Non Importa

Lui correva tutto di fretta, completamente fradicio.

La pioggia l’aveva sorpreso poco prima del suo arrivo all’appartamento, e l’aveva sbranato vivo, insinuandosi nei suoi vestiti, nella sua pelle, nei suoi pensieri. Si fermò un attimo a riprendere fiato affianco a un pino, che spuntava da un piccolo riquadro di terra in mezzo al cemento. La cosa gli sembrò strana, in qualche modo. Al mondo non esisteva nulla che non fosse bagnato. Controllò il nome della via, e riprese a correre.

Lei aspettava con calma euforica. Aveva passato il pomeriggio in casa, a ballare e cantare sola, senza nessuna musica se non quella nella sua testa. Dalla finestra aveva visto il temporale scatenarsi, e questo l’aveva stranamente eccitata. Pochi minuti dopo sentì suonare il campanello. Andò ad aprire.

Lui era sull’uscio, appoggiato allo stipite, con un’espressione buffa e una piccola pozza d’acqua stanca che si spargeva ai suoi piedi. Senza nessun motivo coerente, Lei pensò che sembrava appena uscito da un film di Woody Allen. Pensò che era bello. Sorrise. Lui parlò.

“Ehi. Ciao.”

“Ciao.”

“Fuori c’è tutto l’antico testamento. Almeno casa tua è facile da trovare.”

“Se sai dov’è, sì. Vuoi entrare, o ti piace qui fuori?”

“Hai un bel sorriso.”

Si baciarono sulla porta, con foga, inalandosi a vicenda. Tutti gli orologi di tutte le stanze di tutte le case trattennero il respiro, per poi sbuffare silenziosamente e correre veloci, a rimettersi in pari con la campana del paese che batteva le novedisera.

Poco dopo erano nel salotto. Lui si era tolto scarpe giacca e camicia, e ciondolava guardandosi attorno. Lei tornò dal bagno con un asciugamano, e cominciò a strofinargli i capelli.

“Mi fa piacere che sei venuto. Non pensavo ti avrei rivisto più, dopo l’altra sera. Ma oggi è una giornata speciale..e mi andava di passarla con te.”

“Anch’io non contavo di rivederti, eppure ti ho pensato di continuo. L’unico dettaglio, ehm, è che non mi ricordo il tuo nome.”

“Non importa. I nomi sono per le storie. Nella pioggia non si sentono.”

“Oggi è una giornata speciale davvero, è san Patrizio. Ti ho portato tre regali.”

“Tre è un bel numero. Quali sono?”

“Il primo è una custodia rovinata, piena di un po’ di tutto. Non un granchè, è roba di seconda mano, ma almeno non hai confezioni da scartare. Stanotte puoi rovistarmi dentro, e prendere quello che ti piace.”

“mmm.”

“Il secondo è questo momento, e tutto quello che contiene. Non c’è ieri, non esiste domani. Tutta la storia dell’universo viene raccontata adesso, sottovoce. Puoi ascoltarla, se vuoi.”

La baciò di nuovo, questa volta lentamente. Lei sentì un calore distratto risalirle i fianchi, tremare le spalle, accarezzare le tempie.

“E l’ultimo regalo, improbabile Re magio?”

“Oh, giusto.”

Lui assunse un’espressione scherzosamente imbarazzata.

“Beh qui non conoscevo i tuoi gusti, e ho preso un po’ quello che mi è capitato. Spero sia della misura giusta.”

Le poggiò le mani sulle spalle, premendo delicatamente e facendola sedere sul divano. Poi si slacciò la cintura.

Lei sorrise, mordicchiandosi le labbra.

“Oh…che bel pensiero. Credo mi entrerà bene.”

 

Kire

 

Una sconfitta [iv]

Ora non sapeva dove si trovasse. Nè come ci fosse arrivato. L’ultimo ricordo era il salto dalla finestra, e anche se ricordava che qualcosa fosse successo dopo allora, non gli veniva in mente niente di quel “qualcosa”. Nel momento in cui era entrato nella stanza in cui era seduto aveva dimenticato tutto.
Non poteva fare a meno di pensare che questa amnesia dovesse avere un qualche significato.
La stanza era piccola e spoglia, e molto male illuminata. Per quanto surreale apparisse la cosa, aveva l’aria di un classico soggiorno di una comune casa d’abitazione, anche se un po’ povera. Si rendeva ora conto che non rammentava per niente l’aspetto esterno della casa.
Era seduto a un tavolino, accanto ad un uomo dall’aria cordiale che gli stava versando del tè. Non ricordava chi fosse costui. Era tutto stranissimo, e un’ansia feroce prese a divorarlo internamente.
Il suo ospite ora sedeva di fronte a lui e lo guardava pensosamente; sembrava in attesa. Pensò che fosse il caso di fare la prima mossa.
“Io sono…”
Un gesto dell’altro lo zittì. Poi l’ospite parlò a sua volta; l’espressione e il tono di voce rivelavano un profondo dispiacere.
“Lo so chi sei, come so perchè sei qui. So che hai voluto dare ascolto ad una antica leggenda per venire fin qui e riuscire a riappropriarti di quel che ritieni tuo. Ma da questo viaggio tornerai a mani vuote. Poeti e cantori di ogni epoca e luogo hanno raccontato di amori sopravvissuti alla morte e di eroi che hanno affrontato ogni pericolo per poter inseguire un sogno; ma quelle sono leggende e questa è la realtà, e la realtà è che non c’è speranza. La realtà è che lei ti ha dimenticato.”
L’ultima frase suonava come una sentenza. Lo colpì come una sassata.
“Così è” proseguì l’ospite “lei non ti appartiene più. Questa è la morte, ed è un luogo di vuoto e desolazione, e chi lo abita -come lo abita lei- non ha che di queste due cose, e nient’altro. Ti sei spinto fin qui assai coraggiosamente, e ti sei ben comportato, ma più avanti non andrai, perchè non sarebbe bene e non servirebbe a niente. Ora ti devo pregare di lasciare questo luogo.”
Sentiva la gola arida. (Davanti a lui la tazza di tè era ancora intatta, ma se l’era completamente dimenticata). Ugualmente parlò.
“Chi mi ha preceduto ha avuto almeno una piccola possibilità. E a me viene negato tutto.”
L’ospite aveva ancora la sua voce desolata. “Tale è la verità: che nessuno ti ha mai preceduto. Hai inseguito fantasmi che non ti hanno portato a nulla se non a un cammino intricato ed inutile. Ora tutto è finito.”
Lui, sopraffatto dal dolore, chiuse gli occhi, e l’oblio scivolò nella sua mente.

Riaprì gli occhi su pareti bianche (da quanto non vedeva qualcosa di quel colore?). Cicalini di macchinari rumoreggiavano accanto a lui, e si rese conto di essere sdraiato in un letto, immobile e con tubi vari che uscivano ed entravano dal suo corpo.
Un ospedale. Era quindi vivo? Sentiva dolori ovunque, e ritenne che fosse una prova sufficiente.
Non capiva cosa fosse successo finchè gli occhi non gli caddero sulle sue scarpe, assurdamente appoggiate sul comodino accanto al letto. Ricordò allora lo squallido albergo, la finestra, il volo.
Cominciò a piangere.

 

Opossum

Post it

Che poi il problema non è il ricordo, chi l’ha mai detto.
Il Ricordo è un alleato strano e potente.
A volte è un simpatico vecchio con una lanterna, che ti fa cenni dal bordo di una strada spazzata via dalla nebbia, e poi ti porta in osteria.
A volte è una bella donna che ti accarezza il collo e ti sussurra nelle orecchie cose che ti fanno tremare le ginocchia..
A volte è un beduino barbuto, che ti violenta e ti tortura nella stiva di una nave di schiavi.

Ci sono ricordi che sono semplicemente ragni in un angolo, pronti a farsi schiacciare non appena escono alla luce.
Altri vanno messi via con cura, arrotolati nella seta e riposti in un cassetto di vetro.

I ricordi sono tante e tante cose, ma non sono il problema. Il problema è immaginare che siano ancora.
Sei portato di tuo ad immaginare? Peccato.
Tu sai che non devi farlo, ma è un casino. E’ come smettere di respirare, stare continuamente in apnea. Come si fa a non immaginare? A non respirare?
Ma è quella la stronzata, toc toc. Cazzo respiri, se l’aria è è tossica. Trattieni il fiato, e rompi una finestra, così entra aria fresca. Ce ne son tante, di finestre da rompere, hai voglia. O hai paura di graffiarti le nocche?
E’ prendere la pelle di una realtà e tentare di trapiantarla in un’altra, e via di rigetti.
Dottore? Ma il dottore è un pupazzo di stracci. Sembrava più realistico, al provino.
E’ come giocare a carte con un mazzo di scacchi in mano. E ti incazzi pure, se perdi.
Ma sarai deficiente.

Ed hai poco da cercare di trovare uno scorcio di luna nelle fogne in cui metterti a giocare al poeta.
Non hai Dei da pregare, anche se ti piace pensare di averli.

La smettessi di scrivere sui muri con le unghie, sanguinando dappertutto, te ne accorgeresti.

La malinconia non è quello che pensi. Non è la causa del tuo sentire. E’ solo un abito che qualcuno ti ha messo, quando eri ancora troppo piccolo per vestirti, e che a volte ti sta stretto, ma è solo tuo.

La malinconia ha un sacco di cose da dirti, in quelle serate in cui il sonno se ne va a farsi nuovi amici.

E se la inviti con il sorriso giusto, scoprirai che è un’ottima danzatrice.

K

Duyfken

C’è la periferia, e io ci cammino.

C’è qualcuno con me, che strani amici. Uno è una specie di nano, anzi no, è solo uno molto basso. Potrebbe essere anche un bambino, ma qualcosa nei suoi occhi è troppo vecchio. Ha i capelli rossi e corti e una maglietta arancione, e parla a manetta tutto contento, gesticolando. Cosa dica non ne ho idea, non capisco. Poi c’è un’altra figura bizzarra. E’ una specie di macchina fotografica, grande come un pallone da basket. E’ formata da una sacco di parti tecnologiche moderne, tasti, schermi, tanto quanto da ciarpame steampunk, vecchie molle arruginite, grossi ingranaggi di orologi che ticchettano. Come braccia e gambe ha dei sottilissimi steli di filo di ferro, che la fanno muovere lentamente e goffamente, in un modo che suscita simpatia. Anche lei parla, da una bocca che non vedo, e parla con le note di un pianoforte, una melodia veloce ed allegra, da saloon.

Questo posto sembra un po’ il mio paese, ma anche no. C’è questo bar piccolino che si chiama Riverside. Al suo fianco c’è davvero un fiume, anche se forse è più un rigagnolo di sputo rimescolato largo pochi metri. Entro nel bar, accompagnato da quei due strascichi del mio subconscio.

Dentro ci sono una barista e pochi clienti, tutta gente che conosco di vista ma con cui non ho nessun rapporto. Alcuni di loro li ricordo, mi bullavano a scuola da ragazzino. Ora è tutta gente che nella vita reale mi guarda e saluta con una sorta di curioso rispetto, nonostante non abbia mai sprecato più di un ciao annoiato per loro. Và a capire la gente.

Ho voglia di un caffè, scavalco il bancone e me lo faccio da solo. Il nanetto si arrampica sul frigo dei gelati e comincia ad abbuffarsi di cornetti e ghiaccioli. La fantareflex si mette a flirtare con il registratore di cassa, pianeggiando lenta una ballata d’amore. La fa aprire con un DIN!, e le sfila tutti i soldi. Se sia una metafora di qualcosa, non ne ho idea. Quando facciamo per uscire, la barista mormora qualcosa timidamente, forse a riguardo dei soldi e delle consumazioni da pagare. A questo punto piazzo una battuta che fa piegare tutti, barista e clienti. Ci danno dentro proprio di gusto, si sganasciano battendo le mani sulle coscie, ha ha, che sagoma. Dev’essere stata una battutaccia tosta. Per fortuna non la ricordo. Esco in strada.

Dopo pochi passi, incontro Slon. Sì proprio il farlocco che scrive qua su sto blog. E’ vestito a festa, elegantissimo, e questo mi fa rendere conto all’improvviso che anch’io sto tirato a figurino, belle scarpe, pantaloni neri gessati, camicia giacca e cravattone da serata di gala. Slon mi dice che passava di la in auto. Facciamo un giro? Ha una Diane due cavalli che è un pugno in faccia, nera e gialla canarino. Ha solo tre sedili, due davanti dove ci piazziamo noi, e uno dietro dove si sistema il rossonano con la fantareflex in braccio. Partiamo, il motore fa un casino boia e sembra avere le convulsioni, ma almeno cammina. Mentre usciamo dal parcheggio del bar, vediamo un cazzo di transatlantico navigare nello sputofiume, buttando fuori enormi sbuffi dalle ciminiere e suonando una specie di clacson potentissimo.

Lo seguiamo in auto per un po’, urlando e lanciando sogni dai finestrini, poi le strade si dividono. Ci fermiamo in un parco, vicino a delle panchine. Ci sono un po’ di sconociuti e una tizia che conosco, sta tracciando con le dita qualcosa nell’aria, piccoli simboli che restano fluttuando nello spazio giusto pochi secondi, e poi scompaiono. Ricordo una specie di triangolo, con con una spirale ondulata che parte salendo dall’angolo superiore. Penso al greco antico.

E poi, tutto cambia. Tutte le cose, tutti gli odori, le immagini, si fondono insieme per un attimo, e c’è un viso che sorride, ma è un sorriso teso, dispiaciuto.

E poi tutto si scompone ancora, in altri suoni, altre superfici, altri personaggi, altri pupazzi di parole.

Ma questa è un’altra storia.

K

Sala d’attesa

Appena entri sembra accogliente, c’è quella luce rilassante dei lampioni che entra dal balcone e il neon sul tetto non disturba molto, sbatte sulle bianche pareti si amplifica e ti sembra di essere in un luogo pulito. Fai un passo deciso e superi la soglia, ti guardi intorno, ci sono le sedie disposte a quadrato attorno al muro, sono bianche, di plastica dura e già a vederle non sembrano comode. Al centro c’è questo tavolo, bianco pure lui e quanto abbassi lo sguardo per guardarti i piedi vedi che anche il pavimento è di un bianco marmo ed allora cominci a stancarti di tutto questo bianco.
L’impatto con la sedia è traumatico, dura e fredda, un brivido passa per tutta la schiena e per quei cinque secondi soffri.
Comincia l’attesa e visto che non c’è niente di meglio da fare dai un’occhiata approfondita alla sala d’attesa. Le mura viste meglio non sono tutto questo splendore, ci sono nere impronte di Converse, insetti spalmati, righe sul muro eredità degli schienali delle sedie. Meglio non mettere una mano sotto la sedia.
Abbassando di nuovo lo sguardo noti che il pavimento ha perso la sua lucentezza, ora è di un bianco opaco e sa di vecchio. Ti giri verso il balcone e sembra quasi di aver guardato qualcosa di diverso prima, quei vetri ora sembrano tenere fuori la calda luce arancione dei lampioni. Guardi gli altri nella stanza ed hanno la tua stessa espressione e di sicuro i tuoi stessi pensieri. Uno di loro guarda un orologio appesa alla parete sopra l’entrata, è sporco ed abbagliato dal fascio di luce del neon e non si distinguono ne le lancette ne i numeri. Puoi solo fare un’ipotesi su che ora sia, adocchiando le due sbiadite linee nere sotto la luce.
Passa, passa il tempo. Cominci a pensare alle cose che dovrai fare dopo, ovvero nessuna ma te le inventi sul momento per trovare qualcosa da fare.
Ti salta per la testa anche l’idea di parlare con gli altri, il problema è riuscire a sostenere una conversazione con degli estranei…e qui qualcuno risparmia molto sul bagnoschiuma e sul deodorante. Che fetore.
Prima almeno gli edifici puzzavano di sigaretta.
Ultima spiaggia pensi alla gente a casa, momenti divertenti come lo zio mentre racconta la barzelletta del ladrone appeso alla croce che si gira verso Gesù e gli dice: Oh, che Pasqua di merda quest’anno.
Ti viene a mente anche quella volta, quando ti disse che anelli e ditalini non vanno d’accordo.
Sorridi, passa ancora un po’ di tempo ma non è sufficiente.

Non mettere delle riviste in una sala d’attesa è uno dei peggiori crimini.

Slon

LeClan

Il basso è caldo, lento, profondo.
Si muove con calma e grazia, avvolgendo ogni sobborgo del sentire.
Un accenno di batteria lo segue, ritmico e discreto.
Un piano dice la sua ogni tanto, semplice ma d’effetto.
E, quando meno te lo aspetti, fuori tempo, un sassofono si infila in mezzo a spallate.
E’ un jazz improvvisato, ma con sonorità da rock cupo, che ben si sposa alla personalità marcia del locale.
Un’alchimia di luci viranti al blu riveste l’atmosfera, esaltando le zone d’ombra, il fumo che nuota lento nell’aria, i movimenti sinuosi delle persone.
Perchè di persone è pieno, sto cesso sotterraneo. Bussi a una porticina anonima in un casolare di periferia, fai il nome di qualcuno, passi attraverso tre buttafuori con un metal detector…e ti ritrovi tre interi piani sotto l’asfalto di vera depravazione notturna. Una sola entrata, alla faccia delle norme sulla sicurezza. Non che debbano avere tanti controlli da queste parti: il gestore c’ha gli amichetti giusti. E sicuramente anche i nemici giusti, dato che sono qui.

Faccio un giretto senza dare nell’occhio, mi faccio un’idea della planimetria del posto. Il locale apre alle quattro, e il primo piano è ancora abbastanza tranquillo. Al secondo invece si fa già fatica a camminare, la gente ci dà dentro, beve, balla, tira, si fa spompinare nei divanetti. Guardo l’ora, le quattro e trentanove. In perfetto orario. Cerco il bagno, è in fondo a destra. Ci avete mai fatto caso? E’ sempre in fondo a destra.

Il cesso degli uomini è una piccola stanzetta squallida a L, scrigno di fetori indimenticabili. Due tizi pisciano negli orinatoi. Un altro piscia sul muro. In fondo, appoggiato alla parete dietro l’angolo, trovo quello che dovrebbe essere il mio uomo, vestito in modo trasandato. Ha una faccia che sembra una crêpe surgelata, giallastra e piena di puntini bianchi, quasi fosforescenti. Dev’essere l’effetto della roba che inizia a salire. Trattengo un ghigno e mi avvicino. La crêpe mi parla.

“Cerchi qualcosa, bello?”

“Sì. Qualcosa che faccia male.”

“Ouuu, sei tu allora. Cazzo, ti immaginavo diverso. Più alto. Beh comunque eccoci. Io qui sono di casa, non è stato un problema portare la roba. Cazzo, che storie! Sai ne ho viste di merdate, ma non avevo mai incontrato un ki-”

“Chiudi quella bocca di merda.”

Nell’istante in cui smette di gesticolare, lo prendo per il collo e premo dove so io.
Crêpe sbianca all’istante. Lo fisso negli occhi e quasi mi aspetto che mi caghi sulle scarpe.

“Cos’è, pensi sia divertente? Non lo è. Ora fai quello per cui sei stato pagato e ti sigilli quella fogna, prima che ti asporti fisicamente il pezzo di cervello in cui ti sei convinto di avermi mai visto.”

Sento dentro un’ondata di calore elettrico che mi sale alla testa, e mollo la presa prima di fare danni. Il tizio ha le lacrime agli occhi. Lo lascio tossire in pace.

“Ok..ok bello. Quello che vuoi. Non voglio casini.”

Si infila la mano sotto la felpa e mi passa il pezzo con timore reverenziale.

Capisco subito dal peso che è carica, ma scarrello comunque per sicurezza. Un nove millimetri mi fa l’occhiolino dalla sua culla di polimero. Me la infilo nella cintura, sotto la giacca.

“Scusa…scusa, cazzo davvero. Oh, sei fortunato che ero qua ad aspettarti, eh? Non ti ci vedevo, a rovistare nella merda.”

“Cosa?”

“Dai, Al Pacino, quando prende la pistola nel cesso, e poi spara in faccia allo sbirro. Il padrino, bello. Non l’hai visto?”

“Sparisci.”

Crêpe sparisce. Mi annoto mentalmente di informarmi su di lui. Mi annoto anche di non farmi più convincere ad usare estranei. Piuttosto, d’ora in poi ammazzo la gente a morsi.

Mi sciacquo la faccia, con calma, nessuno ha fatto caso a noi. Sono le quattro e quarantasei. La testa mi si fa leggera. I suoni sono diversi ora, è come se non arrivassero più da fuori, ma da dentro di me. I colori, è come se si fossero staccati dal loro solito posto, e se ne andassero a zonzo da soli tra le cose.

Dio, quanto amo gli acidi. Continuo a ripetermi che mi servono solo per aiutarmi a fare quello che faccio, ma la realtà è che vado pazzo per questa merda. Mi accorgo di stare ridacchiando, e non faccio proprio nulla per smettere.

Esco dal cesso, mi infilo nella folla. E’ bello andare a lavorare con un sorriso.

K

Viaggio di un Simbolo

Una volta era un Re, e si vestiva sempre di nero.

Aveva un gran cappellaccio sproporzionato da cui spuntava ogni tipo di onirico ghiribizzo, tra cui una croce storta e traballante, e antiche frasi ricoperte di polvere bagnata.

Per anni aveva regnato sul suo piccolo feudo, un fazzoletto di terra e legno nella foresta, dove viaggiatori di ogni tipo si fermavano a riposare, a raccontare e ascoltare storie in strane lingue.

Al sovrano piaceva apprendere frammenti di regni lontani; e ringraziava i viaggiatori intrattenendoli con visioni di epiche battaglie e il calore di fuochi saggi, che raccontavano crepitando la leggenda del mondo.

Come ogni re che si rispetti si muoveva lentamente, un passo alla volta, e i suoi passi erano pieni di grazia calcolata tanto quanto di sfrontato timore, dato che si muoveva solo quando realizzava di essere in pericolo. Scappava all’indietro, guardando negli occhi il suo nemico, senza perderlo mai di vista, senza seminarlo mai.

Aveva combattuto e perso abbastanza battaglie da sapere che non avrebbe mai saputo fare altro, e fuggiva la pace perchè temeva che l’avrebbe reso inutile e dimenticato.

Fu rapito in una sera strana, leggera e chiarissima, con una luna piena come mai si era vista. Grandi banchi di nubi violacee si avvicinavano a lei da destra e sinistra, come se un enorme sipario si stesse per chiudere sul palco del cosmo. Quando la luce fu bandita, il sovrano era sparito.

Fu costretto a partire solo, verso mete casuali, terre che non aveva mai sognato. Anche se non lo vedeva e non lo sentiva, percepiva chiaramente che qualcosa di sconosciuto guidava il suo pellegrinaggio. Ma cosa? Un’idea, un malocchio, gli Dei? Inutile chiederselo. Il Re solitario viaggiava, imparava e dimenticava, e faceva degli errori.

Una sera, mentre si pavoneggiava davanti alle luci economiche di una stanza d’albergo di periferia, perse l’equilibrio e cadde nella notte. La pioggia era qualcosa di totale, e cancellava quelle pochissime percezioni riuscite a sfuggire al buio. Cadde per un tempo lunghissimo, e finì con l’infrangersi nei punti più improbabili del dimenticare. Lì sarebbe rimasto a marcire in buona compagnia, se qualcosa non si fosse messo tenacemente alla sua ricerca, ritrovandolo in una pozzanghera brontolona. Quattro occhi luminosi e scattanti si posarono su di lui. Era lo stesso qualcosa che aveva consigliato i suoi passi? Il Re non lo sapeva, ed era troppo occupato a soffrire per rifletterci. La caduta lo aveva ferito nel profondo: il suo cappello si era rotto, la croce si era spezzata, ed il suo sguardo era un pozzo di cicatrici. Ma in fondo era pur sempre un re, e non si è mai visto un re arrendersi di fronte a inezie come un’anima strappata. Il tempo di recuperare le forze ed era già di nuovo in viaggio, migliaia di chilometri distante da quella pozzanghera.

Ora il piccolo Re vive solo, in una capanna di campagna dal tetto di lamiera e dai muri di parole.

Nelle belle notti scrive poesie di gesso e dorme all’aperto, vicino a una fontana morta che ogni tanto si risveglia di colpo, tossendo stanche lingue di fiamma che durano il tempo di un respiro.

Se la luna glielo permette, alza la tesa del cappello stracciato e guarda lontano.

Traccia strategie sulla cenere con un ramo di ciliegio, pensa a dove sarà domani,

e sogna di sanguinare ancora.

 

( Nota assolutamente inutile: una notte trovai un pezzo degli scacchi in un luogo lontano e interessante, e lo portai con me. Questa potrebbe essere la sua storia, vista attraverso i suoi occhi. Oppure potrebbe essere la mia vita, o la vostra, o quella di nessuno. Comunque sia, mi piace l’idea che anche un piccolo pezzo nero di plastica, rotto e spezzato, possa sognare. Ciao.)

Kire

Un Giorno ogni tanto

Calcinacci.

C’è un rumore sgradevole, come se un demente dai radi capelli stopposi si stesse mangiando di gusto uno xilofono. Le palpebre, sono come due vecchie saracinesche chiuse. Provo ad aprirle ma sono bloccate, si alzano giusto un soffio, tutto quello che ottengo sono due sottili orizzonti tascabili di luce conturbante. Riprovo di nuovo, stavolta con più forza, e le saracinesche si alzano di botto con gran gemito metallico e turbinio di polvere assonnata, da garage di periferia. La luce mi sbrana vivo, e poi si attenua.

Veloce.

Talmente veloce che non è che capisca tanto bene che succede. Mi guardo attorno, cercando d’istinto di dare un nome, un odore, un link familiare a quello che mi circonda. Sapete no, tanto per stare tranquilli. Ma appena giro la testa, seppur mi muova normalmente, la realtà scarrella folle da destra a sinistra, gli angoli delle cose nuotano nell’aria, le cose stesse ancheggiano e volteggiano come danzatrici orientali possedute dal dio mambojambo. Lo xilofono zombi continua.

Chiudo gli occhi. Respiro a fondo, aspetto un po’, poi li riapro.

Ora vedo meglio e sopratutto fermo, una specie di palude selvaggia fatta di ombre, i rami intricati creano un fitto grigionero, l’acqua verdastra gorgoglia, e finalmente vedo una cosa definita, un cellulare da due soldi grande come un uomo adulto che risale lentamente dalla superficie, con rimasugli melmosi che gli restano appesi addosso. Mi sa che comincio a rendermi conto di che succede.

Chiudo gli occhi di nuovo (li ho mai aperti?), premo forte i palmi delle mani su palpebre e tempie. Inarco il collo e mi lascio trasportare verso su, su, su, verso la vita, quella vera.

La realtà, vista da sotto, è sempre tremolante.

Poi, finalmente, sono sveglio del tutto. Aria, check. Letto, check. Testa, check. Mal di testa, check.

Il cellulare sul comodino squilla e vibra tutto pimpante. La suoneria, una di quelle midi di default, è qualcosa di orribile. Non rispondo, chiunque sia si beccherebbe solo gorgoglii. Prendo la rincorsa e mi metto a sedere. Dov’ero ieri sera? Boh. In ogni caso, giuro a me stesso che non berrò mai più.

Un’ora dopo, comincio ad assomigliare di nuovo vagamente ad un essere umano. Tempo di iniziare di nuovo a bere.

Tanto. Oggi è festa. Tutta la vita è una gran festa, ma ora come ora non mi ricordo se mi hanno invitato.

Esco di casa e mi tuffo nelle strade, lasciandomi trasportare a peso morto. Non galleggio troppo lontano, prima che la corrente mi porti da te.

Chi sei?

Non ti conosco, ma vorrei parlarti. Ti parlo. Devo usare l’approccio completamene sincero o la versione censurata e corretta? A me piace il primo, ma l’esperienza insegna che la sincerità totale fa strano a molta gente. Spesso le fa paura, anche se in fin dei conti stai dicendo cose belle. Spesso, troppo, il peso e il valore di quello che esprimi è direttamente proporzionale all’idea che gli altri hanno di te.

Devo lasciarti il tempo di farti un’idea di me? Ma ti devo guidare timidamente verso i miei lati migliori, o devo lasciarti rovistare a piacimento nei cassetti? E’ un rischio in ogni caso.

Lascio stare, che seghe.

Decido di guardarti e basta, per ora.

La tua espressività è un teatro di provincia, con pochi spettatori. La coreografia è spartana, il palco è male illuminato. I muscoli del tuo viso non sono grandi attori, ma sono pieni di passione per quello che fanno. Non c’è traccia di finzione o compiacimento nelle emozioni che ti saltano in grembo. Il taglio dei tuoi occhi e la pelle appena sotto sussurrano quanto hai sofferto per qualcosa. Mi sembri umile, insicura, intelligente e semplicemente bella.

Mi sto inventando tutto, o sei davvero così?

Cos’hai dentro?

Vorrei fare un gran respiro e tuffarmi, sgambettare sul fondo, accarezzare le perle nascoste e le alghe marce della tua personalità, vedere a quali pensieri solitari affitti la tua mente.

Il tuo profilo visto dal basso è sottile e sinuoso, rilassato ma attento. Ho voglia di fare l’amore con te, qui nell’erba, ora, lentamente, scoprire che odore hanno il tuo collo e le tue labbra.

Ho voglia di innamorarmi di te, solo per stasera, e poi andarmene. Non vederti mai più.

Stiamo poco insieme. Non ci diciamo nulla di memorabile, non succede nulla di memorabile, e neanche mi ricordo il tuo nome. Ma respirarti mi ha fatto bene.

Boh, grazie.

Ti saluto mentre tutto cambia. I colori diventano caldi, mentre l’aria si raffredda. La grande signora Notte comincia ad incipriarsi per il suo show eterno.

Ma stanotte non ho voglia di stare ad ascoltare i suoi rumori, stanotte me ne vado a letto rilassato e tranquillo, un pianoforte a farmi da faro e un po’ di pace a farmi da remo.

Tanta roba.

 

K