Bassa fedeltà

Franco era nato al tramonto del 1975, e dovette accettare quello che ne conseguiva, ovvero l’affrontare la propria crescita e maturazione attraversando l’orrida cornice degli anni ottanta. Refrattario alle mode chiassose e multicolori, trovò un proprio equilibrio dedicandosi anima e corpo alle tecnologie di quei tempi, perché incapace di provare vero amore per i corpi viventi con cui interagiva. Faticava a capacitarsi di quanto avanzasse rapida l’obsolescenza degli amati oggetti inanimati. Accolse con cupa rassegnazione gli anni duemila, assistendo all’oblio di tutto quello che gli era sempre stato amico: le musicassette, i videoregistratori, la televisione analogica; sapeva che il suo tempo si avvicinava alla fine, la morte dei vecchi compagni a bassa fedeltà scandiva le ultime ore del mondo che aveva abitato. Il momento cruciale che aspettava arrivò infine quando, in un anonimo febbraio, si ruppe il suo ultimo monitor a tubo catodico; lo schermo si ostinava a non mostrare altro che il suo impalpabile riflesso. Per la prima volta in vita sua si mise a piangere.

 

Opossum

 

Sabato (LDCDS ospita)

È che questa giornata non poteva che andare così, in ogni singolo particolare l’avevo progettata male.
Sono due mesi che non mi alzo presto perchè non vado a scuola e, alle 6 del mattino, il mio sonno è più pesante che mai, nell’abbraccio caldo di Ste. Ma alla sveglia del mio telefono non gliene fotte un cazzo e irrompe nel silenzio con Brimful of Asha.
Sto male. A parte la nausea, sto male davvero.
Con un incredibile atto di forza mi alzo e raggiungo il bagno, che è un cesso perchè ieri sera Ste si è fatto la barba e ci sono peli ovunque. Mi faccio una doccia. Mentre il getto di acqua bollente mi martella la testa mi balenano le idee migliori: non ci vado, torno a letto, dico che ho perso il treno.
Mezz’ora dopo sono in stazione per prendere il treno.
Sto aspettando sta mia amica mentre faccio colazione con una sfogliatina alla mela schifosa, in questo bar schifoso. Arriva e prendiamo il treno.
Ho la nausea, ancora.
Sul treno, pochi sedili avanti c’è un tipo pelato sulla trentina che mi fissa, è colpa mia che oggi sono troppo figa, ma mi dà sui nervi. Lui ovviamente è abbastanza sfigato da non accorgersene o forse da pensare addirittura che la cosa mi intrighi e continua a fissarmi per tutto il viaggio, mentre Milano mi sembra sempre più lontana.
Quando arriviamo dobbiamo “trovare il passante” mi avverte la mia amica, sembra una roba losca da narcotrafficanti, invece è un altro treno del cazzo.
Trovarlo non è difficile perchè un’orda di fastidiosi maturandi in cerca del proprio futuro, come noi, si riversa, intasando scale mobili e sottopassi della stazione, verso di esso.
Tutti vanno all’openday del Poli. Poli è un modo meno atroce di dire Politecnico, un posto dove io so già che non voglio andare perchè ci ha studiato mio padre e io sono diversa da lui.
Noi stiamo andando a vedere i corsi di design e stiamo cercando due mie compagne di classe, Fabi e Linda, che sono anche loro qui per questo. Non ci eravamo messe d’accordo bene su dove trovarci, ma quando le troviamo andiamo.
Un veloce giro dei laboratori e 150 minuti di fracassamento di coglioni ad ascoltare la presentazione dei corsi di moda, comunicazione e prodotto. Mi piacciono uno meno dell’altro.
Il programma era di restare a fare un giro di negozi, ma per me è un casino e comunque Fabi e Linda le vedo già stasera, che abbiamo quest’uscita in ballo da settimane.
Così ce ne torniamo a casa.
Alle 18:20 sono in fermata e fra tre minuti passa il pullman per andare dalla Fabi. È l’apertura del carnevale e “ci sono sbronze in giro” aveva detto.
Finito di truccarci e pettinarci a casa sua, usciamo e appena arriva la Linda ci spariamo in un rassicurante bar e ci beviamo tre spritz da brave fighette. Poi passiamo alla birra che ci si addice di più. Ci annoiamo, usciamo. A piedi infiliamo la strada per la stazione per fumare in un posto tranquillo. Che poi non c’è posto più sgamo della stazione per fumare e noi imperterrite andiamo sempre là lo stesso. In stazione, in mezzo a tutti gli altri stronzi che hanno avuto la nostra stessa idea, noto che è anche pieno di ragazzini. No, proprio ragazzini ini ini, tipo 13 14 anni. Questi fanno finta di ballare musica alternativa ruttata da un iphone. Vabbè è un mondo libero, io devo solo pensare a non farmi cadere la mista che è un’abitudine che sto prendendo un po’ troppo ultimamente.

Io e la Linda abbiamo fame, non abbiamo cenato, torniamo in un bar e prendiamo un tost che mi sembra la cosa più buona del mondo e qualche birra. Questa è la fase più brutta della serata perchè è il momento in cui, dopo aver fumato, stiamo in silenzio. Non vola una mosca. Chissà perchè poi, forse loro si rilassano, invece io non riesco a smettere di guardare quanto è brutta la Linda quando è fatta e mi viene l’ansia che magari sono brutta così pure io. Invece la Fabi è sempre così bella, anzi drogata è anche più bella. Madonna che ansia, usciamo, cambiamo bar.
Appena fuori mi rendo conto che è stata un’idea di merda, il freddo mi prende a pugni lo stomaco, questa sera sbocco. Mi lancio a passo spedito verso il bar di fronte, con quelle due dietro che o non hanno i miei problemi di sbocco facile, o proprio non ce la fanno a camminare in fretta. Poi cazzo, arrivo alla porta e questa tipa seduta per terra, mi saluta e sostiene di conoscermi. Sì dai voglio entrare, invece no lei deve raccontarmi qualche cosa che non ascolto. Però mi regala il suo campari, almeno quello.
Dopo aver accuratamente scelto il tavolo più brutto del locale, ordiniamo il litro di birra. Quando uno fa così se le cerca, cosa mi lamento se poi vomito.
Ce la giochiamo a carte, ovviamente perdo. Va bene, andiamo al cesso e poi andiamocene che non sto in piedi.
Noi ragazze al cesso ci si va tutte insieme e questo è uno dei motivi principali per cui una volta al mese mi faccio infilare le mani dell’estetista in ogni anfratto, se non sei totalmente depilata non va bene. Odio questa cosa della pipì fra amiche, è imbarazzante barcollare sulla turca con una che ti fissa, anche se è tua amica.
Andiamo in piazza e troviamo questo tipo, amico di Fabi, che ci invita a casa sua. Ci carica su una jeep con il tetto di tela e qualcuno ha la brillante idea di aprilo. Cazzo è febbraio.
A casa di sto tipo ci facciamo due righe e questo è l’apice, penso proprio che ho bisogno di emozioni. Sono così concia che mentre pippo sbatto in giro la bamba con i capelli e me ne accorgo anche, ma non ce la faccio, me li raccoglie con una mano il tipo.
Sono stanca. Ho la nausea, ancora. Ho bisogno di dormire.
Finalmente decidiamo di andare a casa della Linda a dormire. DORMIRE. Non so che ore siano quando arriviamo, tipo le quattro.
Raggiungo il bagno per forza d’inerzia, mi guardo allo specchio e con stupore noto che sono pure carina. L’ottimismo è il profumo della vita, devo levarmi quest’espressione disarmata dalla faccia.
Voglio il letto. Mi spoglio, mi sdraio e mentre mi sto addormentando penso. Qualcuno ha vomitato. Ma io sono certa di non aver vomitato…un po’ strano. Infatti ho vomitato io. Quando? Che ne so, domani me lo farò raccontare.
È mattina, anche se io non lo so. Mi sveglio nel letto fra i corpi lisci e caldi di Fabi e Linda.
C’è la luce accesa perchè Fabi dorme sempre con la luce accesa, mi alzo e la spengo e lì mi accorgo che è giorno. Vado in bagno a sistemarmi e sto benissimo, il vantaggio di vomitare sempre.
Torno in camera e ci alziamo tutte tre.
So che io e Linda dovremmo andare subito perchè rischio di perdere il pullman delle 12.28, ma non ci frega. Infatti quando arrivo in fermata l’ho perso, ma non sapevo che il prossimo è fra 5 ore diamine.
Aspetto lì sul ciglio della strada, un po’ lontano dalla fermata che altro non è che un cartello giallo, per vedere se qualcuno mi carica e mi porta a casa. Sì, dovrei chiamare qualcuno che mi venga a prendere, ma sono irresponsabile e comunque oggi non ho nessuno, sono tutti via.
Si ferma un tipo su una bella macchina nuova.
Controllo e sembra pure figo, salgo. Sì, è figo…per una trentacinquenne, peccato che io sia appena maggiorenne.
Ha tutti i capelli in testa, ma tanti sono grigi. Allo stesso tempo però ha anche i punti neri sul naso. Questo si crede un ragazzino, se volesse crescere se li schiaccerebbe.
Infatti tempo due secondi peter pan comincia a provarci, mi chiede subito se ho il ragazzo, quanti anni ho, se rischia l’arresto se mi chiede di uscire e intanto accellera e sorpassa per fare il figo.
So come fanno gli uomini di una certa età, mi è già successo.
Mi giro e lo guardo negli occhi in un qualche modo audace per metterlo alla prova. Ecco, rallenta perchè probabilmente è già intento a contenere un’erezione, che senza palle.

Vorrei dirgli che, se sapesse cosa è uscito dalla mia bocca stanotte, avrebbe schifo anche solo a starmi vicino. Ma lui non lo sa e poggia la mano sul mio ginocchio.
Se gli faccio capire che non ci sto potrebbe lasciarmi a piedi.
Arriviamo sotto casa mia, o meglio, sotto una casa che spaccio per mia perchè non voglio che sappia dove abito. Mi chiede il numero, io gli do facebook e si accontenta. Scendo.
Due passi e sono a casa, la doccia mi era mancata. Letto.
Mi sveglio quattro ore dopo, apro facebook e mi ha già scritto. Non fa niente, non è disdicevole ciò che ho fatto. Se non avessi accettato il suo passaggio adesso starei ancora aspettando il pullman.
Invece sto benissimo, mi sono già lavata, ho già dormito e ho tanta voglia di mangiare sushi stasera, con Ste.

Pie ([email protected])

Pink elephant

Walker Texas Ranger che se la vede col cartello messicano.
A modo suo. Mentre siedo sul divano.
Alla maniera del Texas. E’ un piacere guardarlo.
In Texas la gente può dormire con la porta aperta e il post-it con il PIN del conto corrente attaccato al frigorifero. C’è sicurezza in Texas.

Il suo riflesso è ancora stampato sullo schermo della televisione, copre le sicure strade del Texas.
È andato via da mezzora lasciando una metaforica scia di sangue e merda sul pavimento.
Ha lasciato anche quello che tengo sulla lingua in questo momento.
Le impronte delle sua scarpe lampeggiano alternando un rosa e un viola alla luce di neon.

Dal tetto nevicano capelli di ogni colore, hanno ormai coperto il pavimento per intero.
Spengono il lampeggiare delle impronte.
Una folata di vento porta via i muri di casa mia come se fossero di sabbia, all’esterno i cieli sono neri e in tempesta, il mio vulcano di quartiere, di cui realizzo l’esistenza solo ora, sta eruttando con violenza inaudita.
Si squarcia in due grosse metà, lo schizzo di lava si protrae in avanti, uno tsunami arancione che affoga il mondo.
Dalle due estremità del vulcano spaccato una gigantesca mano emerge, le mancano quattro dita, ha solo il pollice, tenuto retto in avanti. I motori a reazione alla base del polso la spingono su verso il cielo fino a farla diventare un lontano puntino nero.
Le due estremità collassano nel terreno, assordando qualsiasi altro suono e innalzando una nebbia di polvere nera.
Lentamente dalla nebbia spunta un feroce sole rosso, davanti al sole volano tre elicotteri, appesi con lunghe corde ci sono tre grosse statue di pietra grezza che raffigurano degli angeli. Una per elicottero. Sono appese per il collo.
Volano sopra la mia testa smuovendo il tappeto di capelli che copre il pavimento.

Il pavimento è una spessa lastra di vetro, sotto si estendono le infinite meraviglie degli abissi che non sono poi così meravigliose se non hai una torcia per illuminare tutto quel buio.
Dovrei comprare una torcia e puntarla in basso verso i miei piedi, osservare ogni forma di vita là sotto ma so che finirei per annoiarmi presto e non vorrei passare giorni a tormentarmi per aver sprecato soldi per una torcia.
E comunque qual è il senso di osservare dei pesci che nuotano ? E come osservare persone che instaurano relazioni sociali in un pub, solo che in un pub non hai bisogno di una torcia. Non ha senso avere una torcia in un pub.
Una grossa crepa si apre sulla lastra di vetro, lentamente la percorre per tutta la sua larghezza.
Tre bestie volanti, giganteschi elefanti rosa con ali, monocolo, cilindro e una grossa tromba al posto della proboscite volano sulla mia testa.
Annunciano con grossa voce che l’Apocalisse è vicina.

La lastra di vetro esplode in innumerevoli pezzi, il mio divano galleggia sulle acque nere e mosse, una gigantesca saponetta rosa emerge e si piazza davanti a me a mo’ di monolite.

Realizzo immediatamente di trovarmi davanti alla presenza di Dio.
Chino il capo in segno di rispetto, congiungo le mani in preghiera e lo ringrazio per il dono della morte, di come il ticchettare delle sue lancette dia valore ad ogni cosa al mondo.
E’ lo scoccare del tempo che detta il valore e se la vita di ogni uomo è una attesa, lo ringrazio per avermi messo nella migliore delle waiting room.
Sento la sua benignità e vengo unto dallo Spirito Santo. Ha il sapore di dolci odori di camomilla e un senso generale di buono.
Comprendo il significato dell’universo, della vita e di tutto quanto.
È qualcosa che ha a che fare con lenzuola rosse.

Cado in un sonno profondo e senza sogni, mi risveglio dopo giorni.
Riposato e sazio di sonno.

Slon

L’astrazione dei treni [ultimo tratto]

= Sono uno scrittore.
rispondo invece.
– Interessante. Uno di quelli famosi?
= No, uno di quelli falliti.
– L’avevo detto che lei era simpatico.
= Sì, l’avevo sentito la prima volta.
Ma non sente l’ultima frase. Il suo sguardo è già concentrato sulla giovane carne malamente coperta attorno a noi. D’un tratto non ne posso più. Sono a cinque fermate dalla destinazione ma CHISSENFREGA. Raccatto le mie cose.
– Scende già?
= È forse anche troppo tardi.
– Mi spiace rinunciare alla sua compagnia. Se aspetta e scende con me fra un paio di fermate, le posso far conoscere un bell’angolo nel parco…
E che, non lo sapevo?
= Lei è un individuo raccapricciante. Sono lieto di aver fatto la sua conoscenza, mi creda.
E alzo, con estrema gioia, il culo dal sedile.

 

Opossum