Said, mon ami

La mia già inesistente simpatia verso Said crollò quando il mio manager mi informò che, considerate le sue credenze religiose, era esonerato dal vendere ogni tipo di carne suina e ogni alcolico.

L’avevo ignorato nei primi tre mesi in cui aveva lavorato con me, quei quaranta chili di un ricurvo corpo mediorientale addobbato con una testa pelata e una perfetta barba medio-corta messa lì per bilanciare non ispiravano simpatia.
Nemmeno il suo sorriso e lui sorrideva tanto, troppo. Non era un sorriso di circostanza come quello della grossa maggioranza degli impiegati in quell’ASDA, era un sorriso vero, spontaneo.
Said era felice.
Ma stava sul cazzo a tutti lo stesso.

Sembrava una storia già conclusa, invece le apparenze ingannano.
La prima volta che mi rivolse la parola fu quando ero intento a staccare un magnete da un pacco di boxer Calvin Klein che avevo arruffato dal reparto abbigliamento uomo. Sorprendendomi alle spalle mi disse con un gentile tono di voce sfociante nel suo solito sorriso: “Anche io adoro i boxer di Calvin Klein”.
“Ma non mi dire” dissi ridendo perso nell’umiltà del suo sorriso, prima di chiedergli come avesse fatto ad entrare nel mio spogliatoio.

Da lì in poi cominciammo a parlare più spesso e sapete come vanno queste cose, interessi in comune, un crescendo del piacere nella reciproca compagnia e da lì a qualche settimana eravamo lì a fraggare su Counter-Strike ogni sera. E lui era piuttosto bravo.

Nonostante ormai ci fosse confidenza tra noi esitai diversi minuti quella sera quando mi invitò a cena da lui. Fissai per diversi minuti il suo avatar, ritraente Jeb la capra di Mucche alla riscossa, nella finestra della chat di Steam.
Sentivo rifiorire quegli stralci di intolleranza che provavo nei primi tempi e questo non mi piaceva. Mi convinsi che nessuno sarebbe morto se avessi accettato.

Said ne fu felicissimo, “ti presenterò mia sorella” aggiunse.

Per tre giorni tentai di figurare nella mia testa un’immagine di lei, tutte somigliavano a Said con i capelli lunghi. Alcune erano Said con i capelli lunghi coperti da uno straccio.
Niente di più sbagliato, Eris era semplicemente bellissima.
E tutto ciò che la rendeva bellissima era lì, bello in mostra.

Anche lei condivideva le buone qualità di suo fratello, la sua spigliatezza nel modo di porsi faceva davvero godere della sua compagnia.
In più mangiai del cibo squisito, non ho la minima idea di cosa fosse ma era un orgasmo di sapori. Il che era ancora più eclatante se pensate che tutto era stato preparato da Abda, la terza persona presente quella sera, dall’alto dei suoi sette anni.
La serata diventò perfetta quando Eris mi propose di vederci per un’uscita una di quelle sere. Ne ero felicissimo, accettai con gioia.
Said mi guardò fiero, sorrise, afferrò il mento di Abda, spinse le sue labbra con delicatezza verso le sue e la baciò con passione. Mi disse di non preoccuparmi, era sua moglie.

Con Eris vissi sette mesi magnifici, credevo di aver raggiunto l’apice della mia vita e forse era vero.
Lei era quello che avevo sempre desiderato ma tutto finì improvvisamente. Per colpa di Kevin Spacey.

Avevamo appena finito di vedere la seconda stagione di House of Cards sul nostro account condiviso di Netflix.
Ero propenso ad assegnare ben cinque stelle al Personal Rating ma Eris sosteneva che nonostante avesse davvero goduto ogni aspetto della visione, lei era propensa per le quattro stelle.
“Eh, ma cazzo! Kevin Spacey…” obbiettai.
Lei sostenne che non se la sentiva di votare cinque stelle, sarebbe stato come ammettere che la perfezione esisteva e nella sua visione del mondo la perfezione NON esisteva e non era in qualunque modo raggiungibile, né nel campo artistico né in ogni altra cosa.
“Kevin Spacey! Seven, I soliti Sospetti!” obbiettai ancora.
Lei scoppiò in lacrime e disse che la sua visione su di me e sulle relezioni eterosessuali in generale era di colpo cambiata, si alzò dal divano e scappò via.
“L.A. Confidential! Moon!” gridai disperato vedendola scappare.

Ne uscii distrutto.
Dopo i primi mesi di depressione dura entrai dritto nella fase odio. Volevo farle del male, nella mia testa la insultavo con ogni improprio che mi venisse in mente, sfociando ancora nell’intolleranza becera.
Ne dovevo uscire, così decisi che cagarle sul cofano della sua macchina mi avrebbe fatto stare meglio.

Mentre piazzavo quel mattone di merda sulla carrozzeria azzurrina della Matza pensavo a come lo shock per la fine della nostra relazione avesse fatto regredire il mio stato mentale, in quei lunghi quaranta minuti formulai diversi pensieri su cosa sia lo shock e su cosa sia una reazione e le sue infinite e prevedibili conseguenze nel mondo di oggi.

Dopo Parigi una grande moltitudine si è sentita shockata e ha espresso ciò con la più giusta e spontanea reazione: un hashtag.
C’è chi è andato oltre, mostrando a tutti quelli ancora accecati dallo shock la giusta via da seguire grazie alla sempre gradita condivisione di opinioni.
Non importa quanto realmente si sa, non importa quanto realmente si è in grado di avere un’opinione, ci si sente in dovere illustrare le proprie analisi balistiche, ci si sente in dovere di dire quanto, nonostante tutto, l’invincibile forza di una società multiculturale sia la chiave per risolvere ogni problema o viceversa, ci si sente in dovere di trovare un vero occulto colpevole, ci si sente in dovere di dire come tutto questo poteva essere evitato e come tutto e come sempre si diventa esperti.
Solo che questa volta è per qualcosa di importante: il sacro diritto alla Satira.

Tutto molto importante, tutto molto bello.
Ma forse la Satira non ha bisogno di tutto ciò, la Satira sopravvive e si manifesta da sola nella realtà come una sorta di Spirito Santo un filo più tangibile, facendo da sola il suo sacrosanto lavoro, quello più importante, quello di ridicolizzarci per farci capire come realmente siamo.
Perché un sorriso amaro scappa nel vedere Davutoglu marciare per difendere il diritto di satira o nel leggere la Rowling e Murdoch fare i brillanti su Twitter.
E se non è satira questa ?

Riguardo a Said, persi lentamente i contatti con lui. Mi scrisse un’ultima volta dicendo che abbandonava il gaming per qualcosa di serio, era arrivato il momento di battaglia vere, il momento di camminare sul serio su una zona di guerra, di fare qualcosa di importante, qualcosa che contasse sul serio. Si congedò dicendomi che ero stato un buon amico.

Ho sentito che lavora per UPS ora.

Slon

L’immobile

No one told you when to run / you missed the starting gun.

Time

La condensa copriva i vetri, ne tirò via una larga linea per osservare la strada.
Seduto al piano superiore dell’autobus aveva una buona visuale di un ambiente grigio e noioso. Un’ischemia urbana, file di auto ferme all’incrocio, pedoni che zizzaggavano tra le auto bloccate per raggiungere i lati opposti della strada e altri che camminavano frettolosi sul marciapiede sotto una pioggia battente. Qualcuno aveva anche avuto il coraggio di prendere la bici quel giorno.

L’autobus avanzò di qualche metro prima di fermarsi al semaforo.
Impegnando entrambe le mani, un predicatore copriva le pubblicazioni esposte con un ombrello e con un altro copriva il suo collega, che era impossibilitato nell’atto di tenere un ombrello dato che teneva ben saldo con due mani un cartello che chiedeva se la Bibbia e Gesù Cristo sono ancora importanti oggi.
Entrambi mostravano un forte fervore e la salda credenza che i gruppi di persone in attesa al semaforo sotto la pioggia sono zeppissimissimi di gente che anela a smettere di essere ansiosa per le cose quotidiane e trovare Gesù.
Pochi secondi prima che l’autobus ripartisse, il predicatore girò il cartello mostrando il lato opposto e una nuova domanda: Chi sono i veri Cristiani ?
Qualcuno duemila anni fa avrebbe dovuto avere il buon senso di registrare il marchio, così oggi non ci sarebbe tutta questa confusione su cosa è canon e su cosa non lo è.

La ragazza seduta di fronte a lui mosse il suo cellulare in alto e scattò una foto alle goccia d’acqua che scivolavano sul vetro, la condivise con commento che enfatizzava la loro somiglianza a lacrime.
Osservò, quasi con ansia, lo schermo per due minuti e sorrise felice quando il primo Like apparve e sbuffò con una saccenza esagerata quando vide di chi era quel Like.
Chiamò la sua fermata, si alzò si voltò verso di lui e non troppo velatamente osservò più a lungo del necessario il pass con foto, nome e cognome che portava al collo, preferì guardare la sua faccia su quell’orpello che aveva con se dal lavoro, non guardarlo direttamente negli occhi.

Fu grato che fosse andata così.

Quando lei fu andata, prese il pass e lo mise in tasca.
Ora lei conosceva il suo nome e il suo volto, se avesse voluto avrebbe potuto guardare il suo profilo online, scoprire dettagli a proposito di lui, dettagli che una normale conversazione non mostrava.
Se lei avesse cercato, non avrebbe trovato niente, la persona che aveva attirato la sua attenzione su quell’autobus semplicemente non esisteva.
Non aveva un profilo.

Uno dei lati più curiosi della social era è la facilità con cui puoi diventare invisibile.

La sua categoria era difficilmente catalogabile. Di sicuro aveva caretteristiche degli asociali, non mancavano aspetti da depresso cronico ingrato del benessere occidentale e da queste due derivavano anche punte di paranoia.
A differenze degli altri non aveva velleità, ne aveva avute ma a differenze di tanti era arrivato quel giorno in cui le aveva riconosciute per quello che erano. Velleità, appunto.

La consapevolezza è una condanna, l’aveva letto da qualche parte.

Ed era vero, brutti giorni quando realizzi che non hai le qualità per diventare ciò che desideri.
Forse era solo scarsa stima di se stessi, le qualità c’erano ma erano inespresse… o non è l’autostima stessa una qualità determinante ? Il mondo è pieno di autostima, le altre qualità latitano. Sono forse io un caso inverso dalla maggioranza ? Potrei ottenere di più se credessi in me? E di sicuro per questo che ho perso delle occasioni.

Mentre farfugliava nella mente l’autobus arrivò alla sua fermata, schiacciò il rosso bottone con scritto stop, il segnale acustico suonò e lui concluse che era una cosa troppo stupida assumere un motivatore. Non solo nel suo caso, in generale.

E’ inutile aspettare che qualcuno venga e ti dica cosa fare, non arriverà e se arriverà ti chiederà cosa può fare Gesù per te al giorno d’oggi.

La pioggia si era affievolita, camminò verso il suo appartamento concludendo il giorno tre, che era stato l’identica copia del giorno uno e del giorno due e i giorni quattro e cinque non sarebbero stati diversi. Meno due al fine settimana, dove avrebbe potuto dormire fino alle due del pomeriggio, la prospettiva più intrigante davanti a lui.
Forse qualche volta i suoi colleghi l’avrebbero invitato ad una serata fuori se fosse stato in grado di sostenere una conversazione. Forse il punto di saper sostenere una conversazione era un buon punto di inizio per migliorarsi e prima o poi avrebbe cominciato a lavorarci.

Per ora non gli sembrava più tanto stupida la prospettiva di far foto a gocce d’acqua, e condividerle sui social con un rigo scritto piatto e banale, aspettare con impazienza una qualsiasi risposta e sbuffare quando questa arrivava, per convincerti che non necessiti di questo per vivere.

Era pur sempre meglio di quello che era.

Slon