Sangue degli empi

Quando era tutto perfettamente buio e silenzioso ci alzavamo dal letto e ci armavamo senza dire una parola. Potrebbero essere state le tre del mattino. In genere lo erano. Mio padre e mio zio usavano fucili da caccia: non erano cacciatori, usavano quelle armi per un solo compito, quello di quelle notti. Io avevo una spranga, perchè un fucile non avrei comunque saputo usarlo. non era un granchè, ma qualche volta si era dimostrata utile.
La strada al culmine dell’estate, era sempre ancora impregnata di buona parte del calore del giorno. Alla luce dei lampioni passeggiavamo, sempre muti sebbene non ce ne fosse bisogno, fino al limitare del bosco. Capitava, ma era rarissimo, che si incrociasse qualche auto o moto che risaliva la strada; quel primo tratto di percorso era illuminato dai lampioni, ma i nottambuli alla guida erano invariabilmente troppo assonnati o troppo sbronzi per badare a noi tre.
Nel bosco era più difficile procedere, anche con la luna piena, ma non era troppo folto e comunque quel posto lo conoscevamo bene. Camminavamo per qualche minuto fino ad arrivare al ciglio di uno strapiombo. Sotto, dopo un salto di qualche decina di metri, assurdamente illuminati da un falò,
loro erano raccolti in cerchio. Come di consueto. C’era una ragazza legata tra loro, completamente immobile.
I satanisti si radunavano spesso lì, ed erano per noi un problema importante. E avevamo deciso che dovevamo essere la soluzione. Quando un paio di
loro presero la ragazza legata e la spinsero nel centro del cerchio, mio zio caricò il fucile, portò il mirino all’occhio e prese cautamente la mira.

Opossum

Sentieri

Per di qua!” esclamò improvvisamente la guida, svoltando a destra e uscendo dal sentiero sterrato per immergersi in un vasto campo abbandonato.

Lo fece in modo così repentino da lasciarmi confuso per una decina di secondi, perso a guardarlo saltellare nell’erba alta. Anche Zion lo fissò per un po’, le orecchie nere sull’attenti, poi si rivolse a me e cominciò ad abbaiare in modo stizzito, con il solo scopo di risvegliarmi dalla trance.

(Muoviti, testa di cazzo! Guarda che lo perdiamo! Quello non aspetta!)

Mi diedi una scrollata, e mi lanciai all’inseguimento. Il campo era in realtà un enorme acquitrino; l’erba si ergeva fino ai fianchi, spuntando da una superficie stagnante di acqua morta e puzzolente che arrivava poco sotto le ginocchia. Mi chiesi come facesse Zion a non svenire, con il suo olfatto amplificato di cane, ma lei sgambettava e nuotava tutta contenta, senza dar segni di essere infastidita. Finalmente giungemmo all’altra sponda. La guida si era fermata, non per aspettarci bensì per scrutarsi attorno e fiutare l’aria. Sentivo una sensazione strana alle gambe, come se fossero più pesanti. Mi arrotolai su i jeans, scoprendo con orrore una ventina di nerissime sanguisughe giganti che banchettavano con i miei polpacci. Cacciai un gemito, e stavo giusto chiedendomi come mai Zion e la guida fossero rimaste intoccate, quando quest’ultima urlò di nuovo “per di qua!”, immergendosi dentro il fitto sottobosco che cominciava lì vicino. Stavolta non esitai: mi fiondai subito dietro di lui, cercando di ignorare lo schifo, ma nonostante la prontezza dopo pochi minuti mi ero comunque perso. Il sottobosco era fittissimo, una giungla di erbacce, rovi e sottilissimi rami fioriti che mi abbracciavano da ogni lato. Ben presto il sole si offuscò, lasciandomi in una penombra ammiccante che era perfino peggio del buio. Mi fermai e chiamai la guida: ricevetti in risposta un altro debole “per di qua!”. Sembrava provenire da sinistra, forse a una cinquantina di metri: mi incamminai in quella direzione, ma dopo averne percorso cento mi fermai di nuovo, con il panico che cominciava a bussare. L’aria aveva acquistato una strana consistenza, densa, quasi liquida. Mi sembrava di trovarmi di nuovo nella palude di prima, ma stavolta con la superficie dell’acqua davanti agli occhi invece che intorno alle gambe. Mi tastai la faccia, convinto di trovarci appesa una legione di sanguisughe. Non c’era nulla.

Chiamai ancora.

Di nuovo quel per di qua!, stavolta più vicino, a destra. Mi stava prendendo in giro? Non potevo saperlo. Una trentina di passi e uscii finalmente da quel labirinto neroverdastro. Ero di nuovo su un sentiero, che poco distante finiva sull’argine di quello che sembrava un grosso lago. Una specie di piccola palafitta di legno marcio faceva da passerella, molo e confine tra la terra e l’acqua.
La guida era li sopra, mi dava le spalle osservando l’epidermide nervosa dell’acqua. Mentre mi avvicinavo, con Zion trotterellante al mio fianco, notai ai bordi del sentiero alcuni strani serpenti, o forse bisce acquatiche. Certe scappavano via spaventate, ma altre rimanevano ferme, e sembravano fissarmi con cattiveria. E quando arrivai alla passerella mi accorsi che non erano alcuni: erano centinaia, migliaia, e ricoprivano l’argine e tutto il lago, sguazzando e rincorrendosi nervose. Alla fine della passerella vidi ormeggiata una malandata barca a remi, anch’essa completamente ricoperta dai serpenti. Mi resi conto improvvisamente che il molo era l’unico luogo a non essere infestato dall’esercito di bisce; una specie di zona franca intoccabile. Le stesse sanguisughe che ancora avevo attaccate alle gambe stavano cadendo spontaneamente al suolo, morte. Alcune restavano appese ad una estremità, mentre l’altra penzolava, lasciando colare non sangue ma piccoli fiotti di minuscoli parassiti bianchi. Se la guida non avesse cominciato a parlare in quel momento, catalizzando la mia attenzione, probabilmente avrei vomitato, e sarei andato avanti per ore.

Per di là” disse la guida. “Puoi prendere la barca. In fondo al lago sfocia un affluente. Puoi risalirlo, se sei abbastanza forte da remare controcorrente. Seguilo finchè dura, o finchè finirai le forze. Se riuscirai ad arrivare in fondo, capirai meglio.

“Sempre dritto dici? E per quanto dovrò remare?”

Non posso rispondere. Tu ragioni per direzioni e misure, e queste cose nei sogni non hanno senso. Vai, e basta.

Spostai lo sguardo e osservai Zion, che era scesa all’argine e stava annusando tutto. Saltellava incurante di qua e di là, e tuttavia riusciva a non sfiorare mai nessuna delle innumerevoli bisce. Sembrava quasi non vederle, non accorgersi di loro. Stavo già pensando a come accendere un fuoco, a dove trovare dei rami spessi e lunghi da incendiare e usare per allontanare i serpenti dalla barca, possibilmente senza ridurla in cenere. Mi voltai di nuovo verso la guida, ma era sparita.

Non ne fui stupito. Cominciai a sentire uno strano odore come di carta bruciata, un odore che conoscevo: l’odore del risveglio che arrivava trasportato da un vento che esisteva solo nella mia mente. Mi concessi un ultimo, intenso sguardo alla barca, al lago, ai serpenti, alla strisciolina tremolante all’orizzonte che doveva essere il fiume di cui parlava la guida.

Poi chiusi gli occhi, e mi lasciai trasportare verso su.

Kire