L’Intersecatrice (V)

Pensavo di girarmi ed affrontarla con un respiro regolare, un sorriso sornione, forse addirittura una battuta pronta, quasi a dimostrare che no, non avevo paura, che sì, ero padrone di me, e che forse, forse ero capace di capire, di ascoltare, di vedere oltre, fare miei i suoi segreti provenienti dall’aldilà o dal vudù o dal….

Ma quando mi trovai di fronte un vecchietto arzillo, vestito di bianco e di un paio di piccoli occhialetti tondi, dal sorriso astuto e sottile e dagli occhi azzurri incredibilmente profondi, qualsiasi impalcatura mentale mi fossi costruito crollò come un origami sotto una tonnellata di rifiuti tossici.

“Mi preferivi prima, eh? Dì la verità, dilla.”

La voce era ancora quella di Laura. Io mi sentivo assolutamente svuotato da ogni  sensazione. Pensai che avrei dovuto guardarmi attorno, studiare il vecchio, trovare l’inghippo; ma la verità è che semplicemente non ce la facevo più. Troppe cose, troppi avvenimenti pesavano sulla mia lucidità, troppo stress emotivo che mi rosicchiava i tendini della mente, costringendomi a cadere giù.

E caddi, seduto a gambe larghe al centro di quella strada notturna di periferia.

“Vabè. Basta. Ammazzami.”

La voce di Laura rise di gusto (basta chiamarla così. Quella non è Laura. Non è nemmeno un vecchietto. Non vuoi sapere cos’è. Non dire più nulla.)

“Ucciderti? E perchè mai dovrei? Sei simpatico.”

Fece qualche passo e si accovacciò di fronte a me. Fu uno strano confronto, tra me e questa presenza inspiegabile, seduti l’uno di fronte all’altro nel mezzo di una strada dimenticata dai sogni. Il buio fluttuava discreto attorno a noi, e sembrava quasi rassicurarmi, sembrava sussurrare “sssch, va tutto bene, fra poco sarà tutto finito, e nessuno saprà mai niente di quello che è successo. Nessuno sa mai niente, di quello che succede.”

Quando la cosa mi parlò di nuovo, lo fece con una voce diversa. Una voce particolarissima e inquietante, rauca, sottile e scivolosa, una voce che aveva un che di infantile, un che di sofferente, un che di malizioso,  un che di indifferente. Non avevo mai sentito, nè sono sicuro sentirò mai dopo quella volta, un timbro di voce simile. Chiusi gli occhi, e ascoltai.

“Non ci sono spiegazioni. Perlomeno, non ce ne sono di adatte alla misura del tuo comprendere. Ho giocato con te. Perchè? Perchè mi annoiavo, perchè sei una persona interessante. Pensavo potessi darmi più soddisfazioni, pensavo che avremmo giocato più a lungo e in un modo più intrigante, ma va comunque bene, ti sei comportato meglio di molti altri. Nel tessuto del creato non esistono divinità, eppure ti posso dire che la noia e la fantasia non sono concetti sconosciuti per loro. Non è mai esistito un banchiere che, maneggiando i soldi degli altri, non abbia mai fantasticato sul fatto che quel denaro potesse essere suo. E sono esistiti banchieri che sono andati oltre quel fantasticare. Ti ho usato, ti ho speso, facendoti passare dalla mia mano a quella dell’ignoto, pagando legittimamente una piccola dose di emozioni umane di cui sono goloso. Ma ora non sei più una mia responsabilità, la tua anima è di proprietà del Vago, e non so cosa sarà di te. Forse dimenticherai, forse impazzirai, forse butterai la tua vita cercando di comprendere quello che non ti è concesso. Non mi interessa. Ma c’è una cosa che forse può interessare te. Sei fuori dai conti, ora. Sei un numero che come per magia è scivolato fuori da una tabella di altri numeri, e che ora si chiede cosa sia. Il mio lavoro è intersecare, incollare e incrociare gli elementi dell’essere. E non voglio vederti mai più, e questo significa che sei fuori da ogni schema. Puoi fare tutto, puoi non fare niente. Sei come un ideogramma di una lingua sconosciuta, a margine di un elenco telefonico. Se sia una benedizione o una maledizione, decidilo tu. Non ti auguro nè bene nè male, perchè questi sono concetti puramente umani, e io non li ho mai capiti a fondo. In ogni caso, non c’è altro da dire. Spero di essere stato meno chiaro possibile.”

Il vecchio si mise carponi, e trotterellò verso di me. Mi prese la mano, e fece scorrere lentamente una lingua grinzosa sul mio palmo. Ricordai improvvisamente come (Laura?) fosse solita farlo, quando eravamo a letto assieme. In quei momenti la cosa mi eccitava. Ora, non potevo far altro che rabbrividire.

Il vecchio si alzò, mi diede le spalle e camminò lentamente verso il buio. Dopo pochi secondi, era sparito. Tutto quello che restava, era il vago ronzio elettrico delle luci dei capannoni vuoti.

Chinai il capo, le lacrime che scendevano discrete.

Kire 

 

 

L’Intersecatrice (IV)

“Forse in questo consiste la punizione della madre, alle cui cure e alla cui educazione, noi, figli perversi, ci siamo sottratti”

– E. T. Hoffmann

Quando corri perchè la tua vita è in pericolo, o perchè pensi che lo sia, il mondo attorno a te può diventare davvero una giostra antipatica. Quando scivolai sull’asfalto e mi fermai per la prima volta dopo un tempo indefinibile ( Due minuti? Dieci?), non potevo nemmeno capire dove mi trovassi, da quanto la realtà tutta vorticava impazzita. Riuscii grossomodo a rialzarmi, graffiato e dolorante, respirando a fatica, un’intera nazione di spilli sottili conficcati nei reni, nei polmoni, nel cuore. Incespicai fino al lampione più vicino e lo abbracciai come se fosse il mio migliore amico, e per un po’ restai lì, a bere la sua luce calda e finta.

Sembrava tutto tranquillo ora, e mi resi conto che nella mia fuga folle mi ero spinto senza saperlo verso la zona industriale alla periferia del paesino, essenzialmente  un grosso quartiere solitario costituito da capannoni anonimi e strade nuove, larghe quanto luccicanti. Erano le tre di notte, e non c’era un’anima in giro.

Oh dio, che ironia. Anime in giro. Quante sono in realtà, queste piccole metafore innocenti che usiamo quotidianamente, senza sapere di cosa stiamo parlando, senza sapere quanto peso mettiamo in fondo nelle nostre piccole parole.

Ora che mi sentivo meglio, lasciai che la razionalità tornasse rabbiosa dentro di me, a sistemare il disordine e raccogliere le sensazioni da terra. Dovevo tornare al principio.

Inspirai.

Clack, clack. La reflex scatta, scatta. Il flash unito ai rimasugli di sonno crea uno squisito coktail di rincoglionimento, ciononostante mi alzo. Prendo la camera, questa fa la buona per un attimo, poi mentre me la rigiro in mano mi scatta di nuovo in faccia. Bestemmio, accecato, e mio malgrado la lancio lontano in uno moto di fastidio. Finisce sul letto. Sul letto c’è qualcunocosa, seduto sul bordo, camuffato dalla penombra. Solita figura nerastra senza lineamenti, ma anche se non vedo il suo sguardo, SO che mi sta fissando. Indietreggio a scatti, cerco a tentoni l’interruttore della luce, lo trovo, lo accendo.

Idea discutibile.

C’è una nuova carta da parati, a quanto sembra. Le mura della stanza sono ricoperte di figure, alcune appoggiate di schiena, altre in posizioni strane, intente a compiere piccoli movimenti, come se stessero strisciando in verticale, le mani scivolose sull’intonaco, le dita aperte. C’è un rumore, ora lo noto, è un respiro roco forse, ma annacquato, liquido, ed ha una specie di eco, come se fosse un coro di tanti interpreti, e sembra arrivare da lontano, anche se le figure sono a pochi metri da me. 

Non so quanto resto sull’uscio ad osservare la scena, probabilmente pochi, nervosi secondi. Me ne corro in cucina, forse perchè lì ho lasciato la luce accesa, e inconsciamente quanto erroneamente siamo portati a pensare che la luce sia sicura. In cucina c’è un’altra, solitaria figura. Mì dà le spalle, è di fronte alla finestra e sembra guardare fuori. Lì, lo ricordo, è il momento in cui mi sale la rabbia. Mi scaglio verso la figura, con quale scopo non so, e credo fossi convinto che le mie mani l’avrebbero attraversata, e invece no, serro la presa su qualcosa che sembra un tessuto liscio, quasi viscido, come fosse seta marcia, pelle di un sogno morto, e poi la figura si muove, scivola di lato e perdo la presa, e inizia a muoversi veloce veloce, muoversi in un modo strano, e dio, COSA sta facendo, sembra stia BALLANDO, si agita tutta, ma non c’è grazia nei suoi movimenti, c’è qualcosa di nervoso e scattoso, sembra una marionetta manovrata da qualcuno, mi si avvicina poi saltella indietro, fa mille piroette, e l’eco del respiro roco ora è come una pioggia di colpi di mortaio, riempie le mie percezioni, e basta, sento la follia grattare sugli stipiti della mia mente, aprimi, aprimi, e semplicemente qui non posso restare un secondo di più. Corro, corro fuori sulle scale, corro in strada, corro verso dove cazzo non lo so, corro e basta.

Espirai.

Mi guardai i palmi delle mani, graffiati e sanguinanti per la caduta. La voce lieve di Laura arrivò da dietro di me, inaspettata, calma e inquietante.

 “Dovresti disinfettarti. Lo sapevi che una volta in questo punto erano soliti impiccare i partigiani?”

Credo che mi lasciai scappare un sorriso, nonostante tutto. Scrollai le mani e mi girai lentamente, pronto per il mio colloquio con l’Ignoto.

Kire 

(J&B) La Regola

Non sono tanto attaccato ai soldi.
Non fraintendetemi, li adoro e solo Dio sa quanto vorrei un credito illimitato ma il tutto è soffocato dal sapersi accontentare.
La ferraglia che rubo e vendo mi da quel poco sufficiente a mangiare e bere e fumare, pagare il mensile di WoW nei periodi di vacche grasse e al limite ma proprio al limite, vestiti nuovi.
Una regola di vita, soddisfatto in pieno nei miei bisogni.
Un pompino da una settantenne è gratuito e magari anche migliore di uno fatto da Terri dat ass Summers, scopare con una novanta chili ubriaca caricata al bar è lo stesso di scopare con una Jessica Alba ubriaca caricata al bar. La fessa quella è. L’importante è sborrare.

La Regola non è del tutto perfetta, ha delle carenze come tutto del resto.
Quando uno dei punti fermi viene meno, comincia a vacillare, si cretta e infine crolla. La settimana scorsa è morto sulle mia gambe; niente più WoW, niente più film, niente più Oz, niente più musica e soprattutto niente più porno.
La noia ti rapisce, cammini in circolo nel tuo appartamento, che diventa più piccolo, claustrofobia, crisi di nervi e per poco non vai a cercarti un lavoro.
Non puoi più accontentarti.

Frughi tra le tue finanze e loro ridono di te, ti guardi intorno per cercare qualcosa da vendere e ottieni la stessa risposta.
Unica soluzione: chiamare Drobo.

Drobo è un fratello africano.
In realtà non credo che si sia mai allontanato da qui, dove è nato. La sua famiglia deve essersi mossa quando Kelly McGillis era ancora attraente e il signor Drummond zuccherava le nostre televisioni.
Negli anni si è scelto questo soprannome per darsi quel senso di selvaggio ed esotico che non ha.
Benché siamo nello stesso campo, lui segue una via più rischiosa dei depositi di ferro vecchio: i cantieri.

Mentre guida quel residuato post sovietico di furgone non posso fare a meno di fissargli il braccio nudo per quanto è grosso.
No guardie serie, due sole che si cagano sotto al primo buh! Capito fratello ? Lì è facile, dobbiamo solo stare attenti a girare intorno a loro, altrimenti ci fottono il culo. Capito ? Poi andiamo alla porta del deposito, spacco il lucchetto e carichiamo tutto quello che possiamo: avvitatori, tassellatori, batterie e tutta merda così! C’è da tirare su tanta roba e tanti dollari. Yeh!
Si. Una sola domanda: perché parli come un coglione ?
Come coglione ? Questo è il mio modo di parlare.
Non è vero, sai parlare correttamente coniugando a meraviglia i verbi e spesso ti sento parlare in dialetto.
No no no. Stronzate.
Ok. Non è che mi aspettassi un ambiente meno gangsta dopo aver visto che indossava solo un paio di pantaloni neri larghi e un paio di anfibi. Petto nudo decorato con un collanone d’oro.
Un’altra domanda, il lucchetto con cosa vuoi romperlo ? Chiedo.
Martello e scalpello. Belli grossi.
E tipo il rumore ? Non è troppo da stronzi lasciarli nel furgone e usare un paio di grosse pinze ?
Non le ho.
Perfetto.

Il cantiere è in periferia, un complesso di villette a schiera prossime alla costruzione. Reagan sarebbe orgoglioso.

Carichiamo un altro elemento che non conosco. Telegiornalmente parlando ha un accento dell’est, pelle arsa dal sole e fuma delle nauseabonde bianche senza filtro.
Drobo mi dice che lavora in quel cantiere, sarà la nostra guida. La calce che copre tutti i suoi abiti mi dice che è non ha avuto nemmeno il buon gusto di cambiarsi.

Facciamo un pezzettino di strada a piedi.
La zone è davvero isolata, eccetto il cantiere illuminato a giorno da tre alti fari, tutt’intorno è nero assoluto.
L’amante del buon tabacco fa strada, camminiamo chinati e furtivi nell’ombra. Mi hanno affidato i cinque sacchi di tela che dovremmo riempire, tutti a me, stronzi.
Ad ogni suo cenno ci fermiamo e ci appiattiamo al suolo, lui sbircia furtivo per un po’ e fa cenno di ripartire. Lo fa apposta per coglionarci.
Passiamo a vista dell’ingresso, noto le due guardie giurate che fanno gran discorsi nella loro cabina. Giunti alla recinzione la nostra guida sposta una panca di legno e scopre un taglio a misura d’uomo.

Quando arriviamo al deposito sono sollevato, e distante dalla guardiola e i colpi del martello di Drobo forse andranno dispersi.
Tre, uno più secco dell’altro, il lucchetto collassa a terra. Dentro c’è tutta la merda elencata da Drobo, mi pagherò il mensile per un anno intero, fumerò e berrò come un dio.
Riempiamo i sacchi, ne avremmo dovuto portare di più, me ne carico uno sulle spalle, è pesante ma non fa niente. La guida prende il mio stesso peso e fa cenno di seguirlo, Drobo ha ben tre sacchi sulle spalle.

Il J&B, il mio Worgen, i torrenti che scorrono, Russian Mom And Two Lucky Bastards, Surprise Anal Causes Emotio…

Un secco rumore che non ho mai sentito, non ci vedo, non so cosa è, l’occhio sinistro fa male, il destro è annebbiato, le orecchie mi fischiano.
Lascio cadere il sacco.

Slon

L’Intersecatrice (III)

Non ho mai creduto ai fantasmi, e non ci credo nemmeno ora. D’altra parte, come molti altri bravi agnostici, non ho mai nemmeno avuto la convinzione che l’universo si muova in base alle mie credenze. Quello a cui avevo assistito era stato senza dubbio…notevole; ma riflettendoci a mente fredda, dopo aver scremato tutto quello che era stupore e spavento, continuavo a rimanere scettico.

Scettico, e tuttavia curioso. Forse ero davvero entrato casualmente in contatto con qualcosa che non capivo, e forse lo stavo provocando, e forse era la cosa peggiore che potessi fare. Ma chi se ne frega, quando mai capita di vivere esperienze simili?

Questi erano grossomodo i pensieretti con cui mi dileggiavo i giorni seguenti all’…(Apparizione? Allucinazione? Epifania?)sulle scale. Con la scusa di un lavoro altrove, smisi di vedere Laura per circa una settimana, e la occupai interamente a studiare e informarmi su casi simili. Lessi molte cose interessanti, ma nulla che potesse essermi davvero utile. Morivo dalla voglia di combinare qualche pasticcio.

Trovare parcheggio fu facile, uno spiazzo di ghiaia ad un centinaio di metri di distanza. Anche entrare fu uno scherzo, si trattava solo di scavalcare un cancelletto arruginito di un metro e mezzo d’altezza, avendo la sola accortezza di controllare che non arrivassero macchine dalla strada, pronte loro malgrado ad immortalarci con i propri fari nel pieno delle nostre attività losche.

Le luci dei lampioni e delle case morivano pochi metri dopo il cancello, nello stesso punto in cui iniziava il regno oscuro della vegetazione. Quasi un secolo di abbandono e desolazione brindava soddisfatto alla visione del proprio operato: dell’unico, piccolo sentierino, già umile ai suoi tempi d’oro, non era rimasto praticamente nulla. Solo qualche gradino scavato nella roccia rimaneva ostinato a ricordare segni di pellegrinaggi antichi, terminati a fine ottocento, quando la comunità ebraica si era spostata verso terreni più fertili. La salita si ergeva pigra e lenta per circa una cinquantina di metri, piegandosi più volte su se stessa, facendoci imprecare a varie riprese per la ripidità e il buio e la natura bastarda e selvaggia, che ti lanciava rami in faccia e ti faceva inciampare in buche e dislivelli camuffati dall’erba alta. Quando finalmente arrivammo in cima alla collinetta rimasi senza fiato qualche secondo: non era cambiato praticamente nulla dall’ultima volta che ero stato qui, più di dieci anni fa. La luna abbracciava di luminosità gentile il vicino e il distante, le circa cento lapidi enormi di pietra grezza, e l’orizzonte con la città puntellata di piccoli punti di luce calda, e la nera pianura alle sue spalle.

Eravamo in quattro, io in testa, torcia in mano, poi Laura dietro di me, aggrappata al mio braccio con simulato e civettuolo spavento, e infine due miei vecchi e buoni amici d’infanzia, con cui avevo condiviso molti semidimenticati pomeriggi in questo stesso luogo, a fumarci canne, imboscarci con le tipette a giocare, a fantasticare su spiriti e fantasmi, iniziando ad immaginare giocando cosa fosse la morte. La magia dei sedici anni.

Avevo scelto io di venire qua, senza dire nulla a Laura se non mentre parcheggiavamo l’auto. Nel vederla apprendere che stavamo per intrufolarci in un antico cimitero ebraico, mi parve di notare nella sua espressione un accenno di disappunto, ma fu talmente passeggero che non feci domande. Ormai eravamo là. Non sapevo neanche io esattamente cosa aspettarmi. Guardai la macchina fotografica che tenevo appesa al collo, e mi sentii improvvisamente stupido. Cosa avevo pensato? Che una volta sul luogo, sarebbe saltata fuori all’istante una schiera di spiritelli giudei, pronti a farsi fotografare da me mentre facevano capriole? Forse avevo visto troppi film scadenti. Forse stavo semplicemente diventando scemo.

Restammo lì per circa due ore. Bevemmo birra e ci raccontammo storielle. Io ciondolai un po’ ovunque, osservando le strane iscrizioni antiche sulle lapidi, scattando decine di foto al nulla, foto che avrei controllato più tardi e in cui avrei sicuramente trovato aloni strani e facce dietro le spalle, come in un film coreano con le bambine capellone. Che stronzate.

Non successe un cazzo di nulla. Ce ne andammo tranquilli. Laura era silenziosa. Per la prima volta da quando la conoscevo, finimmo la nottata singolarmente, ognuno nel suo appartamento. Quando arrivai mollai la mia roba e mi fiondai a letto. Poco dopo, già sognavo.

Mi trovavo in un luogo completamente buio. Tentavo di spostarmi, di camminare a tentoni, ma mi scontravo continuamente contro quelle che mi sembravano persone in piedi, che non reagivano, non parlavano, non si muovevano.

Clack!

Improvvisamente ci fu una specie di lampo, una luce intensa e velocissima che illuminò l’ambiente per una frazione di secondo, abbastanza da farmi capire che mi trovavo in mezzo ad una folla immensa di figure umanoidi e oscure e immobili.

Clack!

Clack!

Il lampo si ripetè ancora una volta, e poi un’altra, e poi cominciò a illuminare a raffiche velocissime una distesa infinita di questi fantocci nerastri, e mi sembrava di essere in una discoteca piena di anime dimenticate e tristi, impegnatissime a ballare la danza immobile del silenzio.
Riaffiorai nel dormiveglia e ci misi un po’ ad accorgermi che non era completamente un sogno, e che qualcosa stava accadendo davvero. I lampi erano sempre più veloci e fastidiosi. Quando mi decisi ad aprire gli occhi con un gemito li richiusi subito, accecato da un treno in corsa di luce.

Clack! Clack! Clack!

La macchina fotografica, appoggiata sulla credenza, era rivolta verso di me e stava scattando di gusto. Il flash riempiva l’aria di esplosioni bianche e stordenti, che lasciavano aloni sulla retina e stridii nel pensiero.

E quando finalmente mi alzai per capire cosa stesse succedendo, mi resi conto di non essere solo.

Kire

Antri perigliosi

Dalle statistiche del sito riguardo le ricerche degli utenti che puntano qui

ricerca apparsa tra le statistiche del sito

Mi piacerebbe sapere qualcosa sui dubbi, le speranze, i travagli interiori che dilaniano la/il povera/o utentessa/e che ha fatto l’ultima ricerca.
Il suo partner che la sera prima le/gli ha chiesto il culo come pegno di amore e lei/lui che ha preso tempo per riflettere sulla cosa. Per provare, forse, a preparare un rifiuto.
Oppure ha già concesso al focoso amante il proprio prezioso ano, e alzandosi di malavoglia nel tardo pomeriggio del giorno dopo, infastidita/o da un inedito calore nel deretano, ha notato con orrore macchie rosso-brunastre sul fondo delle proprie mutandine di pizzo rosa e si è precipitata/o sul webz-che-tutto-sa a vedere cosa mai il bruto abbia potuto provocare al suo organismo, come la di lui pugnace verga abbia potuto brutalizzare il suo sfintere. Prega perchè sia qualcosa che si possa nascondere, che la sua famiglia e il suo medico curante non sappiano.
Questa povera creatura in pena, dolorante nel corpo e nell’anima, che si schianta su un blog di vibrante irrealtà, farcito di storie tremende scritte da esseri con nomi non umani, che parlano di gente che muore (opossum), gente che sguazza nello squallore (slonna), gente che passeggia per incubi dalle inquadrature sbilenche che manco il gabinetto del dottor Caligari (Kire); storie che, a ben vedere le/gli suggeriscono impietosi paragoni con la propria condotta di vita peccaminosa, paiono indicarla/o e deriderla/o e minacciarla/o di conseguenze ben più gravi e durature di un semplice colon massacrato.
Mi pare già di conoscerti, Andrea (posso chiamarti Andrea? Che è un nome unisex e torna comodo?). Sono solidale con te. Posso cercare di capire il tuo dolore, Andrea.
Andrea, lascia che te lo dica. Col cuore:

– Ma vai a cagare, Andrea!

Opossum

(J&B) Aceto

Osservare la pioggia da dentro casa e tutto ciò che faccio quando piove.
Sono un feticista del rumore delle gocce sbattute sui vetri, sentire il lieve odore di pioggia mentre filtra tra i serramenti e udire i tuoni in lontananza o vicini che fan vibrare tutto.

Ho organizzato il pomeriggio creando una postazione a terra sul mio lato destro avendo la finestra di fronte. Portatile tenuto in vita dalla prolunga, sperando che non salti la corrente, ben piazzato per usufruire gentilmente della wi-fi spacciata dal mio eroe sconosciuto, colui che bacerei a testa in giù.
Posacenere e un quarto di bottiglia con l’etichetta Irish Whisky.

Spalle al muro, gambe distese, portatile sulle gambe, ticchettare alla finestra, dolce odore e tuoni occasionali.
Pigio il tasto e concedo spazio al macinino per organizzare il tutto, anche lui ha diritto ai suoi tempi.
Intanto bevo un sorso ma non sento l’Irlanda; sento la fragranza acida che brucia tutto il tubo, scaravento la bottiglia lontano e la stronza cadendo non si rompe nemmeno.
C’era dell’aceto da cucina lì dentro, il vecchio inquilino doveva essere un sadico figlio di puttana per metterlo in una bottiglia di whisky. Lo maledico a sufficienza e dopo un po’ me ne rammarico; è anche colpa mia che bevo le cose senza odorarle prima.

L’incidente non deve rovinare il momento, non avere nulla da bere è sì triste ma non tragico.
Accendo una mezza sigaretta conservata dalla mattina e appare il desktop. C’è ancora da aspettare ma il grosso è fatto.
Butto lo sguardo a destra e sinistra nell’appartamento come un faro, guardo il crocefisso sopra l’ingresso, lasciato sempre dal sadico, e mi vien da ridere: in anni di filosofie, correnti di pensiero, teorie, scontri religiosi nessuno si è mai soffermato sul lato comico di un falegname che muore inchiodato.

Il segnale acustico mi comunica che è pronto a lavorare.
Leggo un po’ le notizie: giocatore a caso di rugby dice, riferendosi ai gallesi, che batteranno quell’ammucchiata d’ossa (nd con la scienza). Non è per niente british una dichiarazione del genere.
C’è pure la mamma di tale associazione, denuncia la situazione del figlio porno dipendete, passa dalle dodici ore in poi su youporn. Da bravo genitore dovrebbe indirizzarlo su Youjizz, Xhamster, Redtube o siti migliori.

Ripiego su Facebook.
Da quando esiste la gente comunica con i cartelli come Wile il Coyote che sta per cadere dal burrone e “dice” oy oy questo farà male!
E’ inutile formulare frasi, c’è già scritta sul cartello che tengo in mano. Una comodità alla fine.
VADO AVANTI A MODO MIO….E SE CADO PAZIENZA MI RIALZO!!! contornato con una foto di Tom Cruise (che c’entra ?), più o meno significa: “Mi piacerebbe avere la voglia di percorre una strada incerta ma piacevole senza aver paura delle conseguenze”.
I miei amici li scelgo in base a ciò che sono…non ciò che hanno (c’è Jonny Deep):
non sono particolarmente attratto dai beni materiali ma bensì dal valore dei singoli.
Condividilo…ha fatto tanto per te (foto di Gesù, sensata qui): rido mi torna in mente la cosa di prima.
Non giudicarmi…tu vedi solo quello che io scelgo di farti vedere
(hipster che si accende una sigaretta): son furba, che ti credi ? Faccio solo finta.
E così via.
Vittime di questa evoluzione nel comunicare sono le virgole, lentamente spariranno a favore dei tre puntini molto più facili da digitare.

Scorro nei preferiti e clicco su Efukt.com; le cose peggiori succedono quando fai azioni di routine e mai immagineresti che proprio quello possa diventare un momento terribile.
Il tuono è forte vibra tutto, distratto nemmeno mi accorgo che stava già morendo, sento la ventolina che fa un lieve sibilo nel suo ultimo giro, lo schermo è nero, è morto.
Sulle mie gambe.

Slon

L’Intersecatrice (II)

…altri inquietanti.

Laura non parlava mai della sua vita, o del suo passato; e sebbene io fossi tutt’altro che invadente su quest’argomento, mi resi conto che più tempo passava, meno cose sapevo di lei. Il nostro rapporto consisteva essenzialmente in un’alchimia perfettamente bilanciata di sesso bestiale e discorsi astratti. Il primo mi stupiva continuamente: era pazzesco constatare quanto lei fosse letteralmente insaziabile, e come si calmasse, quasi per cortesia, solo quando notava che mi uscivano gli occhi dalle orbite, segno che non ce la facevo neanche più a respirare.

Riguardo ai nostri conciliaboli, la situazione non era molto diversa. Una cultura eclettica e sconfinata, una sensibilità attenta e un senso dell’umorismo vivace e ponderato, spesso cattivo nella sua eleganza, erano i pilastri del suo comunicare. Con lei era possibile parlare di tutto, anche del soggetto più insignificante, per ore e ore, senza stancarsi mai. Ma c’erano altri aspetti.

Cominciarono i rumori. Non rumori veri e propri, forse più flebili suoni, figure piccole e sfocate all’orizzonte dell’udito. Li percepivo più che altro nei momenti di tranquillità e intimità, come quando stavamo abbracciati a letto. C’erano poi sensazioni strane, mi pareva di percepire qualcosa attorno a noi, anche se naturalmente non vedevo e sentivo alcunchè. E’ difficile da spiegare, ma è come se osservando la stanza da letto ci fossero punti in cui l’aria sembrava “diversa”, più…pesante.

Un giorno la portai in auto a fare un giro nelle solitarie campagne della mia giovinezza. Passeggiammo a lungo nella natura, facemmo l’amore nell’erba profumata, mangiammo in osteria. Fu uno splendido pomeriggio.

Guidando verso casa, decisi di fermarmi a dare un saluto a una zia che non vedevo da molto, e che abitava nei paraggi, in una vecchia casa isolata in cui avevo passato buona parte della mia infanzia. A quei tempi oltre alla zia ci viveva anche mia nonna, morta molti anni fa per una brutta caduta dalle scale, scale vecchie e malandate, di un’altra generazione.

La vecchia zia ci accolse con perfetta ospitalità, anche se non ci voleva molto per accorgersi che avrebbe di gran lunga preferito restarsene in poltrona a seguire i suoi programmi tv preferiti. Offrì il caffè e le solite chiacchere di rito. Ci fece domande di cui palesemente non le interessava la risposta. Dopo dieci minuti, pensavo già a come salutare e uscire di scena. Dovevo pisciare: decisi che dopo averlo fatto ce ne saremmo andati.
L’unico bagno della casa si trovava al piano di sopra: imboccai il pianerottolo e iniziai a salire gli scivolosi gradini di legno. E poi, mi bloccai.

Sui primi gradini, in alto, perfettamente illuminati dal grande finestrone, c’era..cazzo, non lo so, c’era qualcosa. Una figura completamente nera, senza lineamenti, dai contorni sfumati. Stava seduta, la testa vicina alle ginocchia piegate, e appariva raggomitolata su sè stessa, quasi in posizione fetale, per via di quei gradini così stretti. Era immobile, eppure sembrava muoversi, quasi come se fosse percorsa da un leggero sfarfallio, un inspiegabile tremolio dell’aria.

Non credo di poter descrivere il numero di pensieri e sensazioni che mi assalirono in quei pochi secondi, ma sicuramente restai esterrefatto. Devo aver detto qualcosa, forse un’imprecazione, una bestemmia, un semplice mio dio, non ricordo. Ma qualsiasi cosa mi sia uscita dalla bocca, la figura rispose.

Due sottili linee nere, che dovevano essere le braccia, cominciarono a sollevarsi lentamente ai lati dell’apparizione, per poi fermarsi a mezz’aria. Altre linee più piccole, le dita, iniziarono a delinearsi perfettamente nella luce. La figura rimaneva seduta: la testa chinata, le braccia alzate ma non tese, i gomiti piegati, le dita perfettamente dritte e staccate tra loro, sembrava come se la cosa stesse preparandosi a suonare un pianoforte inesistente. E poi, quel suono, quel suono che arrivava da tutte le parti e da nessuna, talmente flebile ed effimero da essere assordante, quel suono strisciava, si avviluppava ai sensi come un pitone incazzato, diosanto, e cresceva, saliva, ed era schifoso, ed era un

hhhhsssssssssssSSSSSSSSSSSSSSSSSS

Quando qualcosa da dietro mi toccò la spalla, sbarellai. Non credo di aver urlato, ma sicuramente ho fatto il più pirotecnico dei miei balzi da mentecatto, sbattendo poi la testa sull’attaccapanni a muro. Mia zia, sull’uscio e con la mano ancora alzata, mi guardava con un’espressione tra il sorpreso e l’infastidito. Laura era ancora nell’altra stanza, fuori dalla mia visuale. Non controllai nemmeno se la figura era ancora là, uscii dalla casa correndo e camminai qualche minuto nei campi per calmarmi. Pisciai contro un albero. Ero fuori di me.

Quando mi ricomposi, tornai a prendere Laura, salutando frettolosamente la zia. Nel viaggio di ritorno non parlai, nè lei mi chiese nulla. Mi rifeci i soliti discorsi mentali e mi diedi le solite spiegazioni, ma stavolta non avrei potuto dimenticare. Per la prima volta, collegai Laura a tutte le sensazioni e gli avvenimenti che mi stavano capitando. Continuai a comportarmi come se nulla fosse, ma dentro di me cominciavo a fantasticare su un esperimento.

K

L’Intersecatrice (I)

Saranno tre mesi che conosco Laura. Tre mesi e sei giorni, a voler essere puntigliosi…ma neanche tanto, dato che è facile ricordare il nostro incontro. Ci siamo conosciuti ad una fiera del libro usato, che si teneva nella piazza principale di un paesino qua vicino. Ci andai in una stanca domenica pomeriggio, e me la trovai davanti, dall’altro lato di una bancarella d’esposizione.

Tra le mani sottili, a mezz’aria, teneva una vecchia edizione economica di La vita nuda, di Pirandello. Leggeva intensamente, gli occhioni spalancati, le labbra che mimavano il testo, i capelli castani che avrebbero dovuto essere raccolti e invece spuntavano e schizzavano fuori da tutte le parti. Devo averla fissata rapito per qualche minuto, senza nemmeno rendermene conto, prima che lei si accorgesse di me e mi regalasse uno dei sorrisi più belli che io ricordi. Decisi che me la sarei portata a letto la sera stessa, e attaccai bottone.

La sera stessa uscimmo a mangiare una pizza insieme, e non me la portai a letto. Alle tre del mattino, stavamo ancora distesi nell’erba, a contemplare l’eternità e a raccontarci i nostri sogni più intimi, belli caldi sotto le coperte di una rara empatia.
Prima dell’alba, mi ero innamorato di lei.

Non so quando iniziarono i fenomeni. Immagino da subito, anche se forse erano troppo deboli, e io troppo distratto, perchè potessi accorgermene. Il primo segno importante fu una notte nel mio appartamento, circa due settimane dopo. Avevamo fatto l’amore da poco, e io ero andato a darmi una rinfrescata in bagno, e poi in cucina a bere un po’ d’acqua. Tornando indietro, passando affianco alla porta del bagno rimasta aperta, scorsi al suo interno una figura nera e fumosa, per quello che doveva essere stato un mezzo secondo.
Mi bloccai di colpo, istantaneamente confuso e teso, e tornai indietro di un passo per guardare meglio. Nulla, ovviamente: solo il mio bagno in penombra, esattamente quello che il copione del creato prevedeva per i miei sensi in quel momento. Accesi la luce e ripensai a quello che avevo visto, ma era stato davvero troppo veloce per scorgere dei dettagli. Il mio cervello aveva immagazzinato solamente il fotogramma di una macchia scura e informe, di fattezze umane, in piedi immobile davanti allo specchio, e con forse un accenno di bianco senza lineamenti al posto della faccia. Nient’altro.

Ci rimasi male. Nonostante fossi sicuro di averlo visto, alla fine non è che restassero molte opzioni. Pensai alle solite stronzate: la stanchezza, l’eccitazione, la fantasia, un gioco di ombre, il vino, il comunismo. Non ne parlai a nessuno. Mi tranquillizzai, e due giorni dopo non ci pensavo già più.

Nel frattempo, io e Laura ci frequentavamo sempre più spesso, e iniziavo a notare un gran numero di particolari, alcuni interessanti…

Kire

Quale non fu la nostra sorpresa quando trovammo una batteria d’auto abbandonata accanto al cancellino

Venti anni fa via Pace era la via più desolata di Manerba. Non tanto d’estate – quando era pregna di chiassose comitive teutoniche, nederlandesi o similari – quanto d’inverno. Il rigidissimo inverno mite basso gardesano.
Via Pace è l’ultimo anfratto asfaltato della Pieve dopo aver svoltato per via Giuseppe Verdi. Via G.V. si interrompe a un certo punto, a ridosso del lago, gira su se stessa e torna indietro (un po’ come a Venezia, dopo che avete attraversato il Ponte della Libertà e arrivate a Piazzale Roma). A destra c’è un minigolf. Nascosta dietro il minigolf, via Pace.
Via Pace, come dice il nome, costeggiava, e costeggia tuttora, duecento metri circa di riva gardesana, più o meno settanta metri all’interno. Non sbuca da nessuna parte, interrompendosi contro un cancello che venti anni fa era bianco e che oggi forse, chissà, potrebbe pure essere giallo. Non sono sicuro che fosse bianco all’epoca. Magari è bianco oggi ed era giallo allora. Dietro quel cancello c’era un residence, perchè via Pace era, ed è, in sostanza questo: un breve sfilare di residence composti da piccoli appartamenti e piccoli garage, popolati da tedeschi d’estate e d’aria stantia d’inverno. Questi edifici, che hanno qualche decina di anni, sono l’unica separazione tra la ghiaiosa riva lacustre e la via Pace propriamente detta, una striscia d’asfalto larga a malapena quanto un SUV.
Questa via ha oggi perso tutto il suo fascino, perchè veramente non ci sono che residence da quattro soldi e i loro garage. Ma ieri, venti e più anni fa, quando la cortina di ferro era ancora integra, via Pace d’inverno era un luogo da cartolina infernale. Ci abitavano sì e no una mezza dozzina di custodi con famiglia, il lago di gennaio si rivelava una cornice di una tristezza sconfinata (i pontili, Dio mio, cosa non parevano i pontili d’inverno), e soprattutto la via era deserta e pareva Belgrado dopo un bombardamento. C’era un edificio bellissimo, che mi dicevano essere un ex-supermercato, abbandonato dagli anni ’70 e mezzo crollato (oggi non c’è più, c’è un piazzale con dei garage); dietro, alcuni buchi per auto (cit.) pressochè inutilizzati con le erbacce nel selciato. C’erano un sacco di altre bellissime brutture.
Ci sono passato di nuovo qualche tempo fa. Ok, non è inverno, ma è comunque bassa stagione. Ma ora è tutto dannatamente terzo millennio, via Pace è stata in gran parte restaurata; è ancora squallida ma di un certo qual triste squallore moderno. Non c’è più quella sincera aria di decadenza secondomondistica.
Via Pace faceva schifo, e mi piaceva. Adesso fa schifo tout court. Vaffanculo.

Opossum

Conoscenze Idrauliche (J&B)

Sono le quattro del pomeriggio!
Mi rimbomba nel sogno; c’è qui Céline, mi dice belle parole, parole vere.
Ma non le sento. SONO LE QUATTRO DEL POMERIGGIO! Copre tutto, quell’urlo marziale e femminile.
Urla che l’ora ti copre, dico a Céline. Qui realizzo che sto sognando, nella realtà non parlerei certo così, nemmeno a Céline.
E forse la definita consapevolezza di star sognando e lo schiaffo che sento sulla guancia a svegliarmi. Nemmeno il tempo di salutare Céline.

Dritta in piedi, sottovuoto in una tuta da ginnastica, c’è la vecchia dell’appartamento di fronte, pelle coriacea e abbronzata, fisico magro con le tette ed un pezzo di pancetta afflosciato che puntano al suolo, braccia conserte, spuntano fuori lunghe unghie rosse di smalto, capelli grassi e biondi, tinti con una soluzione scadente ma da una mano esperta (la sua), labbra affogate nel rossetto e gli occhi, magnifici d’azzurro con un trucco nero che li risalta. Il canto del cigno della sua bellezza.

Sono le quattro del pomeriggio!
Cristo vecchia, sognavo Céline. Per la prima volta in vita mia non condividevo solo l’alcolismo con Bukoswky.
Sono le quattro…
Ho capito, cazzo.
Perché non chiudi la porta ? Potrebbe entrare qualcuno qui dentro.
Si, tipo una manica di troie ma fino ad oggi solo tu hai fatto il gesto.
Devi venire da me, problemi con lo scaldabagno, problemi urgenti.
È solo un bottone da premere, rosso, quando da problemi l’acqua o la corrente si stacca. Ieri sera qui non avevo acqua. Hai mica toccato la maglietta che era ai piedi del letto ? Mi sporgo ed ancora lì, stropicciata nella sua vergogna.
No, sei mica mio figlio che devo sistemarti la camera. Allora vieni ?
È un bottone, premi e riparte.
Mi fa paura quel coso, fa dei strani rumori come se ci fosse qualcuno dentro.
Cara, oggi il nemico non si nasconde più nei scaldabagni. Sbuffo. Ok ok, ma sai già cosa fare dopo.

Metto una maglia (no, non quella) e la seguo scalzo. Mi piace mantenere il contatto con il suolo dove cammino.
Il suo appartamento è una disfatta per me, prima di tutto ha una mobilia, è pulito ed ha una parvenza di normalità. Se non fosse per quell’odore di vecchia andrebbe anche bene.
Arriviamo in bagno ed è bianco, lucido. Solo lo scaldabagno e arrugginito e con aloni gialli sul bianco. Dietro la sua circonferenza si nascondono grosse macchie di muffa.
Premo il bottone, fa dei strani rumori come se ci fosse davvero un nano che sta affogando là dentro, quasi mi giro per guardare la vecchia con uno sguardo preoccupato che sa di scusami per non averti creduto.

Quando ci metterà l’acqua calda ad arrivare ?
Mezz’ora.
Mi giro, rilassato mi appoggio al muro, lei prende un fazzoletto di seta dalla tasca e pulisce il rossetto mentre io sfilo la cintura ed abbasso pantaloni e mutande.
Quando sento l’umida accoglienza della sue labbra sulla cappella chiudo gli occhi e immagino un’altra bocca.

Mentre lei starà facendo un bagno con l’acqua calda mi trovo al bar al cospetto del primo J&B del giorno.
Mi portano via dalla distrazione i due colpi sulle spalle e la voce remissiva e gentile.
Hai parlato con mio padre ?
Si, è proprio lei. Short di jeans, maglietta attillata rosa, capelli biondi raccolti a cipolla nessun trucco. Non è male nemmeno così.
Daisy, sei proprio tu ?
Chi è Daisy ?
Scusa, ti avevo scambiata per una mia storia d’infanzia. Porto ancora i calli sulla mano destra in ricordo di lei.
Volevo ringraziarti, hai parlato bene con mio padre. Ieri ha detto delle belle cose su di me, cose che gli hai detto tu. Tipo che dovrei sposare un dottore.
Eh, si più o meno.
Certo è tornato ubriaco come al solito ma almeno non è stata la solita esplosione.
Bene, sono felice per te. Come procede la ricerca di un medico allora ?
Ride come una sguaiata e le vedo bene i denti stavolta, gialli e sporgenti all’infuori.
Vedremo come finirà, forse non manca poco.
Sono sicuro di si, ti consiglio un pronto soccorso li ne troverai a pacchi.
E tu dove abiti, stai con qualcuno ?
Mi piacerebbe che per stanotte il mio sperma trovasse un contenitore naturale dove andare a morire e non un tessuto artificiale ma per oggi ho già dato. In più qualcosa di non giusto e mostruoso c’è in lei. Quindi passo.
Mi troverai sempre qui, dalle quattro del pomeriggio in poi.
Bene, passerò a salutarti, sempre se non trovo prima un dottore. Risata sguaiata, la odio già.

Se ne va da lì a poco. Mi sentirei a disagio nel fare sesso con chi ha gravi carenze di Q.I., la vedo come una specie di pedofilia.

Quando salgo le scale di casa l’alito fatto di J&B mi raschia la gola, da sotto la porta della vecchia sfila un filo di luce. Appoggio la testa su quello spesso legno bianco e ruvido.
Altro soffio nei polmoni, la ragione prevale e vado dentro casa.

Slon