Deframe

“Mentre scendevo lungo Fiumi impassibili, | Non mi sentii più guidato dai trainanti. | Pellirossa chiassosi li avevano inchiodati, | Nudo bersaglio, ai pali variopinti.”
A.Rimbaud

Oggi esco a fare una passeggiata, e ne approfitto per portare fuori la cattiveria a fare i suoi bisogni.

E’ irrequieta, la cucciola. Ultimamente non le ho dato molta attenzione, e lei si è fatta nervosa, iniziando a fare dispetti in giro per la casa.

Già sul pianerottolo la sento tirare e strattonare, tanto forte che quasi mi fa cadere. Serro la presa sul vecchio guinzaglio, logoro ma solido, e strizzo gli occhi. Non è il guinzaglio a preoccuparmi, piuttosto trovo inquietante la velocità con cui Catty è cresciuta ultimamente, sebbene si nutra solo delle solite crocchette- stronzate quotidiane. Forse è tempo di cambiare dieta.

Due passi fuori dal portone, e l’immobilità ci inghiotte. Da quando Lei ha evocato la sua magia più potente, il Silenzio, il mondo appare così. Immobile, sccch. Niente nani-panda in monociclo che sculettano cantando l’inno nazionale della Corea del sud. Niente cavallette assassine con la testa di neonato che mi inseguono sibilando mentre piloto la mia astrobicicletta verso le spiagge asfaltate del Solito.

Che palle. Fa freddo. Catty ringhia, non capisce, perde bavetta. Dai piccola, op, andiamo al parco.

Al parco ci sono due figure, una di fronte all’altra. Un poeta, e un demente. Giocano a scacchi, e le pedine sono in fiamme, ma loro non sembra scottarsi e applicano strategie con noncuranza, nel frattempo chiaccherano.

“La vita mi si è infranta sul capo, come la marea sugli scogli. Ancora adesso la sento gocciolare, impregnare le vesti dei sensi”
blatera il poeta

“Puoi essere più chiaro? Detta così sembra che ti abbiano rovesciato un secchio di sperma in testa.”
balbetta il demente

C’è una sorta di ridicolo potenziale, sti due mi ispirano. Per questo mi distraggo, e Catty si libera dalla presa.

Il resto è questione di secondi. Uno scatto, una fila di zanne argentate, rumore di pelle che si lacera.

I due giaccono riversi a terra, il sangue che scorre adattandosi tra i sassi, creando curiosi bassorilievi di vita sprecata.

Oops. Riacciuffo Catty, e mi guardo intorno preoccupato. Sia mai che qualcuno mi veda, mentre affogo i miei sogni. Via di qui, è meglio.

Incrocio qualcuno, poco dopo. Ma proprio lei? Ora?

La Bellezza in tutte le sue forme mi si avvicina e mi sorride. Mi racconta novelle del suo mondo, e queste prendono forma sulle sue labbra, e tutto in lei è talmente mozzafiato che quasi mi lascio andare, mi inebrio del suo profumo, e le ondulazioni dell’emozione nella sua voce mi fanno venire voglia di piangere, da quanto mi fa star bene. Per un secondo supero la soggezione e mi avvicino all’universo dei suoi occhi, ma poi sento ringhiare. Sento uno strattone, e il senso di pericolo tinge tutto di rosso.

(Vuoi divorare anche lei? Non sei sazio?)

Corro, corro via, corro fino a farmi esplodere il cuore. La cattiveria mi segue felice, la lingua penzoloni e la coda che gira a mille. Uuf. E ora dove cazzo siamo finiti?

Lì, in fondo, ormai ci sono le porte della fantasia, con i cartelloni illuminati da luna park che promettono montagne russe, case degli specchi, autoscontri e tricchetracche.

Mi frugo nelle tasche, in cerca di spiccioli. Sono fortunato, mi resta ancora qualche sogno, forse basta per entrare…e per comprare un po’ di zucchero filato per me, e un po’ di ingenuità per la mia cagnetta.

Dove sta il vero coraggio? Nel saper accettare la vita con i suoi limiti e contraddizioni, o nel volerne testardamente immaginare un’altra?

Giuro, non ne ho idea. Ma in fondo, chi se ne frega.

Sono solo sogni.

K

 

Binario morto (ldcds ospita)

Dietro la curva, nel punto che offre la peggiore visibilità al macchinista. Sdraiato col capo verso la motrice, che non mi salti in mente di sbirciare all’ultimo e farmela sotto, diventare uno di quei mortacci grotteschi e striati dai loro stessi bisogni corporali, l’espressione basita, ebete. Bastano e avanzano le trenta tonnellate della bestia in arrivo a strapparmi quel barlume di estetica rimastomi addosso. Tutto qui. I piani migliori sono sempre quelli semplici. Dritto verso un gesto condannato da tutti: educatori, religioni, istituzioni.
Se esiste una forma di pubblicità in grado di fare sempre presa, quella è il divieto.
Non è il mio caso comunque, anche se non mi ci spinge nulla di eclatante. Siete davvero così sicuri che la farsa culla-scuola-ufficio-bara meriti motivazioni speciali per essere mandata a fare in culo? Per forza lo siete, altrimenti staremmo qui a spartirci il binario.
Nel silenzio assoluto l’antifurto del Suv cinguetta felice – almeno lui – mentre le frecce confermano la chiusura porte con un doppio lampeggio. Rifletto sul gesto e lascio sfuggire un sorriso prima di proseguire.
Vi dico solo questo, e fatevelo bastare: perfino scendendo dall’auto per venire qui a morire, sono riuscito a sfondare una cacca fresca, immerso fino alla caviglia, trecento euro di mocassini Fratelli Rossetti in cuoio buoni per la raccolta differenziata. Un escremento sorridente nel bel mezzo del nulla: quando sei un predestinato, prima ti annulli e meglio è. La vita mi ha dato parecchio solo per il gusto di potermelo togliere. Di beffarmi.
Ho sfogliato a lungo il catalogo delle Ferrovie Nazionali. Scegli comodamente a casa tua il treno, gli orari, la destinazione che ti si addice. Insomma hai una mezza preview di cosa ti ammazzerà e quando. La scelta è caduta sul top di gamma: alta velocità, solo prima classe, consegna poco dopo le ventuno.
Mi allungo sul ciottolame fra le traversine, roba da fachiri. E accendo una North Pole, la prima della mia vita senza rimorsi per la salute. Socchiudo gli occhi ogni volta che aspiro, li riapro quando sbuffo il fumo verso le stelle.
Lei appare nel mio rettangolo di cielo verso la terza boccata. Lo vedi già da capovolta, a centottanta, che una così non la metteresti mai a novanta, ma oggi è un giorno sui generis.
« Ciao » dico muovendo solo la bocca.
« Ciao » bela lei continuando a fissarmi. Sparisce dal campo visivo, però non mi faccio illusioni. Ascolto infastidito la ghiaia scrocchiare sotto il suo peso mentre si sdraia. E’ il mio treno, la mia sacrosanta rotaia. Se non lo provate non capite il livello di insofferenza. Ma Lei lo capisce benissimo, vista l’ora, il luogo e le comuni motivazioni.
« Nessuno mi ha desiderata, mai » si giustifica quasi. Parla senza fissarmi. Immagino ore di specchio inutile, a studiare se da una certa angolazione, almeno una, quel naso è accettabile, quel mento non fa la pancia. Prodotti cosmetici che ti dissanguano. Doppie punte. Pelle grassa.
« Io ho desiderato troppo » rispondo, e cazzo se le sono grato, perché in questo momento l’ho finalmente messo a fuoco.
Le prendo la mano, dita sgraziate, tozze. Sussulta, dopo un attimo stringe, stringe da forsennata e la sua fifa mi catapulta nel ruolo del forte, mio malgrado. Arriva il primo fischio lontano, pressoché impercettibile. Io ho già deciso, mi è bastato un istante. Dopo una vita sopra le righe, voglio morire sottotono, con una scopata poco attraente, le mie scarpe migliori infangate di merda. Le rotolo sopra senza incontrare resistenza, anzi: un fuoco, la voglia di anni che esplode – nonostante la situazione -lavandole via di dosso il timore.
Mi avvinghia. Ho un calcinculo negli slip. Quel suo maneggiare l’asta da inesperta, indescrivibile. Scopro nuovi feticci, troppo intensi e troppo tardi. Mordo le zinne grosse e sugnose. Ho il suo indice nel culo « Scusami, scusami » ma intanto non si ferma, né io voglio che smetta.
Le schiocco baci sulla passera, gustandola come se fosse l’ultima passera della mia vita poi realizzo che è l’ultima passera della mia vita e forse dovrei darci dentro con meno remore e maggiore ispirazione.
Lei rantola « Ho appena fatto pupù, prima, dietro la scarpata. Avevo tanta paura, si sente? »
Io rimugino.
Zoccola deficiente, amavo quei mocassini.
« Si sente sì » vorrei gridarle, anche se è falso. Resto ancora un po’ a fare lo struzzo tra quelle cosce grosse, avessi avuto mia mamma ad abbracciarmi anche solo la metà di così. Non so come veniamo, io, lei, di mano o di bocca, è travolgente. Ruzzolo sulla destra, stracciato dal piacere, pronto al gran finale; tre spanne separano il nostro affanno ritmato.
Il treno ci zooma addosso, metallo contro metallo, teso verso la frazione di secondo in cui sarà metallo su carne e poi più niente.
CLA-CLANG
Ripenso ai mocassini Fratelli Rossetti nella differenziata. Dove cavolo vanno? Tecnicamente sono catalogabili come secco, ma resta aperta l’opzione scarti organici.
CLA-CLANG
Adesso è veramente vicino, quasi vorace. Sbrana lo spazio, annulla il tempo,
Calmo, calmo, stai calmo. Non senti niente. Non la guardare, se frigna vai in crisi anche tu, non guardarla e resta tranquillo
Chissà quali stronzate si inventeranno su di noi i rotocalchi: l’amante, la storia torbida di provincia, anni di sotterfugi, chissà.
CLA-CLANG
Restiamo finalmente sereni, paralleli a un cielo di china, meraviglioso come quasi tutte le cose quando sei a un passo dal perderle.
Lei si schiarisce la voce per dirmi qualcosa. Non riesce. Il diretto ci è sopra. Un colpo inimmaginabile alla spalla.
Spavento.
Dolore.
Ti atterriscono i suoni: ossa friabili come biscotti, marmellata, unghie sulla lavagna, sassi giù per la tromba delle scale. L’anatomia umana si disintegra in un concerto.
E’ tuo il sangue che ti scalda la faccia?
Riapro gli occhi. La mano di Lei nella mia. Il resto di Lei srotolato lungo la linea ferroviaria in tutte le forme, tutti i colori che mai immagineresti. Inquadro l’orizzonte fra le punte dei piedi. Alla mia sinistra i binari.
Entrambi i binari.
Perché quando le sono rotolato via, l’ho fatto dal lato sbagliato.
E sento il conducente duecento metri più in là a maledire sé stesso, il mondo, il lavoro. Piange sopra i pugni bovini appoggiati al locomotore, senza guardare, piange. Singhiozza al limite del voltastomaco.
Barcollo verso di lui, con le mie tre mani, sfregando le scarpe nell’erba umida, mai vista così rigogliosa in questa stagione.
Bella.
Raggiungo il macchinista. Gli appoggio una carezza sulla nuca, taurina e scossa; ancora non so cosa dirgli, ma sono sicuro che qualcosa di sensato riuscirò a tirarlo fuori.

Cz

Salutami la luna

come rientrare da un viaggio strano, fuori, in orbita, dove è freddo e buio e tutto è sconosciuto; la lunga caduta che caduta non è, è altro, non senti l’aria che scorre tra le fessure del corpo, eppure vedi il tuo mondo sempre più vicino, sempre più grande, sempre più come lo ricordavi (bello, brutto, non importa). come rientrare da un viaggio strano, e ricordi perchè l’hai fatto ma forse non come ci sei arrivato lì, e come hai fatto ad arrivare così lontano, mentre rivedi i posti che conoscevi sempre più definiti, monti, mari, pianure, deserti. un frammento di mondo cattura la tua attenzione, è da dove vieni, da dove te ne sei andato quanto tempo fa? la caduta ora è veramente una caduta, sempre più veloce, sempre più si avvicina la fine del viaggio strano, gli alberi e le strade, lassù non vedi più niente: dov’eri arrivato? non lo sai più, il sole o le nubi ti impediscono di vedere sopra di te. e sotto di te c’è già casa tua, non la vedevi da tempo, è ancora com’era un tempo. rientri. chiudi la porta.

“dove sei stato tutto questo tempo?”

 

opossum

Granny e capitalismo (Precario)

La nonna di Roddo è morta.
Niente più oro, dice lui, la sorella di mamma dice che manca quasi tutto.
Ma non ho mica venduto tutto, dice Roddo. Mannaggiaddio, aggiunge per dare enfasi.

Triste giorno per un uomo quando perde la sua principale fonte di reddito.
Ha messo al lato un bel po’ delle sue cose, poggiate con cura sul letto e fotografate accuratamente.
Videogiochi, bella roba come Blade Runner dei Westwood Studios, edizione italiana in scatola di cartone. Grandi i Westwood Studios, prima che la fottuta EA li prosciugasse ne avevano fatto di roba buona razza di stronzi, dice Roddo. Prezzo: sessanta carte trattabili.
Planescape Torment edizione italiana cartonata, questo non lo do via per meno di settanta pezzi cristodiddio dove lo ritrovo più.
Newerwinter Nights edizione italiana, scatola di cartone. Venti euro sono pure troppi per ‘sta merda.
Ultimo è Icewind Dale, il primo. Quaranta euro. Nessun commento in particolare qui.

C’è anche uno Zippo originale, ci tiene a specificare, quaranta carte ma è da ricaricare.
Libri ? Chi cazzo li compra più i libri, decreta Roddo. Avrà di certo un senso, meglio annuire.
Fumetti, un’intera collana di Tutto Tex, ancora prezzati in lire!, specifica nell’inserzione. Offerta libera, così sono più invogliati a comprare, dice con fare capitalistico.

DVD. Dopo aver riflettuto conclude che nessuno comprerebbe dei Verbatim.
Stessa cosa con gli album degli Scissor Sisters.

Carte da poker Jack Daniel’s, sedici euro. Perché si.

Quando non ha più nulla da vendere siede sul letto, guarda la sua roba e decreta che meno di duecento euro non li farà. La gente compra di tutto, figurati bella roba come quella.

Due settimane dopo, prezzi dimezzati ovunque.
Offerte una sola: venti euro per la colla di Tutto Tex. Venti euro stocazzo, risponde testualmente all’email di paoletto_ferraro. Sarà uno stronzo di cinquanta anni che se lo mena ancora in mano, dice schifato Roddo come se essere uno stronzo cinquantenne che se lo mena ancora in mano fosse il peggiore dei crimini.
In più usa Tiscali. Ci tiene ad aggiungere.

Speranzoso medita un ulteriore taglio dei prezzi, dovrà pensarci bene.
Intanto mi informa che ha una nuova fissa, il granny. Sarebbe interessante studiare come mai l’interesse sia cresciuto in concomitanza con la morte della nonna ma forse meglio che no.
Mi mostra tre video, pessimi e come al solito ride per tutto il tempo.
In uno c’è una tardona con la peluria che arriva all’ombelico e sotto una roba che sembra il Canale di Suez che quasi mi immagino di vedere le navi britanniche impegnate a controllare la rotta delle Indie.

E un chiaro segno che devo tornare a casa.
Saluto Roddo e lo lascio alle granny e al capitalismo.

Slon

Un piccolo favore (ldcds ospita)

Nulla mi infastidisce più della cattiva musica. Rimbalza dentro ai timpani come una pallina in un campo da squash, con parabole imprevedibili sulle pareti del cattivo umore. Tocca nervi scoperti, riesuma ricordi accuratamente seppelliti, innesca dissonanze e cacofonie nei pensieri. Al ritmo di questo insopportabile suono, una selva di idioti vestiti con roba griffata o con plausibili contraffazioni, si dimena e si contorce, accaldata, al ritmo plastificato di un sintetizzatore, fingendo di divertirsi.
L’auricolare convoglia nei miei padiglioni un fastidioso ronzio che non riesco ad ignorare. Un cinquantenne sudato agita inutilmente le braccia dalla console, mettendo in mostra una coda di capelli ingrigiti ed uno sbuffo di pelo brizzolato dal colletto della camicia troppo slacciato. I suoi pettorali iniziano a cedere al tempo, e la vistosa lampadatura non riesce a nasconderlo: sarà una delle sue ultime stagioni, poi dovrà nascondersi dietro il microfono di una radio, sempre che lo streaming video non lo raggiunga pure là, impietoso.
Almeno la prassi non vuole che un buttafuori sorrida, perché oggi non lo potrei sopportare. Stanotte mi sarebbe spettato il turno al night giù in paese, ma all’ultimo minuto il proprietario dei due locali mi ha spostato qui. Non dovrò riaccompagnare le ragazze a casa all’alba, non mi verrà offerta né la colazione, né un paio di labbra piene di gratitudine. Non contento di questo, il bastardo mi ha piazzato fuori dal privè, dove entra solo la crema della sua clientela: crema di coglioni, una vera delizia se vi fidate.
Un ragazzino ubriaco mi rovescia mezzo mojito sui pantaloni e mi riporta alla realtà. Trattengo a stento la voglia di strangolarlo nell’incavo del gomito, mentre striscia via, ignaro di essere un animale senziente. Mi pulsano le tempie, gli occhi, la nuca: le luci sciabolano tra i miei neuroni tranciando dolorosamente sinapsi, pensieri e ricordi.
Chiudo un istante le palpebre, adocchiando l’orologio: manca talmente tanto tempo alla fine di questa nottata che slaccio il cinturino e me lo infilo in tasca alla cieca. Meglio non sapere, meglio ingoiare ogni secondo e deglutirlo in fretta per non sentirne il gusto.
Riapro gli occhi, e mi trovo di fronte due ragazze. Hanno l’espressione annoiata ed esasperata delle persone in fila dal medico di base il dieci di Agosto. Neanche i deliziosi brani di pelle nuda ed abbronzata che offrono alla vista altrui, attraverso impalpabili stoffe, riescono a schiodarmi dalla testa l’idea di loro due su un letto d’ospedale attaccate da un respiratore, tanta la sofferenza che trasudano.
Dietro di loro si fanno avanti tre bellimbusti, intenti a fissare il monitor di un telefono troppo grosso e luminoso per costare meno di uno stipendio. Nessuno di loro degna di uno sguardo i sederi delle due ragazze, indifesi, disarmati di fronte ai tre scalini dell’accesso al privè, e a gonne troppo corte per poter pensare di essere qualcosa più di una proforma.
La prima ragazza fa spuntare con discrezione dalla sua borsetta due tessere socio. Faccio un cenno col capo di entrare. Mi sfiora un braccio. Mi giro e mi ritrovo le sue labbra a qualche millimetro dal mio orecchio. Il dolore ed il fastidio interrompono un istante la loro danza, mentre la sua bocca mi sussurra poche parole. Una ciocca di capelli neri scivola lungo il mio braccio, facendo sgorgare fiotti di sangue nei miei corpi cavernosi.
“Dacci qualche secondo di respiro, che ci togliamo questi tre dai coglioni”
I tre tizi non si accorgono di nulla, ipnotizzati da un filmato di culi nudi che scorre sul monitor del telefono. Sghignazzano, ignorando i due culi veri a pochi passi dal loro naso. Con un cenno impercettibile rassicuro la ragazza. Lei sorride e pianta con delicatezza le unghie rosse sul mio braccio, graffiandomi leggermente al passaggio, con sensuale gratitudine. Lascia a galleggiare nell’aria un qualche profumo dolciastro di pesca. Non me ne verrà nulla. Conosco bene il tipo della profumaia, ma il principio di erezione che mi ha regalato merita un piccolo sforzo da parte mia, anche solo per ammazzare la noia.
Lascio svolazzare le due ragazze attraverso la porta, seguendone i corpi con la coda dell’occhio, mentre sposto con rapidità i miei centotredici chili un metro più a destra, mantenendo le braccia conserte e l’espressione neutra ma imbronciata d’ordinanza. Faccio spostare il tedio ed il fastidio con una spallata.
Il tizio che regge il telefono mi sbatte contro, guardando inorridito l’apparecchio rimbalzare per terra e finire un paio di metri dietro le mie spalle. Allunga inutilmente una mano verso l’oggetto, poi alza la testa verso di me. Dal colletto di una camicia bianca da trecento euro, spunta un viso spaesato e vacuo, incastonato in un ordinato esercito di corti capelli neri. “Tessera privè” dico meccanicamente, bloccandogli la strada.
Il tizio non capisce, o non ascolta: vuole il suo telefono. Cerca di spostarmi, come se fossi una tendina di velluto da un quintale e rotti. I suoi amici lo guardano allibiti. Quello più giovane sembra spaventato, l’altro ridacchia. Il tizio non sembra ubriaco né fatto: sembra solo un perfetto idiota.
Lentamente, con un braccio, lo sposto di fronte a me
“la tessera privè, per entrare” ripeto in tono neutro
Non gli passa neanche per la testa di chiedermi con educazione se gli posso raccogliere il telefono. I due ragazzi dietro lo fissano: con ogni probabilità ha le tessere di tutti e tre, e basterebbe che le estraesse per poter entrare. Invece annaspa con le mani e la testa verso il suo cellulare, che rischia ad ogni frazione di secondo di finire sotto qualche suola di una scarpa. Mi sguscia sotto un braccio con uno strattone: lo acciuffo per la camicia con un ringhio e delicatamente lo rimetto fuori dalla sala. Ci sarebbero gli estremi per farlo volare come un fantoccio fuori dalla porta d’entrata, ma ora mi sto divertendo. Mi limito ad appoggiarlo come un brutto vasetto di porcellana di fronte a me. Lo fisso.
Ad un certo punto, come se il Buddha in persona gli avesse tirato un ceffone, si accorge di aver di fronte un cristiano in carne ed ossa. Ma con ogni probabilità non realizza né la mia stazza, né tantomeno la mia professione. Arriccia il naso, aggrotta le sopracciglia e inscena una postura aggressiva tanto fallace quanto ridicola. Sta per sputarmi in faccia le sue ragioni, quando il meno scemo dei suoi amici sbotta.
“Fabio, e dagli quella cazzo di tessera, no?”
Per la seconda volta, il ragazzo viene preso a ceffoni da Buddha, in barba alla ruota karmika. Si rende conto della figura da idiota in corso, ed inizia a trafficare nelle tasche della giacca, estraendone un portafogli griffato, non meno costoso dell’apparecchio che sta cercando di recuperare a costo della sua incolumità. I suoi amici lo guardano con evidente sollievo. In sottofondo, parte un pessimo remix di “losing my religion”.
Il ragazzo srotola con evidente compiacimento il comparto delle carte di credito del suo portafogli, fissandomi con aria boriosa. Vuole farmi vedere che è benestante: mi fa quasi tenerezza. Individua la carta dorata del privè e me la mette sotto il naso con arroganza. Faccio finta di controllarla con attenzione, regalando alle due ragazze qualche secondo in più. Poi mi scosto, lasciandoli passare.
Mi sibila qualcosa che non capisco ed entra. I suoi amici lo seguono, guardandomi con sollievo il primo e con aria di complicità il secondo. Con la coda dell’occhio lo vedo cercare il telefono tra una selva di gambe. Ha il panico negli occhi, come se una carrozzina con suo figlio stesse attraversando di sbieco la Milano-Venezia. Alla fine lo trova, e lo esamina con scrupolo, in cerca di graffi o chissà cosa. Soddisfatto, lo intasca e torna a parlare con i suoi amici. Le ragazze sono andate, uscendo dalla saletta laterale.
L’auricolare gracchia.
“Max, qua in entrata ci sono due tizie che chiedono di uno della security che ha dato loro una mano. Chiedono a che ora stacchi.”
Non riesco a trattenere un sorriso. Il mal di testa svanisce in una scia vaporosa all’aroma di pesca mentre Losing my religion lascia il posto ad un insulso brano sudamericano da classifica.

Maicolino