Perimetri

Una cosa che la divertiva era entrare nelle proprietà private altrui e scorrazzarvi in lungo e in largo, quando la vita che percorreva solitamente quei luoghi -se esisteva- era altrove e nessuno poteva vederla. Trovava varchi nei recinti con un sesto senso che più di un ladro esperto le avrebbe invidiato, sovente si infilava nelle pieghe di una rete o nella crepa di un muro contorcendo abilmente il suo corpo minuto. Sapeva dell’esistenza di quelli che si divertivano a correre e arrampicarsi per le strutture della città (uno di loro, nel breve volgere di una effimera relazione che ora ricordava con disagio, le aveva insegnato il termine, “parkour”), ma lei non cercava quello che cercavano loro. Né le interessavano i beni materiali che qualche volta i proprietari arrivavano a proteggere con cartelli di “Attenti al cane” (e ogni tanto i cani c’erano davvero). E neanche il vago brivido illegale della violazione di proprietà privata.
Quello che la interessava in quei luoghi di silenzio, fossero case cantieri discariche o che altro -cartoline verdi e grigie da videogioco postatomico-, non l’aveva ancora capito nemmeno lei. Forse era un banale piacere terreno, un poco infantile, cui non sapeva dare un nome preciso. Ma non era importante. Si rialzò da terra dopo aver strisciato sotto metri di filo spinato, e scrollandosi di dosso la polvere ricominciò, in un appezzamento da poco scoperto, quel suo eterno gioco senza risposte.

Opossum

L’ora prima

Improvvisamente alzò la testa: il problema era ancora irrisolto e c’era nell’aria quella sensazione tipica dell’ora prima dell’alba che è così terribile per chi conduce una vita dubbiosa”

(B. Stoker)

Se ne stava lì tranquillo, la testa appoggiata dolcemente al vetro della finestra aperta, e guardava fuori, ascoltava soprattutto, piccoli rumori della notte, i vagiti dell’anno appena nato. Non un grande spettacolo. La strada di periferia dormiva tranquilla e senza sogni, e andava benissimo così: bastava lui da solo, per popolarla di carnevali, di rivoluzioni, di assalti alle diligenze, di artisti di strada, di ricettatori di speranza, di venditori di fumo, di criminali famosi, di presidenti sconosciuti, di candele immobili, di paesaggi che tremano al vento, di esploratori del tutto, di cartografi del niente, di Re disoccupati,

di

Smisurati porti notturni, di sale da gioco orientali, di enormi treni a forma di bara, di binari fatti di sogni, di torri, di carri, di lettere da luoghi distanti, di maniglie che galleggiano negli specchi d’acqua, di lucchetti troppo complicati, di vie d’uscita troppo semplici, di profumi nascosti nelle parole, di parole nascoste nel silenzio, di casalinghe che lucidano lavandini, di fogne che straripano, di gente che bussa, di gente che prega, di Dei sospettosi, di inquilini sordi,

di

Risate sguaiate, di sguardi calmi, di denti che battono, di bicchieri che si toccano, di poesie dimenticate nell’erba alta, di note attutite dal cigolare dei motori, di sorrisi fotografati per sbaglio, di quadri di pelle impolverata, di colori strappati, di voci rotte dall’emozione, di emozioni rotte dalle voci, di incontri, di carezze, di guerre, di certezze, di aghi conficcati sotto le unghie, di addii.

Sospirò. La strada era ancora vuota e silenziosa. Lontano, nei punti più timidi dell’orizzonte, scorse i fari dell’alba, che rincasava guidando piano.

Decise che non aveva voglia di vederla. Spense la sigaretta e andò a dormire.

Kire

L'ora prima - by Anna (theannuz@gmail.com)

L’ora prima – by Anna ([email protected])


Una bella serata (pt.1)

Archiviava quelle fila di fogli resi gialli da quella lurida lampadina, ogni cassetto aperto era una sinfonia di artriti metallici che gli laceravano i timpani arrivando fino al centro del cervello. Il tic tac di quell’orologio, appeso al muro da qualche sadico dirigente figlio di puttana, punzecchiava sulla lacerazione facendola sanguinare e pungere alla cadenza di ogni secondo.
Non passava nemmeno un filo d’aria in quello sgabuzzino chiuso e sigillato. Una persona lì dentro si sentiva come una bottiglia di vino confezionata, costretta a stare in piedi fino a quando quelle nere lancette non fossero arrivate sul numero sei.
E finalmente le sei arrivarono, Frank emise un sibilo di stanchezza, chiuse l’ultimo cassetto e la sua faccia sembrava quella di uno che è finalmente riuscito a pisciare dopo averla trattenuta per tutto il giorno.
Uscì da quel cilindro tuffandosi nell’ufficio ed esponendosi al resto dei suoi colleghi, non furono poche le risate soffocate e le battutine più o meno non meritevoli di essere riportate.
Come ogni volta per quell’ora Frank cominciava a dissolversi in un lago di sudore, quaranta chili si scioglievano ad un sole che non c’era. Chinò il capo e andò dritto alla sua scrivania sorridendo quando gli si rivolgeva un cenno di saluto, per vedere la sua buffa faccetta rossa e sudaticcia più che per cortesia, senza concedere la soddisfazione di guardarli negli occhi, per codardia. Ne faceva parecchi di sorrisi al pavimento.

Nella sua mente il tour tra le scrivanie durava ore, immaginava di uccidere Godman infilandogli la cornetta del telefono giù per la gola, si crogiolava nel sentire la sua mente riprodurre gorgoglii e spasmi soffocati di quello stronzo morente. Dopo era il turno di Marta, la segretaria. Il suo orecchio era fatto apposta per accogliere il tagliacarte, in maniera lenta, come se stesse infilzando un panetto di burro. In mente si stampava la sua fotografia in primo piano, morta, apparentemente con nessuna ferita, normale eccetto per un torrente di sangue dall’orecchio destro. Sulla sua strada c’era anche uno stronzo di prima categoria dal cognome tedesco, tale Dietrich. Il pugno di Frank lo colpiva dritto sul naso, frantumandolo, il bastardo cadeva all’indietro cozzando la tempia sulla scrivania, un’aureola di sangue appariva lentamente sul pavimento dove ora poggiava la sua testa.

L’arrivo alla sua di scrivania fu brusco, quel pezzo di legno dipinto di bianco a buon mercato e modellato alla meglio sembrava parlare, lo riportò alla realtà, irrideva il povero Frank: in quale realtà alternativa uno scheletro come te stenderebbe un tedesco di 1,90 ? Gracchiava feroce.
Non gli diede considerazione per molto, qualcosa lo rese felice: il giornale!
L’aveva quasi dimenticato, era una delle notizie principali del giorno: oggi sette settembre 1959, nella mattinata, era stata trovata un’altra vittima non identificata ma con gli stessi segni di un modus operandi ormai ben conosciuto.
Il killer è tornato!
Quel titolo aveva rallegrato la mattinata e l’esistenza di Frank. Per tutto il giorno avrebbe voluto parlarne con qualcuno dei suoi colleghi, per condividere l’eccitazione di un fatto così bello, come loro facevano parlando in continuo delle loro passioni, il motore eccezionale della mia auto, il mio nuovo porticato, la mia Philco Predicta è grandiosa, il mio messia ha ucciso e mutilato un’altra troia.
No, Frank non poteva dire cose del genere, cosa avrebbero pensato di lui ?

Raccattò il giornale e corse a casa.
Nel tragitto in macchina, alla guida chino in avanti quasi col mento sullo sterzo, Frank fissava la strada senza battere ciglio, cercando di raccogliere una concentrazione che il concerto di voci nella sua testa dissipava. Erano a centinaia, un vociare da festa, non una parola era chiara di quel brusio eccitato. Si udivano anche delle risate.
Le sue tempie si riscaldarono, il vociare aumentò, era quasi al limite della sopportazione quando d’improvviso si zittirono, la voce della signora Russell chiamava Frank. Come un miraggio la vedeva avvicinarsi dal suo prato, facendosi più chiara ad ogni passo. Voltò la testa scendendo dalla macchina per guardare casa sua, era come se qualcuno l’avesse condotto lì.
Non avrebbe potuto giurare di aver guidato fino a casa.
Fraaaaaaaank!
Si…Sig…Signora Russell tutto a posto ? Si accorse ora che la vecchia signora aveva un cesto di vimini con lei.
La dolce settantenne voleva un bene del mondo a Frank, le faceva pena uno della sua età scapolo e visto che era vedova e non aveva avuto figli di amore ne avanzava tanto.
Ti ho preparato questo! Disse porgendogli il cesto.
Cosa è ?
Cosa vuoi che sia ? Torta di mele, siamo in America dopo tutto.
Alla risata allegra della signora Russell fu conseguenza l’automatico sorriso di risposta, accompagnato dal rapido calare lo sguardo verso le scarpe. Era come se Frank avesse paura che la vecchia potesse leggergli nel profondo con il solo contatto degli occhi, le sarebbe apparso il filmino di cosa stava proiettando la mente del suo vicino in quel momento: lui chino con la testa tra le sue gambe intento in un’intensa sessione di cunnilngus, proprio su quel prato, lei era inerme stesa a terra, quasi certamente morta e tutto il vicinato passava lì di fianco incurante delle scena come se fosse cosa di tutti i giorni.
Quegli occhi avrebbero messo a nudo le sue devianze e morbose voglie sessuali represse da anni, era meglio non fissarli.

Va bene allora ? Chiese la signora Russell strappandolo dal suo ragionamento.
Certo. Rispose senza conoscere la domanda, si accorse anche di avere il cesto di vimini con la torta tra le sue mani.
Congedata la vecchia corse in casa.

La sua abitazione era una casa delle bambole enorme, ogni oggetto e arredamento era posato con cura e criterio. E come in una casa delle bambole, lasciata in un angolo per essere ammirata, tutto all’interno era ricoperto da un filo di polvere. Sedie, poltrone e le due credenze piene di piatti in salotto, il tavolo da pranzo e tutto ciò che servisse per rendere funzionante una cucina, il piccolo studio formato solo da un esigua libreria e da una piccola scrivania in mogano sembrava libero dalla presenza di Frank da anni, come il resto del piano terra. Nessuno abitava lì.

Frank si dirisse subito su per le scale lasciando cadere il cesto di vimini, il piano superiore consisteva nella sua stanza da letto, una stanza vuota e un minuscolo cesso.
Entrò in camera sua e chiuse la porta girando due volte la chiave.
Tremante e sudato andò verso il letto e chinatosi, nella tasca posteriore del suo pantalone figurava il giornale piegato in maniera che ci entrasse comodo, prese una cartellina di pelle
Restando inginocchio dalla cartellina estrasse uno splendido album, anch’esso in pelle, con rifiniture in oro agli angoli. Era stato un oggetto commissionato, non era roba prodotta in serie, portava un logo in basso a destra che di certo non erano le iniziali di Frank ma piuttosto il nome dell’artigiano. Era stato fatto per accogliere gioiose foto probabilmente.
Sfilò la cinghiettina che lo teneva chiuso, appena lo aprì la sua agitazione di calmò. Erano ritagliati di svariate titoli e articoli riguardanti un assassino, descrivevano sette omicidi diversi, con modalità differenti ma lo stesso modus operandi dopo la morte: alle vittime venivano asportati gli occhi.

Dalla cartellina prese un paio di forbici e della colla, con la semplicità propria di un bambino ritagliò l’ultimo articolo, dal giornale odierno, e lo incollò in una bianca e pura pagina vuota.
Ammirò per qualche minuto l’opera, poi voltò pagina, andando avanti e gli articoli di giornale scomparvero. Ora c’erano foto.
Foto in bianco e nero, clandestine, raffiguranti scene pornografiche. Alcune erano vecchie, sfioravano i trenta/quaranta anni approssimando. Sembrava averle catalogate in base all’atto sessuale che i tizi nella foto stavano praticando, in una c’erano due donne impegnate in un sessantanove e la pagina era rigata dai graffi fatti delle unghie di Frank.
Andando avanti il sesso spariva e cominciava la vera pornografia.
Le pagine erano un insieme ordinato di foto poco piacevoli, raffiguravano cadaveri atrocemente martoriati, probabilmente foto della seconda guerra cino-giapponese, altre condividevano il tema di vittime di una guerra anche se non era facile individuarne il contesto, c’erano svariate foto di scene del crimine, probabilmente molte raffiguravano vittime di agguati in chissà quale conflitto di mafia, una foto del cadavere di Elizabeth Short occupava un’intera pagina con gli stessi segni di unghie della precedente, nel resto si potevano vedere foto di autopsie e altre atrocità che difficilmente avrebbero potuto avere un contesto individuabile.
Il tremore si rimpossessò di Frank, scattò in piedi album in mano e lo poggiò delicatamente sul letto, aperto alla pagina di Elizabeth Short. Cercando di mantenere un contegno nonostante il tremore e il sudore a fiumi, sfilò con garbo la cintura, tolse pantaloni e mutande.

Altrove qualcuno guardava compiaciuto la scritta nella toilette di una tavola calda, la leggeva e rileggeva con calma.
Ok, disse parlando alla scritta.
Uscì dalla toilette e inquadrò Melanie, la cameriera. Lei ricambiò lo sguardo e sorrise.
Allora capì che anche quella sarebbe stata una bella serata.

Slon