La calma dei sicofanti

Durante il primo giorno dei suoi arresti domiciliari, Kaspar Massof sedeva tranquillo e composto all’unica sedia presente nel suo appartamento. Fissava soddisfatto la grande finestra in salotto, che si era premurosamente adoperato a ricoprire con lenzuola e federe, dato che non sopportava l’idea di osservare il mondo che si muoveva mentre lui era obbligato a stare fermo. In grembo teneva un grosso quaderno a righe nuovo di zecca, che aveva già iniziato a riempire con i calcoli delle ore che mancavano allo scadere della sua condanna. E pensava, senza rancore ma con genuina curiosità, all’espressione calma e distratta dell’uomo che l’aveva accusato e fatto imprigionare ingiustamente. Non sapeva perchè l’avesse fatto, ma sapeva che un giorno l’avrebbe incontrato di nuovo e in un modo o nell’altro avrebbe ottenuto le risposte che gli spettavano.

Era solo questione di avere pazienza.

Dodici anni più tardi, seduto alla stessa identica sedia, Kaspar Massof respirava rocamente, lisciandosi la barba incolta con ossute dita marroni. Le lenzuola erano scivolate a terra da chissà quanto, ma a Kaspar non importava, perchè il mondo fuori aveva comunque smesso di esistere. Il quaderno giaceva dimenticato al suolo poco distante, le pagine ingiallite, ricoperte da intricate foreste di numeri malati e insignificanti. Anche pensieri e ricordi si erano ammalati nel tempo, cominciando a morire silenziosamente uno dopo l’altro, dissolvendosi tra le onde del torpore immobile che aveva sostituito la vita. L’ unica cosa che ancora rimaneva salda e chiara era un viso, un viso familiare, dall’espressione calma e distratta.

Prima o poi sarebbe uscito, di questo era sicuro; e quando fosse accaduto, tra pochi minuti o decine d’anni, Kaspar Massof avrebbe trovato sè stesso e si sarebbe fatto spiegare cosa era successo alla sua vita.

Kire