Settecentosettantasette

Stava pensando ad un nuovo racconto, e decise di partire dal cattivo. Cercò di immaginarsene uno azzeccato, quel tipo di cattivi che non puoi realmente sconfiggere ma al massimo rallentare, quelli che danno alla storia quel senso di epicità misto a disperazione, dove in fondo sai che finirà male, tutto potrebbe fermarsi alla prima riga evitando un sacco di confusione inutile: i personaggi non soffrirebbero, lo scrittore potrebbe investire il suo tempo in qualcos’altro (ugualmente inutile ma meno stancante, come ad esempio ubriacarsi), e soprattutto l’eventuale lettore potrebbe schivarsi qualche minuto di noia, ed andare ad annoiarsi in qualche salotto più sfarzoso.

Un cattivo così. Gli unici veri cattivi che esistano.

Non riuscì a trovare nulla di più potente, feroce ed indifferente della futilità.

Tenta di visualizzarla con fattezze umane e adulte, in modo da poterla magari inserire in un normale contesto sociale, ma non ci riesce. Gli arrivano solo rapidi flash, fotogrammi sconnnessi e scollegati tra loro, come se una qualche divinità ebete stesse saltellando nella pozzanghera della fantasia umana e lui fosse li di fianco, a prendersi le gocce di fango sulla fronte corrucciata e sulle palpebre chiuse.

Immagina una specie di neonato, immobile. Sembra quasi normale, a non voler notare il suo sguardo innaturalmente consapevole, attento ed annoiato allo stesso tempo. Le sue pupillle sono di un grigio chiarissimo, quasi bianco, e sembrano fondersi con delle iridi dello stesso colore, schiacciate tra due sipari di sottili vene rosse. Bianchi sono anche i pochi ciuffi sparsi di capelli, lunghi fino alle piccole spalle. Ha una cicatrice a spirale sulla narice destra. E’ completamente nudo, come sembra giusto che sia un neonato, e siede su un’anonima sedia a rotelle da ufficio che riesce a muovere ovunque a suo piacimento. Ma il più delle volte non si muove affatto. Perchè la futilità c’è sempre, ti osserva da lontano giudicandoti silenziosamente, ma raramente entra in campo di persona. Di solito, i suoi tre figli adulti preferiti sono più che in grado di farcela da soli, quando si tratta di scoraggiare, sminuire e infine distruggere la Creazione.
Paura, Insuccesso ed Apatia sono già tre moschettieri perfetti, sicari discreti e navigati , figli laboriosi ed instancabili che rendono immensamente fiero quello che ormai è un padre neonato talmente pieno di lavoro da non poterne più.

Bene, aveva il cattivo e i suoi sgherri. Ora doveva solo ad un protagonista adatto. Se inserito nella giusta scenografia, non servirà nemmeno inventarsi una trama. Metti vicino due cose totalmente potenti ed incompatibili, e non avrai bisogno di trovare dei motivi per giustificare il loro scontro. Si combatteranno semplicemente perchè non possono fare altrimenti. Nessuna morale, nessun sotterfugio: solo grida, sangue, e soddisfazione per i colpi andati a segno, quale che sia la tua squadra preferita.

Inizialmente pensa ad una rappresentazione della fantasia, ma l’ha già usata per la pozzanghera. E poi non vuole qualcuno di così bizzoso e scostante. Non vuole nemmeno un eroe, o qualcuno con dei forti principi. Vuole un protagonista solido e compatto, un figlio di puttana potente, testardo e incazzato, qualcuno che una volta chiamato al cospetto della futilità sia in grado di sbadigliare e pisciargli sulle scarpe, o piccoli piedini nudi che siano.
Passa in raccolta la sua collezione di figurine di convenzioni cosmiche, ma non trova niente di adatto. Allora sceglie di crearne una nuova: una sporca fusione tra la Rabbia e il Talento. Per ora visualizza solo una figura alta, vestita di stracci pieni di polvere elettrica. Ha una specie di cappello da mandriano, ma largo come un sombrero. Ti verrebbe quasi da ridere, ma poi ti soffermi sul viso nascosto dal naso in su, e scorgi quel mento pieno di cicatrici, quelle labbra sottili e screpolate serrate in una smorfia che sembra stia trattenendo la geometria dell’inferno, e ti passa la voglia di ridere, e sì fa paura, ma non ti trasmette un senso di pericolo, ti trasmette piuttosto un senso di: sei in mezzo, spostati, per favore, altrimenti ti strappo l’anima e mi ci soffio il naso. Un senso di: dai seguimi, sono simpatico, vieni a vedere come muoio.

Pensò che forse era un inizio. Pensò che, ad un livello primordiale, puzzolente e belante, forse aveva abbastanza materiale per provare a scrivere quella storia.

Pensa, che ci sono un sacco di pensieri che gli faranno da inchiostro, e un sacco di giorni che gli faranno da fogli bianchi. Pensa che una penna è molto più pesante di una bottiglia, ma ehy, le cose pesanti sono rassicuranti.

Pensa che finirà male, ma non gliene frega un cazzo. C’è qualcosa che lo guarda da distante, qualcosa seduto su una sedia.

Lui sbadiglia, e comincia a scrivere.

Kire

#PILLOLELDCDS 3

Uno di quei giorni di noia.

Troppo tardi per gli amici. Troppo tardi per il pranzo. Troppo presto per la cena. Troppo lontano per un bar.
Il vento tiepido agevola il sonno, una mezz’ora piena.
Sogno dei porci, tanti, rotolano nel fango e grugniscono felici della loro natura di essere porci. Mangiano ghiande seminate a terra e grugniscono, grugniscono e grugniscono ancora.

Da sveglio il loro verso mi resta nelle orecchie, cerco di ricordare se erano porci neri o rosa. Il ricordo è indefinito, colorato a posteriori dalla mia mente come una vecchia pellicola in bianco e nero. Un colore falso, non originale, un riempitivo.
Li faccio diventare rosa. E faccio anche piovere, nel sogno non pioveva ma almeno il rumore della pioggia compre i grugniti.
Continuo ad aggiustare il sogno seminando dettagli fino ad avere un quadro completo. Ora potrò raccontare di aver avuto un sogno strano: c’erano dei maiali rosa, mangiavano ghiande da grosse ciotole di rame, pioveva, una pioggia intensa, un temporale ma non sentivo alcun tuono e non vedevo alcun lampo.
Tutto molto meglio di porci dal colore indefinito che mangiano ghiande nel fango.

Ci si potrebbe leggere una profezia tra i dettagli, roba da Daniele o san Giovanni Evangelista.

Nessuno sospetterebbe che, come loro, volevo solo rendere più interessante un sogno.

Slon

Il caso D

Sospeso in quella dimensione che aveva tanto di reale ma non lo era pensavo a cosa fosse tutto ciò.
Un sogno o qualcosa del genere ? Forse, anzi di sicuro. Era quel “qualcosa del genere” a preoccuparmi.

Ero seduto. Credo.
In quella visione in prima persona avevo la tipica visuale di chi è seduto.

La stanza era scarna, con pareti bianco opaco, una grossa scrivania di legno era di fronte a me.
Dietro seduto a dondolare a destra e sinistra c’era lui.

Vestiva un logoro vecchio abito elegante, in testa un cilindro che quasi distoglieva da quel volto rugoso e scottato dal sole. Indossava degli occhiali con piccole lenti a cerchio scure. Da sotto la scrivania vedevo i suoi piedi nudi.
Stava leggendo da un foglio che teneva eretto tra il pollice e l’indice, ogni tanto rideva mostrando dei denti gialli.

Curioso il caso D. Mi disse indicandomi con gli occhi l’uomo seduto alla destra della scrivania che fino ad allora non avevo notato e sinceramente non sono sicuro se fosse lì dall’inizio.
Sedeva su uno sgabello, schiena dritta, piedi uniti e mani poggiate sulle gambe. Non ricordo i suoi pantaloni e cosa avesse ai piedi, ricordo solo che indossava una giacca militare, a giudicare dal colore verde scuro, sopra una camicia verde chiaro e una cravatta nera. In testa aveva quello che sembrava un elmetto coloniale.

L’uomo dietro la scrivania esplose in un’altra grossa risata e ripeté: davvero curioso il caso D.
Avrei voluto alzarmi, stringere la mano di quell’uomo dall’aria rassicurante e chiedergli perché il caso D fosse così interessante, solo che non riuscivo a muovermi né a parlare.
Ero inchiodato in quell’ipotesi di poltrona e la mia bocca era come tappata da ovatta.
Non sentivo alcun timore, ero sereno, in pace tra quella strana compagnia. Anche se avrebbe dovuto essere il contrario.

Pensa che il caso D ha completamente rifiutato se stesso tanto da dimenticare chi fosse in origine. Un’altra grossa risata. Ora passa le giornate intere seduto su quello sgabello a cercare di ricordare, ogni tanto gli torna alla mente un piccolo dettaglio o un piccolo ricordo ma sono solo piccoli indizi, non riuscirà mai e poi mai a ricordare chi è.
Provai un senso di pietà nel vedere il caso D, lì seduto a scavare immobile nella sua testa. Provai per la prima volta un senso di avversione verso l’uomo dietro la scrivania, per quale ragione rideva su una cosa tanto orribile ?

Ma tu non sei qui per il caso D, tu sei qui per il tuo caso. Mi disse. Dammi solo un minuto.
Si alzò dalla scrivania e uscì dal raggio del mio sguardo, verso sinistra, provai a girare il collo per seguirlo ma fu inutile, riuscivo a muoverlo solo per guarda a destra. Dove c’era il caso D seduto a fissarmi.
Lui mi parlò, una singola domanda: Sono un inglese ?

Non lo so, avrei voluto dire ma quell’ipotesi di ovatta nella bocca me lo impedì. Non credo di averlo offeso visto che tornò a chinare la testa e a fissare i suoi piedi senza attendere una mia risposta.

L’uomo tornò, aveva con se una piccola valigetta di cuoio marrone. La poggiò sulla scrivania e riprese il suo posto. La aprì, da dentro tiro fuori un straboccante faldone, troppo grosso per entrare in una valigia così piccola. Lo poggiò rumorosamente davanti a se.
Un caso articolato in tuo. Rise, di me ora.
Cominciò a leggere le carte, le mie carte. Tentavo di leggerle attraverso il suo volto che a volte sorrideva e altre era cupo mentre la testa diceva no come se dovesse rimproverarmi qualcosa.

Passò parecchio tempo e parecchie pagine. Richiuse il faldone, incrociò le mani e cominciò a parlarmi.
Non è un coincidenza che il caso D sia oggi con noi, avete entrambi lo stesso modo di rifiutare voi stessi. Certo, in ambiti diversi, in epoche diverse ma siete lo stesso caso.

Quando qualcosa di orribile vi capita è naturale che nel corso del tempo un muro, mattone dopo mattone, si crea in voi. Sta lì per fermare lo scorrere di rabbia, tristezza, sconforto e ogni sentimento dannoso. Più diventa alto più il dolore si attutisce.
Sta a voi curarlo e adattarlo per la vostra sopravvivenza, è darwinismo. Se adatte il vostro muro al vostro dolore sopravvivete.
E soprattutto dovete essere consapevoli di avere dentro di voi un muro.

Se curerai il tuo dolore cercando di diventare qualcun altro non farai altro che diventare il caso D, seduto qui al mio fianco a fare da esempio per quelli che saranno come te ora.
Quindi adattati. Accettalo. Sappi che non li riavrai indietro, la morte è definitiva mio caro e tu dovrai conviverci. Sì, so che è orribile e ingiusto ma non puoi fare nulla in tuo potere per far tornare tutto come era prima.
Devi solo ignorare il dolore, non conviverci: ignorarlo. E ci riuscirai solo edificando il tuo muro, non fuggendo o diventando altro.
Impara questo e forse non mi rivedrai mai più.

Ed è tutto quello che ricordo.
Uno strano psicologo che appare in sogno è forse la descrizione migliore per quello che mi è capitato. Sono solo deciso a seguire i suoi consigli. Per una sola ragione.
Non voglio rivederlo mai più.

Slon