca e condivise con me la risata che gli aveva concesso l’Inglese. I due vedendoci ridere incrociarono gli sguardi e sorrisero, non mi serviva un interprete per capire quel gesto. Ai loro occhi eravamo più rozzi di tre Americhe messe insieme.

I discorsi si spostarono su quel malanno che cominciava a diffondersi e da lì a non molto tutti lo conobbero meglio. L’ufficiale aveva sentito parlare di tifo ma non è che era consigliabile parlarne apertamente e rintristire ancor di più gli animi ma si diceva che dal lato austriaco questo tifo o chi per lui stesse uccidendo più gente di noi. Si chiedeva se fosse un segno divino.
Non credo che Dio ci tenga tanto in considerazione da mandarci dei segni, soprattutto dopo quello che abbiamo fatto negli ultimi anni. Rispose il Duca.

Un’ottima risposta, mi disse l’Ufficiale subito dopo aver tradotto.
Da lì a poco ci congedammo.

Nei giorni, mesi e anni seguenti pensai spesso a quell’oretta e di come per la prima e unica volta in vita mia conversai con un Conte e degli stranieri. Era singolare come quella conversazione non fosse tanto diversa da quelle fatte con i miei pari nei campi all’ombra di un albero quando una donna ci portava del vino o la sera quando la giornata era finita.

A livello sociale in quell’ora raggiunsi il mio apice, seppure nel fango mi ritrovai al cospetto e al pari di un Duca.

Slon

Come uno specchio nervoso

“Una volta pensavo che gli uccellini cantassero perchè tutto va bene nel mondo. Ora invece so. Cantano perchè sono stupidi.”

Le parole uscivano in maniera strana dalla vecchia bocca, come se una volta arrivate alla soglia delle labbra rallentassero spaventate, per uscirne poi sospettose e sofferenti, stridule e sussurrate.
Al ragazzo sembrava di aver già sentito o letto da qualche parte una frase simile, ma non ricordava dove, e lasciò perdere. Guardò meglio il vecchio, che ora taceva fissando l’oceano inquieto.
Era un anziano signore sulla sessantina, di aspetto vagamente simpatico. Radi capelli bianchi pettinati all’indietro, un paio di occhiali con le lenti circolari e una barbetta bianca ben curata che gli ricopriva mento e guance. Camicia a mezze maniche e pantaloncini, sempre bianchi. Nel complesso sembrava un turista anzianotto dall’aria ingenua e bonacciona. L’unica cosa che stonava in lui era quella sua stranissima voce, simile a quella di un bambino giapponese con un proiettile in gola.
Il ragazzo l’aveva trovato su una panchina, mentre vagava sul lungomare pensieroso e senza una meta. Qualcosa, o forse proprio l’assenza di qualcosa, lo aveva spinto a sedersi accanto a lui.
Mentre pensava a qualche banalità da dire, forse a presentarsi, il vecchio aveva parlato per primo, stupendolo con quella sua strascicante parlata.
Che ora, di nuovo, si insinuava in lui grattando sulle pareti del suo udito, facendolo sottilmente rabbrividire.

Parli inglese, suppongo.

“A volte. “

Turista? Di dove?

“Diciamo che sono di passaggio. Vengo da lontano.”

Oooh..anch’io.

“Dicono che questo sia il punto più a est di tutto il continente. Non so perchè, ma mi aspettavo un orizzonte diverso.”

Non trovi che l’oceano sia affascinante?

“No. E’ solo acqua arrabbiata e stanca.”

Parlami della giovinezza, allora. La mia l’ho dimenticata.

“Oh, andiamo. Non puoi essere così vecchio.”

Nessuna risposta. Il ragazzo si accese una sigaretta. Si sentiva teso ma stranamente a suo agio, libero da ogni senso di controllo o diffidenza.

“La giovinezza..mah. Ti posso parlare della mia, ma non è stata poi granchè. Delle altre non so molto. Non credo di poterti intrattenere.”

Mi piacciono le storie tristi.

“E chi ti dice che è stata triste? Non lo è stata.”

La sofferenza. E’ nei tuoi occhi. E’ bellissima.

“…Cazzate.”

Di nuovo, nessuna risposta. Il ragazzò si concentrò sull’oceano agitato davanti a lui, che sembrava curiosamente adattarsi al suo stato d’animo, come uno specchio nervoso. Onde come pensieri, violenti e costanti, che si infrangono senza distruggere sulla sabbia fine della ragione, lasciando rimasugli di malinconia biancastra e viscosa.

Parlami delle emozioni, ragazzetto. Parlami dell’essere vivo.

“…C’è un piccolo fiore in mezzo a un campo. E’ un po’ isolato dagli altri, ma non gli interessa. Sta lì e si gode il sole, non si fa domande, come un fiore dovrebbe fare. Poi arriva qualcuno, e lo trova bello. Si china su di lui e lo annusa. Inizia a strappargli dei petali, interi pezzi di personalità che si accasciano planando al suolo. E poi lo lascia lì, distratto dal resto del paesaggio.
Sei a letto con una donna, sotto due strati di coperte, il calore pulsante ti avvolge, la penombra bluastra ti rilassa. Fuori piove, e la sinfonia disordinata delle gocce sulle cose ti culla, va a braccetto con la mano di lei che ti esplora lentamente la pelle, con i suoi occhi velati d’ombra che ti guardano attraverso. Tu guardi lei e ti senti riconoscente, e ti dispiace un sacco per non riuscire ad amarla, ma in fondo va bene così, state troppo bene per pensare.
E’ come guidare piano di notte sotto una tempesta, sei calmo, ascolti Ella Fitzgerald, e scruti la notte attraverso vetri e acqua, ed è così..bella. La notte è stupenda, sai?
E’ portare il tuo cane al fiume, e guardarlo per ore annusare strisciare saltare e rotolare nella natura, commuoverti per come alza le orecchie in risposto a qualche stimolo che tu non puoi nemmeno immaginare.
E’ leggere un libro, solo tu lui e il vento, e accorgerti improvvisamente che stai tremando da dieci minuti buoni, da quanto quelle piccole parole ti stanno scuotendo.
E’ come notare tracce di grigio alla periferia degli occhi di chi ami, e capire come la realtà non è una sola, come cambia in base alle carte che butti giù.
E’ maledire la tua personalità perchè ti tiene distante dal mondo, è ringraziarla in lacrime perchè senza lei non saresti nulla.
E’..”

Taci.

Silenzio. Il vecchio teneva gli occhi chiusi.

“Te l’avevo detto che ti avrei annoiato.”

Al contrario. Ho bevuto tutto quello che c’era. Oltre le parole, il linguaggio. Ho bevuto ogni frequenza della tua voce, ogni minuscolo nervoso movimento dei tuoi muscoli. Delizioso. Ma ora sono sazio. Da ubriaco tendo a diventare..maleducato. Sgradevole.

“Aha. Contento te. Brindiamo, allora. Alle emozioni.”

Mettiamo che la provvidenza perda per caso una chiave dal suo mazzo, e che tu possa trovarla. Mettiamo che tu possa esprimere un desiderio. Cosa…sceglieresti?

“Non lo so. Sceglierei di stare con una persona.”

Desideri che questa persona stia sempre con te? Qualsiasi cosa succeda? Per l’eternità?

“Eternità? Andiamo. Non so di che parli. Vorrei starci come si sta con una persona, per il tempo che ci è dato. In modo naturale.”

La natura non c’entra molto con l’esaudire desideri, ragazzetto.

“Hai ragione. Allora non voglio niente. Ti ringrazio. Sono a posto.”

La provvidenza potrebbe offendersi.

“La provvidenza può fottersi. Gli restituisco la chiave che ha perso. Sono sicuro che saprà usarla meglio di me.”

Forse lo farà.

Delle note, distanti. Una vecchia canzone proveniva da un bar lì vicino. Il ragazzo sentì il bisogno improvviso e immotivato di andarsene.

“E’ meglio che vada. E’ stato un piacere.” Offrì titubante la mano al vecchio, che la strinse con bramosia.

Il ragazzo spense la sigaretta al suolo e si alzò troppo velocemente, barcollando un po’ in avanti, poi si diresse spedito verso il paese, senza più pensare.

Se si fosse voltato in quel momento, avrebbe notato che il vecchio lo seguiva con lo sguardo, e che si leccava languidamente il palmo della mano. Qualcosa di scuro, forse un’ombra, si spostava velocemente sulla sua faccia.

Nessun uccellino cantava.

Kiree

Frequenze

Mi trovo a Praga, a casa mia, in un appartamento diverso da quello attuale, distante dal centro e differente negli interni. Un loft sobriamente arredato, così bianco in tutto da bruciare la retina.
Il tetto inclinato da mansarda con i suoi finestroni spioventi sembra volerci ricordare che può caderci in testa in ogni momento, ma non lo fa perchè gli stiamo simpatici.

3 cari amici mi sono venuti a trovare in auto dall’Italia. Mi trovo con loro nel soggiorno a bere e
chiaccherare, con noi ci sono anche la mia attuale coinquilina irlandese e un’altra tipa che conosco,
e che non so bene cosa ci faccia qui. Le due ragazze stanno tutte in tiro, ben truccate e vestite per la serata imminente: parlano con noi, seguono i discorsi e non dicono stronzate, ma hanno un modo così “gratuito” di fare le brillanti che dopo un po’ cominciano a venirmi a noia. Inizio a fare facce da mentecatto in codice ai miei amici, che capiscono al volo. Pochi minuti dopo siamo in macchina, diretti verso il centro.

Ora, il sistema stradale di Praga può essere un po’ disiorientante, soprattutto se non sai bene dove andare e c’è un traffico da esodo biblico, con Mosè alla guida di una skoda usata in testa alla colonna, che suona selvaggiamente il clacson e bestemmia nelle sue strane lingue da antico testamento.

Ma noi non abbiamo voglia di rimanere bloccati nel traffico. E poi siamo UBRIACHI.
Svoltiamo e entriamo con l’auto in un parco pubblico, parte una bizzarra sequenza alla die hard 3,
con noi che guidiamo sui sentierini di ciottolato e la gente che si scansa urlando.
C’è un senso di velocità tremendo, anche se in realtà andiamo abbastanza piano perchè non vogliamo ammazzare nessuno. Ben presto lasciamo il parco e ci infiliamo in vicoli strettissimi, sempre più minacciosi, finchè non restiamo praticamente incastrati tra due muri con gran stridio di lamiere e scintille, e dobbiamo uscire a stento attraverso il tettuccio. Continuiamo a piedi, siamo nei pressi del vecchio quartiere ebraico.

Per strane ragioni anche la camminata è difficile, ci sono ovunque cancelli e parti di inferriate antiche che non hanno realmente motivo di esistere, stanno lì solo per rompere i coglioni. Spesso dobbiamo abbassarci, contorcerci e addirittura strisciare per uscire da questa zona di ancestrali tentacoli arrugginiti, ma alla fine ci ritroviamo finalmente sull’argine del Vtlava, tutti graffiati e bestemmianti, ma ancora euforici.

C’è un ristorante in una grossa barca ormeggiata alla riva, decidiamo di entrarci, lo facciamo
da un’entrata secondaria, saltando dall’asfalto al retro dell’imbarcazione.

Curiosando all’interno, troviamo una scala a chiocciola, ma non la classica “rotonda”:
sono piccoli gradini rettangolari, 3 o 4 per lato, che salgono su loro stessi. Non c’è parapetto.
Se guardiamo su, possiamo vedere la fine al prossimo piano; se guardiamo giù, cristo santo.
La scala scende per decine e decine e decine di metri verso il centro della terra, ogni piano è illuminato così che possiamo gustare ben bene la profondità, anche se a furia di guardare la conformazione delle scale comincia a scherzare con le nostre percezioni, comincia a girare tutto, l’assenza di parapetto non aiuta.

Sono colto da uno svarione, ho paura di cadere: mi stacco di botto da quell’ipnotica visione e mi dirigo verso la sala principale del ristorante. E’ abbastanza piena, la gente cena tranquilla. Un cameriere di colore, rasato e ben vestito di nero ma con uno sguardo duro e inquisitorio, mi chiede se può aiutarmi, ma io voglio solo un po’ d’aria e mi dirigo fuori dalla sala verso la prua, dove c’è una terrazzina. C’è una passerella che corre sui due lati della nave, anche questa senza parapetto.
Mi metto sul bordo dal lato dell’argine, cercando di respirare con calma. Il cameriere mi raggiunge,
si mette al mio fianco, mi dice qualcosa che non ricordo. Improvvisamente la barca si INCLINA mostruosamente dal nostro lato, quasi si adagia completamente su un fianco, ricordo un frammento della faccia spaventata del cameriere.
Potrei semplicemente fare un piccolo salto dalla passerella alla terraferma, ci sarà sì e no un metro di distanza, ma per qualche folle motivo decido di sfidare morte e gravità, cercando di ritornare dentro la sala, aggrappandomi ad ogni cosa. Non so se per merito mio o per misericordia divina, fatto sta che la barca si risistema e torna alla sua posizione originale, alzando sbuffi di acqua schiumosa tutto intorno. Dentro la sala è un macello, tutto quanto è rovesciato, ma la gente sembra stranamente tranquilla. Il cameriere mi raggiunge e con aria mortificata, mi dice di portare pazienza, che ogni tanto succede. Lo mando affanculo e torno a camminare sulle strade, mi rendo improvvisamente conto che ho perso gli altri. Vago senza meta, e ormai l’alba si stiracchia, sbadigliando senza fretta.

Mi ritrovo davanti ad una strana costruzione grigia ferro di una ventina di metri di altezza, sembra un lampione gigante, ma senza il vetro e la luce alla sommità. La base è più grande, e via via che sale si assottiglia. C’è una porta chiusa, grande ma “mimetizzata”, dello stesso colore della facciata.
Di fianco alla porta, appeso ad altezza testa, c’è un blocco di post-it colorati, e sulla prima nota
c’è scritto qualcosa in una lingua che non capisco. Lo strappo via e me lo metto in tasca. Apro e osservo. L’interno, circolare, non ha nessun tipo di arredamento o oggetto, c’è solo paglia sparsa
per terra, odore di urina, e una persona raggomitolata in fondo. La scruto e mi rendo conto di conoscerla, è la ragazza di un mio amico. Appena entro la porta si chiude alle mie spalle, buio totale. Neanche tento di aprirla, so istintivamente che non funzionerà. Tento di parlare con la ragazza e chiedere spiegazioni, ma non risponde. Dopo un tempo di disagio relativamente breve, la porta si apre e la luce ci abbraccia vivace. All’entrata c’è A., il ragazzo della tizia. E’ vestito normalmente, ha una macchina fotografica appesa al collo con un laccio, e non ha per nulla un’aria stupita.
Fuori parliamo. Mi dice che si trovano lì in ferie, che mi aveva visto entrare da lontano,
e che quel bizzarro lampione è una sorta di antica tradizione, un posto dove la gente
entra volontariamente a riflettere, è l’unico modo per uscire è che qualcuno all’esterno
scriva la tue peggiori paure sul post-it, e che poi lo strappi. Non conosco A. così bene, quindi
è parecchio strano che sia al corrente delle mie paure più inconsce, ma nel sogno non gli chiedo nulla, sono solo riconoscente di essere fuori.

Nel frattempo la tizia ha ritrovato verve e buonumore, ciancia a raffica, e noi tre cerchiamo un bar
per fare colazione. Ne troviamo uno all’aperto sempre sulla riva del fiume, un grande tavolo con
una panca a u intorno e delle pareti di legno ricamate, con dell’edera rigogliosa che cresce
attraverso i l’interno dei rombi che costituiscono la trama. Ci sediamo e ordiniamo da bere,
alcool, arrivano 4 donne vestite in minigonna top e giacchetta. Una è giovane, le altre tre sulla cinquantina.
Non sono particolarmente belle o interessanti. Vogliono a tutti i costi sedersi con noi,
nonostante tutti gli altri tavoli siano liberi. Evabè, ci stringiamo e facciamo spazio.
Dopo un po’ cominciamo a essere tutti un po’ brilli, soprattutto la tizia del mio amico,
che comincia a darmi un po’ fastidio. Un poco per i discorsi senza senso che fa, nella foga
del vaniloquio insulta un po’ tutti. Senza neanche rendersene conto, mi butta la cenere della
sigaretta nella birra, scalcia, è petulante, rovescia dei bicchieri addosso a tutti e soprattutto a me.
Mi alzo in piedi fradicio, eccheccazzo, lei continua a ridere e nemmeno chiede scusa.
Mi guarda sprezzante e mi dice una cosa tipo: “embè? Il mio ragazzo ti ha salvato”.
Il mio amico mi sembra tranquillo e distante, pensa ai cazzi suoi, non partecipa al circo.
Le tipe sconosciute se la ridono. Insomma, colazione alcolica con circo di puttane arroganti,
io mi rompo. Saluto A. e me ne vado.

Cerco di ritrovare la direzione verso casa, ma dopo un po’ si alza improvvisamente
una nebbia fittissima, che abbraccia ogni cosa con una velocità assurda.
Non mi sento impaurito, anzi sono a mio agio. Comincio a sentire voci nella nebbia,
vicine e distanti, sussurri e toni alti, ma mai minacciosi. Alcune le capisco,
altre sono in lingue che non conosco. Non si rivolgono mai direttamente a me,
parlano tra loro, è come se stessi captando ogni dialogo in svolgimento nella città.

Continuo a camminare tranquillo in questo streaming mistico di voci sconosciute, e mi sento bene.

Kires

Precario – Autoesame

Quello che scrivo non è una biografia, voglio dire: la mia vita è talmente monotona, noiosa e miserabile.
Rileggendomi sembra quasi che abbia vissuto una sequela di episodi ambientati in un bar. Tragicomica sit-com con risate registrate, girata in studio con un pubblico che non ride mai.

E tanto per cambiare sono al bar, a pensare.

Autoesame, oggi analizzo la mai vita nel modo il più possibile sincero. È ora di cambiare.
Nel poco che ho campato ho provato di tutto.
Avevo quella curiosità per il posto fisso ma sembra che non esista più, ora c’è qualcosa di più dinamico e decisamente meno noioso perché alla gente piace cambiare spesso. Evidentemente non capii bene e mi ritrovai a fare sempre cose noiose.
In seguito provai il Mestiere ma abbandonai subito; è un peccato vedere una persona meravigliosa come me con una cazzuola in mano.
Provai anche con la criminalità, mi avevano parlato di strada facile, periodo di abbondanza seguito da fallimento totale ma va bene lo stesso alla fin fine. Evidentemente anche qui capii male, trovai un socio, andammo a rubare del ferro in un deposito, sedici minuti dopo la nostra carriera criminale era finita.
Fortuna che avevo un avvocato in gamba. Non parlare mai durante il processo tu non sai parlare, mi diceva ed aveva ragione. Tutto sommato fini bene, mi feci la maggior parte del tempo a casa.

Alla fine trovai, no in realtà me lo trovarono, un altro lavoro, sulla carta non era per niente noioso: commesso in una videoteca.
Andava bene finché la gente non comincio a chiedermi consigli che una cosa altamente stronza se ci pensate bene; nell’era dell’informazione e della comunicazione non hanno certo bisogno di un commesso per prendere una decisione. Ci sono interi reparti di marketing che lavorano per convincerli su cosa spendere soldi, cosa centro io ?
Come è questo ? Non lo so, faccio il commesso mica recensioni. Non dovresti rispondere così ai clienti. Si ha ragione, scusi signor René.
Il mio capo il signor René. Brava persona.
Anzi no è uno stronzo, mi ha rimpiazzato con una macchinetta automatica.

Il capitolo alcol è criptico, non è che sono alcolizzato ma non posso affermare nemmeno il contrario.
Prendiamo l’esempio di due sere fa, era sabato sera e come giusto che sia ero ubriaco.
Camminavo nel centro e dovevo avere un’andatura particolare visto che in tanti la commentavano. Tornavo a casa, avevo finito i soldi, quando un manifesto attirò la mia attenzione.
Era un manifesto che pubblicizzava il circo, non un circo normale ma bensì un circo fatto di circensi neozelandesi. I circensi neozelandesi sul manifesto promettevano di mostrar al fortunato pubblico una piovra gigante viva. Mi fermo a pensare a quanto sia una cosa stronza promettere una cosa del genere quando sento il vomito salire e spruzzo per bene il manifesto dei circensi neozelandesi.
La gente è disgustata e passa veloce accanto a me, le mamme si tirano i bambini vicino, qualcuno ride e qualcuno mi insulta. Vomitare sui manifesti dei circensi neozelandesi che promettono di mostrar al fortunato pubblico una piovra gigante viva non è carino evidentemente.
Una vecchia mi si avvicina e severa mi domanda: perché ti riduci così ? Sei un bel giovane !
Che dovrei dirle ? Per dipendenza ? No. Per ostentazione ? No. Per dimenticare ? Dimenticare cosa poi ?
Alla fine le dico la sola è unica risposta sensata: Signora perché non dovrei ? Lei prende la vita troppo sul serio.

Alla fine il giudizio è che sono l’agnostico perfetto. Ho in sospeso il giudizio su ogni cosa. Applicare il pensiero agnostico solo alla religione è così mainstream.
Di sicuro sono il tipo di persona che Dorian Gray non inviterebbe a cena.

Slon