Concludere, oppure no.

Cargill chiuse le finestre e si allontanò camminando all’indietro per tenere lo sguardo diretto all’esterno. Le tendine impedivano di vedere fuori, e del resto essendo tarda sera c’era ben poco da poter vedere; ma i fuochi d’artificio illuminavano la stanza creando sporadici e fugaci frammenti di pieno giorno. I soliti festeggiamenti per la fine dell’anno. Cargill ne aveva odiato ogni istante, come succedeva ormai da lustri, e non nutriva molte speranze in possibile miglioramento nei dodici mesi a venire. Odiava il fatto che il tempo passasse e non capiva perchè un sacco di gente ne fosse invece così felice.
Ogni scoppio all’esterno era accompagnato dalla formazione di lunghe ombre sulle pareti, destinate a estinguersi in un istante. Cargill beveva sorsate di caffè lungo dalla sua tazza, addomesticata allo scopo, e le fissava annoiato. Lo infastidivano le luci, il chiasso, il clamore nella strada. Lo infastidivano l’anno che se ne andava e quello che arrivava. Non gli piaceva per la verità nemmeno il caffè che stava bevendo, a coronare quel momento di profonda mestizia. Era un comportamento tremendamente asociale, lo sapeva e non gli importava, e comunque non poteva farci nulla. “Se fossi in un romanzo di Dickens mi aspetterei di vedere apparire i fantasmi del capodanno passato, presente e futuro”, si disse. Ma non la trovò un’osservazione particolarmente arguta.
Riaprì la finestra e versò il resto del caffè da basso. Dal marciapiede salirono urla in risposta. Insulti, perlopiù. Cargill si sentì rinfrancato.
“Non rompete il cazzo, non era neanche troppo caldo” replicò. E se ne andò soddisfatto a dormire.

Opossum

Arriva Bingo Bongo (ldcds ospita)

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare da una superficiale osservazione basata esclusivamente dall’analisi del nome, Bingo Bongo non era di colore, ma era bianco. Abbandonato orfano praticamente neonato dentro una legnaia infestata dalle piattole, era stato fin da piccolo male accettato dalla virtuosa comunità Brocobiavese, e quindi, da sempre relegato in una tarlata capanna nel bosco, di cui pagava pure affitto e tassa comunale. Il Lunedì, alle quattro e mezza del mattino, Bingo Bongo si alzò dalla sua lurida branda come tutti i dannati giorni alla solita ora. Era ancora buio pesto. Il lavoro cominciava alle sei, ma a lui toccava alzarsi prima. Per arrivare sul posto di lavoro c’era un’ora di cammino nel bosco, e in più, se non arrivava almeno mezz’ora prima di tutti gli altri, Otto lo puniva corporalmente. Ma non era tanto quello. Bingo Bongo in realtà aveva paura di Otto arrabbiato. Aveva paura della faccia di Otto arrabbiato che diventava brutta ma brutta, e poi aveva paura dello scettro di Otto arrabbiato che fischiava nell’aria tanto ma tanto, e poi ancora aveva paura della voce di Otto arrabbiato che ruggiva come il gorilla Gozzolla tanto ma tanto cattivo. Insomma aveva tanta, ma tantissima paura!

“Forse… sono un vigliacco?” Si domandò. Ma poi si rispose da solo “…e resterò vigliacco…”. Terminato di pensare ciò, Bingo Bongo raggiunse la tinozza d’acqua piovana ove era solito lavarsi, e per l’appunto, si lavò rovesciandosela in testa. Poi prese uno dei ghiri arrosto avanzati dalla cena domenicale, e cominciò a masticarlo. I ghiri li catturava lui, a mani nude, e poi li cucinava sul fuoco infilandogli uno spiedo nel culo. Avevano un sapore selvatico e stopposo, ma non sapeva cuocersi altro. Era uno spettacolo vederlo: alto più di due metri, pesante centoventi chili e fradicio di acqua piovana, mentre, nel buio della notte, sputava ossa di ghiro come fossero noccioli d’albicocca. I suoi vestiti erano quelli provenienti dal volontariato delle vecchie del paese. Il maglione, troppo piccolo, gli lasciava scoperta la pancia fino al pelo pubico, ed i pantaloni, troppo corti, si abbassavano mettendo in mostra il fondoschiena. Del resto, per un gigante del genere non esisteva la misura giusta. Quindi si mise in marcia per raggiungere il cantiere. Sarà utile precisare una cosa: una qualsiasi altra persona, partendo dalla capanna, non avrebbe impiegato un’ora di cammino, ma Bingo Bongo era solito fermarsi per ogni stupidaggine. I lacci delle scarpe gli si slacciavano di continuo e perdeva tempo a riallacciarli. Passava un gracco, e si fermava a salutarlo: “Ciao signor gracco… come va? Dove stai volando di bello… Ehi! Uccello, perchè non rispondi ?”. Oppure si fermava ad annusare i fiori, e spesso se li mangiava pure. Talvolta prendeva una farfalla ed ovviamente, nel tentativo, la spappolava. Quando poi apriva la mano, il poetico insetto era letteralmente stampato sul palmo, ed allora lui le chiedeva scusa: “Oh! Povera farfallina… ti ho fatto un po’ male…”. Quando vedeva un nido, solitamente s’arrampicava sull’albero con l’agilità di un scimmia, in cerca, diceva lui: “Delle uove fresche appena munte”. Da quel momento il destino del nido era segnato. Con una manata lo rovesciava per vedere se “uscivano le uova”, generalmente sterminando tutti gli uccellini. Oppure si bloccava di fronte al rumore delle api cattive. Per Bingo Bongo, tutti gli insetti che facevano “bbzzzzzz” erano api cattive. Non importa che fossero vespe o mosche, quando sentiva avvicinarsi un “bbzzzz” urlava: “Le api cattive! Aiuto!”.

E scappava, perdendo altro tempo. Quando vedeva una mandria al pascolo, comprese le capre, invece gli correva incontro urlando: “Mucche! Mucche! Latte! Latte!” I poveri armenti, di fronte a quella specie di energumeno selvaggiamente proiettato contro di loro, fuggivano terrorizzati come i branchi imbizzarriti dei film western, mentre solitamente la corsa di Bingo Bongo terminava scivolando su d’una merda. Un’altra sua caratteristica era l’innato, razionalmente inspiegabile senso dell’orientamento. Per quanto uscisse dal sentiero, cambiasse strada, attraversasse il bosco, riusciva sempre a trovare la sua capanna o il cantiere. Ma insomma, quel giorno, a Bingo Bongo gli si erano slacciate le scarpe già quindici volte, aveva scacciato due branchi di mucche, ucciso sei farfalle e sterminato due nidi. E non era ancora a metà strada! Ad un certo punto, uscendo dal bosco, gli apparve una radura. Era uno di quei grandi prati di montagna, pieni di fiori variopinti e profumati. I colori brillavano intensamente, proprio come se restituissero generosamente la luce di quel limpido sole nato di lì a poco. Come li vide, Bingo Bongo cominciò a correre a perdifiato, allargando le braccia come se volesse abbracciarli tutti. “I fiori, i miei amici fiori…” gridava. Sembrava un gigante rimasto bambino. Si rotolava nel campo, saltava, li sniffava, non se ne perdeva uno. Poi cominciò ad estirparli, e quindi a mangiarseli. Appena trovava un fiore, lo annusava e diceva: “Tu sei buono, adesso ti mangio, Gnam!”. E addio bel fiore. Qualche tempo dopo, durante il processo contro di “loro”, il suo avvocato difensore addusse come attenuante il fatto che, cibandosi il Bingo Bongo solo di ghiri, era costretto a compensare la dieta con vitamine provenienti dai fiori. In realtà nessuno in quell’aula sapeva se i fiori contenevano vitamine, e anche se l’avessero saputo avrebbero dovuto ingaggiare un perito, perciò preferirono proseguire con gli altri capi di imputazione. Del resto molte cose di “loro” restarono oscure. Per esempio, le autorità non capirono mai se Bingo fosse il nome e Bongo il cognome, o se il contrario, o se fosse solo un soprannome. Ma questo avvenne tempo dopo. Insomma, tornando a noi… quel giorno si trovava da quelle parti il Guardacaccia e Guardiscarica, l’arcigno Matildo Saturnio. Il vecchio Matildo sentì delle urla provenire da lì vicino, ed in parte incuriosito, andò a controllare. Superò quindi il cartello con la scritta “VIETATO RACCOGLIERE FIORI”, e proseguì fintanto che non gli apparve l’immonda scena: Il prato, forse il più bel prato fiorito di Brocobiava, era per metà devastato, mentre seduto al centro il Bingo Bongo manducava un gigantesco mazzo di fiori con la stessa delicatezza dei giganteschi erbivori precedenti al Pleistocene. Matildo estrasse il blocco delle contravvenzioni e si diresse in direzione del gigante, il quale smise momentaneamente di ruminare. Arrivato, Matildo lo guardò negli occhi con cattiveria, e Bingo Bongo cominciò a tremare. Assurdo! Un gigante alto oltre due metri e forte come un rinoceronte che tremava di fronte ad un vecchio di quasi settant’anni, alto un metro e un cazzo, e per di più con gli occhiali! Gli sarebbe bastata una mano per trasformarlo in una frittata! Ma non avrebbe mai osato, poiché egli, anzi “loro”, erano vigliacchi. Matildo lo sapeva, e per di più (grande paura) indossava la divisa. “Brutto deficiente, guarda cos’hai combinato! Ma stavolta me la paghi cara, anzi, carissima!”. E ciò detto Matildo estrasse la macchina fotografica e immortalò il campo devastato insieme a Bingo Bongo con i fiori ancora in bocca. Quindi impugnò la penna d’ordinanza e compose una multa comminando il massimo previsto dalla legge. Quando gliela porse, Bingo Bongo la raccolse con mano tremante, e domandò: “Signora guardia, perchè mi ha dato i numeri?”. Matildo si fece paonazzo: “Pezzo di cretino! Quei numeri sono i soldi che dovrai pagare, e come, se li dovrai pagare! Perchè altrimenti, questa è la volta buona che ti faccio internare!”. Bingo Bongo era così terrorizzato che non riusciva a muoversi, ed il suo povero stomaco, contratto tra incontrollabili spasmi di tensione, scatenò un’immonda flatulenza. Matildo si tappò il naso con un: “Santo cielo, che puzza di merda!”. Bingo Bongo era davvero dispiaciuto, ma come poteva riparare? D’un tratto gli venne in mente un film con un tipo bello e ricco, un tale Giacomes Bond, che aveva fatto una cosa, e l’aveva fatta al ristorante ed era una cosa buona, e quindi decise di farla pure lui. Perciò restituì la multa al Matildo dicendo: “Metta pure sul mio conto, signor cameriere…”. Matildo esplose! Era così incazzato che Bingo Bongo dal terrore andò in delirio: Vide la faccia di Matildo ingigantirsi come la bocca di un Cattivosauro Recs che voleva mangiarselo, e fuggì urlando.

Smise di correre solo quando raggiunse il cantiere, naturalmente in ritardo. Come lo videro, lo accolsero le parole di scherno dei tre operai di colore. Abdul Kilimangiaro urlò, rivolgendosi a Otto: “Capo, capo, guardi, è arrivato Bingo Bongo, che nel culo te lo pongo”. “É arrivato Bango Bingo che nel culo te lo spingo” gli fece eco Omar Safari. Mentre Togo Nilo concluse con “Ecco arriva Bingo Bango, che nel culo te lo spando”. “Silenzio!” urlò Isotto, tra il rumore delle seghe a nastro. Dunque sollevò la sua verga facendo il gesto di colpire. Ma non avrebbe mai osato. I tre neri erano protetti dalla legge e pure iscritti al sindacato, e ciò significava che non poteva nemmeno insultarli. Inoltre maneggiavano la sega a nastro, ed era meglio essere prudenti. Otto perciò si morse le labbra cercando di contenere la libidine: come avrebbe voluto offendere i tre extracomunitari di colore sfoggiando le più intriganti frasi razziste del suo vocabolario proibito. Ma ecco che… gli apparve Bingo Bongo… e allora, finalmente il vecchio capocantiere potè liberare tutta la sua lussuria frustrata! E dunque colpì, trasfigurando la regal verga sul corpo dello sciagurato gigante come fosse il gigantesco fallo vendicatore di un Dio pagano e crudele! Il bastone si abbassava ritmicamente sul povero Bingo Bongo, tormentandolo nel corpo e nello spirito. Il tapino si inginocchiò come un martire, ma Otto non ebbe pietà, e anzi, mentre lo bastonava comincio a sbavare di concupiscenza: “Vigliacco, ribellati se hai il coraggio, ma non ce l’hai, perchè sei vigliacco!” “Sì, sì, sono un vigliacco…” pianse Bingo Bongo, ma quelle parole, anzichè smuovere un anelito di pietà nel cuore di Isotto, ne eccitarono soltanto la sadica frustrazione. “Io ti faccio nero!” sentenziò il vecchio capocantiere, e così dicendo, e per godere del suo più profondo e feroce razzismo, immaginò che Bingo Bongo, anche se di pelle bianchissima, si trasformasse in uomo di colore, così che egli potesse bastonare un negro. Ad un certo punto Bingo Bongo strappò con forza sovrumana la sega circolare accesa dalle mani di Omar Safari. Omar si ritrasse, pensando: “Questa volta il vecchio finisce a pezzi”. Anche Otto si bloccò, percorso da una inquietante riflessione: “Forse… che abbia esagerato?”. Ma Bingo Bongo orientò la sega verso il tronco e cominciò a segare. Segò quel fusto con sapiente maestria, e la sega parve davvero un piccolo strumento tra le sue mani. I pezzetti di segatura volarono tutt’attorno mentre i tre operai e il vecchio osservavano la determinazione e la precisione con la quale il Bingo Bongo svolgeva il suo lavoro. Poco dopo ciascuno tornò al suo ruolo, e per un po’ nessuno ebbe più niente da dire.

Fonta

Un grazioso piccolo topo

Era un periodo d’ispirazione, il foglio di Open Office di un bianco lindo aspettava me.
Solo che avevo voglia di qualcosa di diverso; basta con le trite ambientazioni urbane, squallide, drogate e dedite al vizio. Basta con personaggi afflitti, privi di qualsiasi inibizione, colmi di cinismo e stereotipati.
Volevo qualcosa di diverso e qualcosa volle che capitassi bloccato nel traffico delle 13:30 davanti una scuola elementare. Stranamente non mi incazzai durante quel quarto d’ora di embolo stradale sotto la pioggia ma anzi, fui lieto nel vedere i genitori armati di ombrello rincorrere i loro marmocchi e inventarsi parcheggi assurdi per evitare che nemmeno una singola goccia toccasse la loro fronte. Quelle punte di amore materno e paterno toccarono anche me e l’ispirazione venne con un suggerimento: scrivi un racconto per bimbi!

Così mi ritrovavo davanti al foglio virtuale di Open Office a buttare le basi.
Dopo venti minuti decisi di scrivere qualcosa con degli animali parlanti a cui capitano cose inusuali.
Il primo passo fu scegliere la bestia in questione, all’inizio pensai ad un gatto ma l’idea di un animale sì grazioso ma pieno di malizia e furbizia non mi convinceva in pieno. Nemmeno il cane passò l’audizione, carino sì ma forse dava troppa aria di ingenuità.
Alla fine la spuntò un animale spesso sottovalutato: un grazioso piccolo topo.
Dovevo dargli un contesto credibile, un lavoro che potesse facilmente sfociare in un’avventura. L’occhio mi cadde su Cuore di Tenebra di Conrad, lo uso come libro da tenere sul comodino per darmi un tono, e l’ispirazione colse il momento facendomi piazzare il mio topo alla guida di un battello navigante su un torrente circondato da vegetazione.
Ora toccava creare personaggi a fargli da spalla. Ero pronto, qualcosa si stava formando ma un tonfo secco strappandomi dalla fantasia mi riporto nel mio bilocale: quattro bestioni vestiti con nere tutine aderenti sfondarono la porta e mi saltarono addosso prima che potessi dire qualcosa, mi ritrovai a terra a ricevere i loro calci, a sentire le mie costole incrinarsi e la mia bocca riempirsi di sangue e denti vaganti.
Quando il pestaggio finì ero tutto disossato, uno degli energumeni strappò con foga il mio poster de Il Ritorno dello Jedi dalla parete e colpendomi con un calcione in faccia disse tutto serio: Ora anche questo appartiene a noi.

Mi risvegliai tre ore dopo a giudicare dal simpatico orologio di Paperino lasciatomi sul pavimento dai picchiatori come omaggio. O come monito.
Comunque andandosene non richiusero la porta e quelle tre ore di entrata spalancata furono sufficienti a far occupare il mio bilocale dagli zingari.
Musica di organetti e violini accompagnò il ritorno dei sensi. C’erano tre rom seduti al tavolo a discutere, bere e fumare.
Per fortuna tengo da sempre un filo di rame in casa per evenienze del genere, andai al cassetto del comò e lo presi, tenendo una distanza di sicurezza rapportata in due metri e sessantatré lanciai il filo al centro del tavolo. I tre si fissarono dritto negli occhi per venti minuti come nel più Leoniano dei trielli, sul culmine sfoderarono i loro coltelli e cominciarono a colpirsi a vicenda contendendosi il prezioso rame annullandosi e cadendo simultaneamente morti.

Ora avevo bisogno di due emuli di Burke e Hare. Contattai diversi atenei informandoli che avevo tre corpi da donare alla scienza, ci vollero tre settimane per vedere un furgone dell’università di Edimburgo arrivare.

Nel frattempo casa si era riempita di mosche e altre bestiacce attirate dalla decomposizione.
Fui costretto a contattare una onlus e affittare un bambino africano. Con spedizione in raccomandata ci mise cinque giorni ad arrivare ma una volta in casa, parcheggiato nell’angolo attirava le mosche che era una meraviglia e l’ambiente ritorno vivibile in attesa dell’inverno che avrebbe ucciso gli insettacci.

Col mio nuovo pezzo d’arredamento in vista crollai sul divano ad aspettare.

Slon

Non sei tu che non cachi, ma gli altri che ti hanno emarginato (ldcds ospita)

Tutti abbiamo dei problemi, grossi o piccoli che siano, il difficile sta nell’inquadrarli, quando ti capita, la più piccola delle cagate sembra un grosso guaio.
Domande e dubbi che stanno nascosti nel nostro ipotalamo come troll sotto ad un ponte durante il giorno, la notte invece escono, appena poggi la testa sul cuscino li senti li che mormorano.
Sei un fallito bello mio, non combinerai un bel cazzo di niente, uno di questi giorni ci farai un buco nel tetto con una bella canna rigata. Cosa credi che sia il bozzo che senti quando ti fai la barba?
E via di questo passo.
Ma c’è un problema che mi interessa in particolare, è quello che aveva Luigi Melloni.
Luigi Melloni era nato vicino Pavona nel 1983 da un’umile famiglia di contadini, e con contadini non intendo gente che lavora la terra, ma chi ci campa con quello che sputa il proprio fazzoletto ghiaioso e pieno di erba cattiva.
Luigi crebbe insensibile a quel mondo, odiava ogni cosa: ogni rastrello, vanga, trattorino, cane pulcioso e cafone che abitava nella sua casa o una qualsiasi nei dintorni. Per questo decise di studiare, per andarsene.
Entrò a ragioneria si diplomò e tanti saluti a bidonville.
Con i pochi risparmi che aveva prese un piccolo appartamento in affitto a Santa Palomba e fece sciogliere bracciali e catene d’oro (regalo sudato con ore di interminabili sproloqui religiosi e pittoresce feste a base di ostia) per avere un gruzzoletto con cui cominciare una nuova vita.
Senza fatica trovò un lavoro decente e pure una ragazza, mediocre per gli standard cittadini ma che lui trovava bellissima e speciale, lontana anni luce dalle buzzicone coi baffi che vivevano dalle sue parti o dalle coatte stupide e sciape che infestavano piazza Berlinguer.
La sua vita stava prendendo per la prima volta una direzione che lo soddisfava, ma soprattutto, di cui aveva il controllo.
Il Ragionier Melloni però non era felice, preso dal lavoro non lo notò subito, ma col passare dei giorni e delle settimane il suo problema divenne palese.
Luigi non cacava.
Se ne accorse una mattina di Settembre, preso di sorpresa dall’inaspettato fresco mattutino dopo un’estate torrida, non sentì il classico stimolo alla prima boccata di tabacco (viziaccio preso al lavoro) e si stranì.
Quando è stata l’ultima volta, Sabato o forse Venerdì?
Sembrava assurdo, eppure non ricordava con precisione.
– Cos’hai Melloni?, gli chiedevano i colleghi, – sei pallido, contestavano.
– Quanti caffè abbiamo intenzione di prendere Ragioniere? Incalzava il Dottor Nanni, socio anziano dello studio e rompicoglioni di settimo dan.
-Stamattina l’ha passata tutta alla macchinetta, la pago per far di conto non per macchiarsi i denti.
Ma cosa poteva rispondere il povero cristo?
Dottore non caco da non so quanto, davvero non lo so più neanche io, 4 caffè e 15 sigarette non sento nemmeno un brontolio e ora mi brucia pure lo stomaco.
No, no, meglio tacere, chiedere scusa e non pensarci, tornato a casa un bel lassativo e passa la paura.
Ma due blister e cinque giorni dopo non passò un bel niente dallo sfintere del povero Luigi, i muscoli dell’addome erano duri e contratti come pelle di tamburo, faceva fatica a sedersi, ad alzarsi dal letto e a camminare, inoltre per diretta conseguenza aveva anche smesso di mangiare, non c’era posto nel suo corpo magro da zappatore per quel mare di cacca, dove diamine si stava nascondendo? Era per via delle settimane di pranzi di volata e cene riscaldate?
In ogni caso non avrebbe rischiato di peggiorare ulteriormente la situazione ingerendo altro cibo.
Passarono altri giorni e , stanco di soffrire, pensò di agire direttamente e fisicamente sul problema, si sedette sulla tazza e cominciò a spingere e spingere, niente, per quanto sudasse e sentisse il cuore battere più svelto di tre tempi non riusciva a smuovere nulla, disperato infranse il più sacro dei tabù degli eterosessuali timorati di dio, lentamente ma con decisione cominciò ad esplorare il suo retto.
Ansimante e preoccupato muoveva il suo indice come un salmone su per una cascata, ma il canale era vuoto – Figlio di una cagnà! Esclamò, arrivato a quel punto non poteva certo arrendersi, qualcosa DOVEVA trovare, spinse ancora più in fondo passando al dito medio, il centimetro di differenza fruttò l’agoniato contatto, c’era, era li.
-Si, Dio grazie, si, si, si!
Ringraziò i suoi avi, la Madonna e i pochi santi che ricordava, le lacrime gli rigavano il volto e gocciolavano sul tappeto di pelo marrone, riempiendogli le cavità facciali di muco chiaro.
La gioia, aimè, si interruppe quando tastò meglio. Non poteva essere roba sua.
Era dura come la pietra e sembrava avesse una sorta di rilievo, sbiancò terrorizzato e iniziò a sudare freddo senza smettere di singhiozzare, preso dal panico afferrò la matita che teneva accanto alla tazza insieme alle parole crociate, e la usò come sonda per spostare il corpo estraneo, si fece forza e cercò di scalzarlo dalle pareti del suo colon senza pensare a cosa fosse e come fosse finita li. Finalmente ottenne una presa solida, iniziò a tirare e tirare ignorando il dolore e la paura, il suo ano, ormai dilatato all’inverosimile, ospitava tutte e 5 le dita ma non era ancora abbastanza largo per quella cosa. Luigi prese un grosso respiro, morse il colletto della sua t-shirt Italia 90 e diede uno strattone. L’oggetto gli scivolò dalle dita e finì nella tazza tintinnando, lo sforzo e il dolore gli causarono uno spasmo facendolo rizzare sulle gambe intorpidite dal tempo passato sulla tazza, scivolò sul pavimento bagnato e cadde in avanti battendo la sua zucca pallida sul bidet sbeccato. Riavutosi, chissà quante ore dopo, cominciò a guardarsi intorno con un solo occhio aperto e la faccia ancora a contatto con le piastrelle smaltate del bagno, il sole freddo delle 6:00 antimeridiane filtrava dalla tapparella semi aperta. Con non poca fatica si staccò dal pavimento facendosi forza con le sue braccia flaccide, sentiva qualcosa di secco sulla faccia e a giudicare dalla silhouette marrone che aveva lasciato sul pavimento doveva essere il suo sangue.
Si sciacquo la bocca e il volto nel bidet osservando il suo riflesso macellato sul rubinetto di metallo lucido, aveva un sopracciglio gonfio e spaccato che gli teneva chiuso l’occhio destro.
Stava quasi per andarsene pretendendo di aver scordato la situazione che lo aveva portato a ridursi così, ma come poteva dimenticare? Quell’affare era ancora nel water.
Ingoiando una noce di saliva si sporse sulla tazza per controllarne il contenuto, tra i vari pezzetti di escrementi e il sangue una moneta dorata grande come un CD faceva capolino sbrilluccicando, aveva un grosso “1” impresso sulla faccia visibile.
Luigi chiuse il coperchio del water lasciandola lì, come un aborto nel bagno di un autogrill, e senza dire una parola si tolse i vestiti e si gettò sul letto sfatto a fissare il termosifone.
Là rimase, ignorando gli squilli del telefono, il suono del citofono, i morsi della fame e le domande che gli ronzavano in testa, fino a quando il sole se ne tornò a nanna e anche lui riusci a chiudere gli occhi sprofondando in un sonno febbricitante e pieno di paura.
Luigi non ricordava stesse facendo alcun sogno, quando una sensazione dolorosa e familiare gli colpì le viscere nel pieno della notte svegliandolo. Dopo ere geologiche il suo intestino si stava muovendo, da una parte si sentiva felice, dall’altra il ricordo della sera precedente e il fatto che chiaramente non avrebbe raggiunto la tazza in tempo lo preoccupavano non poco.
Per sua fortuna il dilemma non durò a lungo, un doloroso fiotto di diarrea esplose dal suo fondoschiena superando la debole barriera della coperta e si infranse sulla parete come un disgustoso fuoco d’artificio. Con la voce strozzata e trattenendo il respiro, Luigi attese che il suo intestino si contraesse ancora tre volte, sputando qualcosa di solido, prima di prendere fiato.
Affannato, e con la testa che gli girava per lo sforzo e l’odore pungente, sollevò la coperta, immersi nella brodaglia marrone c’erano una grossa chiave blu, la coppia di ciliege più grandi che avesse mai visto e una specie di smeraldo.
Velocemente appallottolò tutto e lo lanciò fuori dalla finestra, pentendosene un microsecondo dopo quando il contatto fasullo tra i suoi neuroni si aggiustò ricordandogli che la sua finestra dava nel cortile interno e c’erano ben pochi posti da cui quello schifo poteva essere uscito.
Nelle condizioni in cui era si sorprese di preoccuparsi ancora delle apparenze, sarebbe senza dubbio dovuto andare in un ospedale per quella storia e raccontare che cacava roba che sembrava uscita dallo scrigno di un pirata, decine di medici l’avrebbero esaminato, luminari provenieni da tutto il paese, e forse pure da fuori, dall’America! L’avrebbero messo sulla copertina di qualche rivista medica o, come minimo, in un trafiletto di Metro con scritte solo le iniziali e tutti i suoi dati personali, di modo che la gente possa dire di conoscerlo.
Rabbrividì al pensiero, ringraziando che il portinaio fosse un lavoro morto con la carriera di Jerry Calà e che nessuno avrebbe mai sospettato che lui, con quei modi formali ed eleganti, lanciasse palle di merda dalla finestra, la colpa sarebbe di certo andata a Claudio Rosi, il dodicenne asmatico e mezzo scemo che viveva al piano di sopra, oddio che fosse mezzo scemo lo sospettava lui, non è che ci fossero prove tangibili, ma una volta l’aveva visto urlare qualcosa e fingere di sparare fulmini dalle dita e tanto gli bastava.
Stavolta Luigi non si chiuse nella contemplazione muta, partì diretto a pulire ogni singolo angolo della camera e del bagno (non sollevò però la tavoletta) e, all’alba, si concesse una doccia.
L’orrore pareva finito, stava meglio e sentiva il suo intestino borbottare felice per lo spazio conquistato con il terrore e col sangue, guardò un per un po’ la televisione finchè alla terza replica di uno spot di coperte con le maniche, crollò distrutto sul divano.
La fase REM si manifesto al Melloni in tutta la sua grazia elefantina, treni a vapore entravano e uscivano dal suo ano martoriato, fiumi di cacca macchiavano ogni cosa con croste dure come la pietra. Il trillo odioso del citofono fu per una volta gradito e lo strappò da quella tortura.
Con la testa che girava, come fosse avvitata poco stretta, sollevò la cornetta a muro.
– Prant, disse, ma come era ovvio pronto non lo era.
– Luigi?
– Siiii?
– Luigi sono io, ma che cazzo di fine hai fatto? , era Carmela la sua ragazza, -perchè non rispondi al cellulare? Ci hai fatto preoccupare tutti.
– Tutti chi?
– Come tutti chi? Me, i tuoi genitori, al lavoro, Fabio mi ha detto che il Dottor Nanni è incazzatissimo, gli potevi fare almeno una telefonata!
– Fabio? E chi è Fabio? , chiese ragionevolmente sorpreso, non conosceva nessuno che si chiamasse così.
– Ma stai male davvero, Fabio Cima!
Fabio Cima, noto ai più come “Il Cimone”, era il collega in assoluto più odiato da Luigi, una creatura subumana con mani pelose come ascelle e una mascella che sembrava scolpita da uno che non aveva voglia di lavorare. Frase preferita: “Questa me la scopo”.
– epperchecazzocimahailtuonumero
– Ehhh? Ma come parli? Dai fammi salire che hai bisogno di aiuto.
Luigi fu in grado di rispondere solo con un – Mh e alzò l’indice per schiacciare il pulsante d’apertura, a pochi millimetri dalla pressione gli tornò in mente cosa nascondeva la tazza.
Chissà quanto vale quel coso.
– Noo senti non puoi salire, e poi qui è un macello, sono contagioso e… , la frase gli morì in bocca Dio…
– Luigi ma che hai? Mi stai spaventando.
Attaccò la cornetta tremando, se quello della notte prima era stato il trailer che anticipa il film, ora sentiva avvicinarsi il grande slam, lo strizzone che avrebbe messo fine a tutti gli strizzoni, una cacofonia di mugolii interni ed esterni lo avvolse, si inginocchiò reggendosi lo stomaco e appena il citofono suono ancora, il suo intestino esplose.
Il getto, spaventosamente potente, attraversò il piccolo appartamento e si schiantò contro la porta a vetri oscurando parzialmente l’ambiente, la merda però non accennava a finire e Luigi poteva sentirla scorrere, calda come lo Stige.
Morirò, morirò qui nella mia merda e tutti penseranno che mi sono intasato l’intestino ficcandomi roba nel culo finchè non è esploso, tutti sapranno che quel lenzuolo l’ho tirato io.
Qualcosa d’incredibile e spaventoso interruppe il torrente di paranoie di Luigi, sentiva qualcosa muoversi dentro di lui, qualcosa che spingeva per uscire, qualcosa di vivo.
Immediatamente si girò sulla schiena e cercò di opporre resistenza a quella forza dirompente: serrò le gambe, strinse le chiappe e addirittura arrivò a tapparsi l’uscita con le mani, ma tutto fu vano.
Le sue difese si infransero con un tremito quando un fascio di luce blu elettrico scaturì dal suo ano allargandosi in un cono e una figura umana ne uscì urlando.
– IT’S A MEEERDA! disse sorpresa.
– Claudio ma che hai combinato? Guarda qua che schifo! E che puzza!
Luigi era impietrito, non sapeva cosa dire o che fare. Lo biasimate?
Quando racconto questa storia c’è sempre qualcuno che avrebbe saputo perfettamente come comportarsi. Se fossi stato io. Bhe al suo posto io.
Stronzate, avreste detto la stessa cosa che disse Luigi.
– Ma io non mi chiamo Claudio.
– Cosa? -la figura lo fissò sorpresa.
Scesa l’adrenalina e abituati gli occhi alla semi oscurità marroncina, riuscì a metterlo a fuoco.
Era un tipo grassoccio e basso, con dei grossi baffi neri, un cappello ridicolo, grossi guanti da clown e un’orribile salopette di jeans con sotto una maglietta rossa, sembrava del sud e lo fissava con un’espressione severa ed i pugni piantati sui fianchi.
– Come sarebbe a dire non ti chiami Claudio? E come ti chiami?
– Luigi, Luigi Melloni. rispose.
– LUIGI! E che hai hai combinato ragazzo? Sarei dovuto uscire dalla console di un bambino disilluso, te mi sembri un po’ grandicello per essere un bambino.
– Io cosa ho combinato? Hai idea di cosa ho passato per questa COSA, perchè diamine sei usciti dal mio culo?
– Non saprei giovanotto ma se è andata così ci deve esse certamente una ragione, sei stato scelto per riportare l’armonia nel Regno di…
– No, no, guarda, ti fermo qui che ho già capito, voglio che tu e qualsiasi altra cosa sia rimasta dentro di me ve ne andiate da casa mia in particolare e dalla mia vita in generale, non ho idea di chi tu sia ma che sei un accollo l’ho capito dal momento che mi sei uscito dal culo, a dire il vero l’ho sentito quando eri ancora dentro, deve essere quello che chiamano istinto materno.
– Ma come fai a non sapere chi sono? Lo sanno tutti! E poi non sei curioso di sentire cosa ho da dire?
Luigi cominciò a spazientirsi, si alzò in piedi e prese a camminare verso l’invasore che lo guardò come si guarda solo qualcuno che è coperto di merda.
– Sono curioso di sapere se ho ancora un lavoro, sono curioso di sapere se la mia ragazza si fa uno che potrebbe riempire una piscina con il suo testosterone e sono curioso di sentire se il mio culo farà ancora un suono quando scureggio. Del resto non m’importa.
Finito di parlare afferrò la maniglia della porta e la spinse verso il basso, i cardini cigolarono e la luce delle scale illuminò il soggiorno.
– Fuori, sillabò con tono perentorio.
Lo sconosciuto si mosse come per parlare ma si rese conto subito che non era quello il caso che si poteva risolvere con un sorriso e una stretta di mano, mogio mogio uscì dalla porta e si avviò verso le scale.
– Posso riavere la mia moneta?
Luigi chiuse la porta senza rispondere, attese il tempo necessario per essere certi di non incontrare quel tizio per le scale e iniziò a prepararsi per il lavoro.
Tazzona di cappuccino, ennesima doccia, sbarbata ed era pronto.
Scese le scale di corsa con una fetta biscottata tra i denti, controllando continuamente l’orologio.
Uscito dal portone si gettò nella fredda mattina autunnale, schivando le sue lenzuola al centro del vialetto, si accese una sigaretta e guardò il cielo plumbeo e minaccioso, il vento gli scompigliava la cravatta annodata male e i palazzi intorno sembravano le gambe di giganti nascosti tra le nubi, pronti a pisciargli in testa.
Tirò una lunga boccata e si chiese se nel mondo su cui aveva sputato sarebbe stato caldo e al sicuro.

Mr. Black

Solo pochi metri

(Notte)
Questa volta è un ponte lungo e antico, sopra un fiume addormentato e nervoso.
Una strada asfaltata lo percorre, ma nessun altro percorre lei.
Lampioni sinuosi, con abiti di un altro secolo, mandano una luce calda e avvolgente, che fa il solletico al buio.

Il Buio sbuffa annoiato e si sposta a destra e sinistra, dove non ci sono altri lampioni, bloccando la nostra visuale, disinteressandosi di noi.
Alcune persone, forse cinque, forse uomini, si trovano sul marciapiede, appoggiate con i gomiti al parapetto di pietra, osservando il fiume che sonnecchia abbracciato alle ombre, solo pochi metri più sotto. Non li vediamo in faccia, ma sembrano vestiti in modo uguale. Le luci dell’argine illuminano i confini del fiume, ma il letto rimane oscuro, di un nero educato ed elegante.

Con calma, senza fretta, i cinque uomini salgono sul parapetto, e se ne restano tranquilli in piedi sul bordo, a guardare giù, pensierosi. Sembra che riescano a vedere qualcosa sulla superficie dell’acqua, ci sono effettivamente degli strani riflessi, ma indistinti e incomprensibili.

(Poco dopo, qualcuno.)

Una donna, molto bella, cammina emergendo dal Buio, quest’ultimo le lascia sugli abiti degli sbuffi di nero, che si scrollano di dosso come farebbero residui di neve. I capelli corti, umidi di tenebre, ampliano un’espressività sognante e astuta, rendendola bellissima.
Si avvicina a uno degli uomini e gli posa una mano sulla gamba, facendola scendere lentamente in una sospirata carezza. L’uomo la guarda e scende con riverenza dal parapetto. Si abbracciano, si baciano appassionatamente, le mani frenetiche che si rincorrono nei capelli.
E poi se ne vanno, abbracciati, immergendosi nel Buio senza timore.

(Qualcun altro.)

Un signore ben vestito, giacca cravatta e valigetta. Come la donna sbuca fuori dal buio, si avvicina, estrae un cellulare e compone un numero. Uno degli uomini si infila la mano nella giacca, prende il suo e risponde. Non sentiamo le parole. L’Uomo scende dal parapetto e si avvicina al Benvestito, ma nonostante siano uno di fronte all’altro continuano a parlare al telefono. Benvestito estrae vari documenti dalla valigetta e li mostra all’Uomo. Forse contratti, forse assegni. Discutono, senza parole. L’Uomo sembra convinto. Si stringono la mano con forza, e anche loro se ne vanno nel Buio, fianco a fianco, sempre parlando al telefono.

(Qualcun altro.)

Un tizio sporco e ciondolante, jeans malandati e felpa con il cappuccio, non lo vediamo bene.
Mima un fischio, uno degli uomini si volta e scende di scatto. Confabulano assieme, si guardano intorno di continuo, ogni tanto accennano un sorriso ma sembrano nervosi. Si passano qualcosa di mano. Se ne vanno ridacchiando di gran fretta, e per un solo momento scorgiamo sullo sfondo l’insegna luminosa di un locale, e poi tutto svanisce.

(Nessun altro.)

Solo il Vento, che si alza improvvisamente e vortica attorno ai due uomini rimasti. Delle cartacce iniziano a sfrecciare di fianco a loro, uno dei due si volta e se ne prende una in faccia. Lo esamina: è un volantino di qualche tipo, forse di un centro commerciale, vediamo e foto di computer, monitor, telefoni e prodotti vari. Annuisce, scende a terra e se ne va, sempre rimirando il volantino.
L’ultimo uomo sul parapetto si guarda attorno, realizza di essere rimasto solo, ora ha l’aria un po’ triste.

Più nessuna distrazione per lui, nessun impegno, nessun amore, nessun fondo da toccare, nessuna scusa che gli impedisca di fare i conti con Quello Che Non Conosce.
Solo il fiume sotto, che ora non sembra più così buio.

(Chissà se questo fiume sfocia nel mare, da qualche parte. Chissà se l’uomo sa nuotare; ora come ora, non riesce a ricordarselo.)

Forse ci sono dei riflessi, giù, che danzano silenziosi sulla superficie e mimano incomprensibili interpretazioni di copioni mai scritti, come se sott’acqua ci fosse un’altro mondo in attesa, impaziente, incoerente, invitante, pericolante.

Chiudo gli occhi. Salto.

Kire

Sul ruolo dell’antagonista nella letteratura classica

Esami di stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di II grado
TIPOLOGIA B: REDAZIONE DI UN SAGGIO BREVE O DI UN ARTICOLO DI GIORNALE – 1. AMBITO ARTISTICO – LETTERARIO
ARGOMENTO: Le figure di Renzo e Lucia quali personaggi centrali del romanzo I promessi sposi.

Esimi professori giudicanti, vorrei -qualora me lo consentiste- deviare un po’ dal canonico corso precalcolato delle solite monotone tracce dei temi della Maturità (pardon, dell’Esame di Stato). Questo non già per mancare di rispetto a voi, alla commissione che ha selezionato le tracce o al romanzo e al suo defunto autore. Non si tratta di questo, no, quanto del fatto che la traccia è erronea. Mi si chiede di analizzare i personaggi di Renzo e Lucia quali figure centrali del testo: non è così. L’intero libro I promessi sposi è in realtà un’allegoria sulla sfiga che prende le mosse dalla natura sadica del suo autore, e unico e reale fulcro del romanzo è la figura di Don Rodrigo, anticipatrice di tutti i bersagli della malasorte nei secoli a venire, da Paolino Paperino al Nordberg di Police Squad.

La questione nasce così. Lucia Mondella -il personaggio di gran lunga più insopportabile del romanzo… ma non divaghiamo- viene abbordata dal signorotto locale Don Rodrigo, che si è invaghito di lei.
Quanto può resistere una fanciulla fragile e timorata di Dio di fronte alle profferte, nemmeno troppo pressanti, di un potente abituato ad avere tutto quello che vuole? Rodrigo avvicina la sventurata già traquillo della sicura conquista, e invece no! La Mondella glissa e si eclissa, e lo spettatore Attilio irride il cugino che in cuor suo sicuramente mastica un po’ amaro e pronuncia il fatidico “Scommettiamo?”. E’ sicuro, l’ispanico, di far sua Lucia in breve tempo. E invece questa persiste a difendersi, e a negarsi con una fermezza insospettabile.
Rodrigo di incaponisce, vuole assolutamente quel bel giocattolo e ormai la posta in gioco si è alzata: ne va del rispetto che parenti e amici povano verso di lui. Manda così i bravi a bloccare il matrimonio; è un segnale indiretto a Lucia per farle capire che è meglio non tirare troppo la corda. La Mondella abbocca? Neanche per idea, dice tutto alla mamma (e non metaforicamente), a LorenzoocomedicevantuttiRenzo e infine a Fra’ Cristoforo da ***. Il religioso dal sanguinoso passato va allora a parlamentare con il signorotto: è un segnale indiretto a Rodrigo (da Lucia) per fargli capire che è meglio non tirare troppo la corda. La storia si ciclizza, come si vede.
La lusinga non ha funzionato, l’insistenza non ha funzionato, la minaccia non ha funzionato, l’iberico comincia ad averne abbastanza della prospettiva di farsi le seghe ad libitum (la commissione d’esame mi scusi il linguaggio, ma va a favore del realismo) e manda a rapire la contadina.

All’inizio del diciassettesimo secolo si immagina che le giovani di basso ceto sociale la sera stiano a casa loro, che non c’è proprio un cazzo di motivo per andar fuori a divertirsi. Al massimo rientreranno per le nove di sera (al cambio attuale, dico). Rodrigo sguinzaglia i cani, pardon, i bravi al recupero della bamboccia. Questi arrivano alla casa di lei e non trovano nessuno (perchè i piccioncini stanno facendo la loro gabola da Don Abbondio)! Quante sere avrà passato fuori casa Lucia Mondella in vita sua? Quattro? Cinque? Beh, Don Rodrigo ha azzeccato una di quelle (lo so, lui stesso ha facilitato la cosa, ma resta una cosa notevole). Non solo, i promessi sposi sgamano la furbata e levano le tende.
Il signorotto arriva probabilmente al calor bianco: il risultato è 4 a 0 per Lucia. Apprende però che la contadina si è rifugiata in un convento a Monza e non intende cedere, anche se arrivare fin là è una faccenda complicata: fuori dalla sua giurisdizione e in un luogo poco penetrabile, come organizzerà il nuovo ratto?

Qui Manzoni si supera. Di organizzare il nuovo recupero viene incaricato l’Innominato, bella figura di tiranno così malvagio che al suo confronto Stalin sembra Madre Teresa di Calcutta (mi perdonino i signori esaminatori della commissione queste banali similitudini, ma è fatto solo per rafforzare le caratteristiche del personaggio). Tutto ci si può aspettare da questo tizio, tranne ciò che effettivamente accade: con tempismo assolutamente perfetto l’Innominato rinnega il male e si converte alla bontà in modo così repentino e completo da far sorgere dubbi riguardo un abuso di psicofarmaci. Apro un inciso: critici e commentatori manzoniani hanno prodotto un mucchio di letteratura sulla funzione di Lucia sul ravvedimento dell’Innominato; ora, avendo letto il libro, in questa sede d’esame vorrei dissentire, esimi professori, su questo punto, e dichiaro solennemente che il ruolo della rompibal della Mondella nell’evento è meno che marginale.

Ma torniamo a Don Rodrigo, su cui la sorte si è abbattuta in modo così pesante da far ormai pensare alla trama di un film demenziale. Siamo verso la fine del libro, e nessuno degli stratagemmi escogitati dal signorotto, sulla carta infallibili, ha funzionato. Attilio è morto, il territorio è in subbuglio per via della peste e forse ci sono cose più importanti a cui pensare che non a Lucia. Ma mancava giusto l’epilogo: basta una -tutto sommato breve- gita a Milano perchè Don Rodrigo si becchi la peste. E deve pure agonizzare per giorni, a differenza del Griso che muore nel giro di qualche ora. Fine ingloriosa ma tutto sommato prevedibile per uno squallido feudatario che fini per sua disgrazia nelle mani dell’autore sbagliato.

Con la morte del soggetto termina la mia disamina del personaggio, con cui spero di aver chiarito la mia tesi oltre ogni dubbio, e termina anche questo tema. Il quale, esimi professori, se non v’è dispiaciuto affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritto. Ma se in vece fossi riuscito ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

 

Opossum

Nemmeno George Harrison risolleva l’atmosfera

Nemmeno George Harrison risolleva l’atmosfera.
Principalmente la colpa è della sua casa, un concentrato di umidità come poche cose, immagino le mie ossa piene di condensa appena supero l’uscio. È difficile indovinare il colore originale di queste mura, tra muffe di vario genere e colore e poster male appesi per coprire muffe di vario genere e colore. Azzardando un’ipotesi direi un verde pisello.
Il pavimento su cui sono seduto è una lastra di ghiaccio, probabilmente mi ci ritroverò il culo appiccicato una volta che deciderò di alzarmi.
Scansando uno scarafaggio grosso come un paio di Nike messe una sopra l’altra ho tirato fuori i suoi vecchi dischi, stavano già qua al tempo del trasloco ha detto. Non sono molti, giusto nove, li conosco tutti eccetto uno dove ci sono tre negre sorridenti in copertina.
Quando ho messo The Concert for Bangladesh su quel pessimo giradischi sono stato sorpreso dal suono uscito dai due piccoli amplificatori, quasi paura, questo ferro è uno zombie del comparto audio, dovrebbe essere morto ma cammina ancora.
Lp 2 gira e rigira e lei è sempre lì stesa a pancia in giù sul lato sinistro, con un braccio abbandonato al suo destino giù per il letto. Dorme profondamente su quel lenzuolo bucherellato dalle sigarette, coperta da una sottile coperta bianca.
Quando, finalmente, parte While my guitare gently weeps sto ancora fissando l’assestarsi del suo stato d’incoscienza, evidentemente quando è stata al bagno per la pipì ha fatto altro e senza condividere.
D’improvviso mi chiedo come sia menarsi un cadavere, sicuramente dovrei munirmi di qualcosa prima per via della lubrificazione e se proprio volessi potrei togliermi lo sfizio proprio ora.
Ma lo stato di noia e torpore è troppo forte.
Svolto gli occhi verso una macchia di muffa, con una nemmeno tanto abile dialettica sono sicuro di poter convincere un centinaio di persone che in quella macchia si riconosce l’immagine della Vergine Maria. Partirebbero viaggi organizzati e servizi televisivi sul fenomeno della Madonna che appare in uno squallido monolocale portando i soldi dei network e degli stupidi alla sventurata proprietaria, una prova tangibile dell’esistenza divina. L’enorme benedizione riguarderà i trentacinque chili sul letto e gran parte degli spacciatori in zona e Dio avrà operato ancora una volta per vie misteriose.

Con uno sforzo mi alzo, nel frattempo un poster umidiccio abbandona la presa e mi frana in testa.
Lo srotolo, rappresenta un paesaggio rurale. L’umidità ne ha rovinato i colori, ora sono di un bluastro elettrico: cielo, erba e torrente un unico colore.
Lo lascio cadere, vado verso il letto prendo la mia camicia e mentre la abbottono le do un ultimo sguardo disinteressato.
È cominciata Here comes te sun ma nemmeno George Harrison risolleva l’atmosfera.

Slon

Come quattro anni fa (ldcds ospita)

Metto su l’acqua, dallo stesso identico pentolino sottile, che lascia scaldarsi velocissimo. Giusto la misura di una tazza.
Prendo il tè, lo zucchero, il limone, tagliandone una fettina minuscola. Giusto per dare un po’ di sapore.
Troppe volte ho dovuto buttare via tutto per colpa del limone.
Anche questa volta trovo un limone vecchio, mezzo nero, arrotolato malissimo in un sacchetto di nylon bianco, forse della farmacia all’angolo.
Ci sono due pezzi.
Uno molto piccolo. Una fetta mezza schiacciata.
La prendo con due dita e faccio che pestare il pedale del bidoncino nero.
Bum.
Qualcosa mi ferma.
No.
Potrebbe ancora servire.

Conservo proprio tutto?
E’ più forte di me…

Sono nella stessa cucina di quattro anni fa.
Non sembra cambiato niente, eccetto che all’epoca a quest’ora stavo in pigiama, mentre ora anche in casa passo le ore completamente vestito.
Chissà perché, poi.
Stessa cucina, stesso pentolino. Tazza diversa.
All’epoca usavo bere tazzoni di tè grossi come terrine.
Schifo.
Un tè annacquato con una grossa fetta di limone tonda a rimbalzare a gioco del mio stesso mulinello.

Quattro anni fa…

Non avrei mai immaginato di rivedermi qui, ora, fare la stessa identica schifosissima cosa.
Quattro anni fa passavo le giornate aspettando. E così ora.
Passo la vita ad aspettare. Ora l’acqua per il tè come quattro anni fa.
Nessuna voglia di fare merenda con pane e prosciutto, mai stato quel tipo di persona. Ma nemmeno spendere soldi inutili per merendine della Ferrero partorite da bambine angolesi.

Voglia di ricordi…

Sto tornando indietro? Si può? Anche solo per un attimo…

Sto al gioco.
Decido di metter su le canzoni che ascoltavo all’epoca, come per convincermi.
Penso solo per un secondo a cosa ascoltassi quattro anni fa.
E’ facile.
Sorrido.
Beck.
Metto su quella che mi piaceva di più. Che anche il ricordo scaldi velocissimo.

your sorry eyes
they cut through bone
they make it hard
to leave you alone

Penso che stronzo com’ero scaricavo ancora le canzoni, mentre ora mi basta trovare il video.
Non voglio trovarle tutte, altrimenti l’incantesimo si spezza.
Decido di ascoltare solo questa a ripetizione.
Copio e incollo l’indirizzo su un altro sito e alzo il volume delle casse fino a livello Cucina.

Torno di là, verso l’acqua, il filtro e aspetto.

Intanto vado a pisciare, lasciando la porta aperta a far accomodare Beck. Se vuole anche ciucciarmelo è benvoluto.

there’s too many people you used to know
they see you coming they see you go

Piscio di traverso per non coprirlo.

this town is crazy
nobody cares

Vedo nel cesso della roba marrone. Sembra che qualcuno si sia dato da fare, poi capisco. E’ terra. Giorno di spinaci. La tirò giù con l’ultimo schizzetto come un bambino che colpisce il deodorante per il water. Mai capiti quei cosi.

baby you are lost
baby you are lost
baby you are lost cause

Torno in cucina.
Cazzo, non mi sono lavato le mani.
Prendo il detersivo dei piatti e do una leggera strofinata sulle dita ancora impregnate d’uccello, che si trasforma velocemente in un uccello all’arancia niente male. Ci devo pensare quando tornerò a puttane la prossima volta.

Cinque minuti passati.

Tolgo il filtro e schiaccio l’acceleratore.
Bum.
Il talloncino rimane fuori.
Peggio per lui.
Bum.
Ghigliottinato!

Vado a controllare la stanza di mio padre.
Dorme.
La macchina sibila un bip rassicurante, una ninna nanna che finisce dritta dritta nei polmoni.
Aspetta pure lui.

there’s a place where you are going
you ain’t never been before

Ho voglia di sputare. Faccio per terra, a insultare la casa che per tutti questi anni mi ha tenuto con sè, come un bambino che piscia nel piatto dove ha mangiato. O una roba del genere.
Non sono tanto buono con le metafore.

Quattro anni fa non l’avrei mai fatto, penso, mentre intingo il primo biscotto di una lunga serie..

Quattro anni fa…

Che poi era Febbraio.

E adesso siamo a Dicembre…

Cazzo sono già cinque.

M.D.Vis.