L’opinione del vento

Un crepuscolo di un numero incomprensibile di anni fa, dentro una realtà in fondo non così diversa dalle altre, un giovane artigiano vagabondo di nome Antes raggiungeva arrancando la cima di una delle ventuno colline deformi che appannavano gli orizzonti della città perplessa, conosciuta anche con il nome di Aequum.

Antes era una creatura che aveva conosciuto molti passi, ma non si era mai ancora avventurato negli interrogativi delle Regioni Annerite, di cui Aequum faceva da capitale e ambasciatrice. Si era ritrovato da quelle parti più per caso che per reale interesse o necessità, e ora emozioni contrastanti bagordavano nel suo stomaco mentre da sopra la collina osservava lo spettacolo incerto della città perplessa al tramonto. I suoi occhi rincorrevano la luce che inciampava sui contorni sfuggenti di tetti e torri, mentre i suoi pensieri ritornavano a una conversazione avuta appena la notte prima con un neonato di passaggio, ai piedi della collina.

“Sei diretto in città.”, aveva inciso il neonato nella sabbia, usando un ramoscello, “Spero tu sappia quello che fai.”

“In realtà non ne ho idea”, aveva risposto Antes, mentre accendeva un piccolo fuoco schioccando le labbra. “Credo di essermi perso. Vengo da Quartapelle, nel nuovo nord. Viaggio cercando lavoro, ma senza una precisa destinazione. Sono capitato qui.”

Il vento fantasma urlava con ferocia mentre le due figure si accoccolavano davanti al fuoco notturno. Non un filo d’aria minacciava le piccole fiamme: solo lo spaventoso lamento dell’aria immobile, che riusciva a stordire i viandanti anche attraverso i pesanti cappucci ricuciti.

“Sembri un ingenuo”, continuò il neonato, questa volta sollevando lingue di fiamma e formando piccole parole dentro di esse, “quindi lascia che ti parli come si parla a uno di loro. Questa notte è la festa di finetempo. Questa è la notte in cui a speranze, dubbi e follie viene data la possibilità di manifestarsi nella carne e finalmente morire, per dare spazio alla nuova generazione di grida e sussurri. La Configurazione dei sogni è sospesa: non è un buon momento per cercare qualcosa diverso dal caos. Ritorna fra qualche giorno, quando i bagordi saranno finiti e i cadaveri raccolti.”

Antes ascoltò con rispetto e avrebbe voluto saperne di più, ma la litania del vento crebbe d’intensità, stritolando parole e pensieri. Il neonato d’altronde si era già coricato, dandogli le spalle e addormentandosi all’istante. Antes tentò di fare lo stesso, ma era ormai troppo tardi: qualcosa di familiare e irrazionale gli stava artigliando le viscere tirandole contemporaneamente in tutte le direzioni. Rivolse gli occhi al cielo e ai suoi abitanti, e passò il resto della notte ad ascoltare le opinioni del vento che non c’era.

Entrare in città fu spaventosamente facile. Nessuno badava a nessuno nella vivace confusione che baccanagliava nelle strade. Nulla era immobile ad Aequum; non solo abitanti e forestieri, che si affannavano a scappare o rincorrere assurde creature di ogni e nessun tipo; perfino strade, mura ed edifici scivolavano con grazia su loro stessi, unendosi in coreografie impossibili di mattoni e tegole e ciottoli, creando vertiginose geometrie in continuo mutamento. C’era effettivamente un’atmosfera di gran festa: tutti sembravano su di giri in una maniera o nell’altra. Antes andò a sbattere contro un basso ometto e quasi si incendiò la faccia sull’enorme candela accesa che gli spuntava dal cranio. Fece per scusarsi e notò che l’ometto-candela stava in groppa a un vecchietto a quattro zampe, con uno smisurato sorriso dipinto in faccia. La coppia trotterellò via ciscinchiando insieme in una lingua sconosciuta, che ricordò ad Antes il crepitio delle foglie che bruciano. Poco più in là, una donna avvolta in larghi strati di seta verde ballava appassionatamente con quella che pareva essere un’enorme lisca di pesce, giallastra e puntellata di sparuti ciuffi d’erba. Piccole creature a metà tra un felino e una scimmia saltavano allegre sulle spalle dei passanti, inseguite da un piccolo gruppo di bambini sporchi e senza denti. Antes rimase particolarmente affascinato da una giovane coppia che ballava un tango a bordo della strada principale, senza curarsi delle rispettive ombre che nuotavano libere sulle mura alle loro spalle, rincorrendosi e abbracciandosi ed esplodendo in fiori di buio. E poi, la calle dietro di loro voltò improvvisamente a destra, incurvandosi e formando una ripida salita che portava all’entrata prima inaccessibile di un edificio cilindrico ricoperto da finestre luminose di ogni forma e dimensione. La folla magnifica e bestiale cominciò a spingere con entusiasmo verso quella direzione, e Antes decise di farsi da parte per vedere cosa sarebbe successo. Ritiratosi nell’ombra calda di un vicolo laterale, avrebbe potuto benissimo restare lì tutta la notte, contemplando quel fantastico addio alle carni. E quasi si mozzò da solo la lingua, quando il vicolo girò su sé stesso e sprofondò nel terreno, riportandolo senza nessun motivo centinaia di metri più indietro, al principio della strada principale, ora deserta. Sembrava che tutta la città si stesse muovendo verso la strana torre. Fu in quel momento, grazie al silenzio, che Antes si accorse che qualcosa lo stava seguendo. Solo pochi metri più indietro, un esile profilo si muoveva goffamente dentro le pennellate di oscurità tra i lampioni ad olio. Improvvisamente, la stessa potentissima sensazione di fuoco rabbioso che aveva provato la sera prima, e ogni sera prima di quella, tornò a riempirlo; ma questa volta, invece che provenire da dentro, era emanata dalla figura nascosta.

“Chi sei? Fatti riconoscere.” chiese Antes, che pure credeva di conoscere già la risposta.

La figura avanzò, con le movenze di un randagio affamato. Era uscita dall’ombra ora, eppure in qualche modo sembrava ancora indefinita, come se la luce gli scivolasse addosso per poi gocciolare a terra. Antes riuscì a scorgere un viso vagamente femminile, ricoperto da intricate spirali che avrebbero potuto essere tatuaggi o cicatrici. Lunghi capelli del colore dell’autunno fluttuavano attorno al suo viso effimero e bellissimo, e un paio di occhi neri come gli abissi lo stritolavano in uno sguardo che decapitava il respiro.

“Parla!” esclamò Antes, “Dove sono diretto? Che cosa sto cercando?”

La figura rispose, ma non attraverso parole. Frammenti di codici primordiali attraversavano l’etere, colpendo il centro perfetto dell’anima di Antes.

“A est. Cercami a est. Non lasciarmi andare.”

“Dove…”

“NON LASCIARMI ANDARE”

Antes e il suo sogno si unirono in un abbraccio furioso e tenace, e così restarono, immobili, fino al momento in cui i primi timidi raggi dell’alba cominciarono a filtrare dalla sommità dei palazzi. L’esile figura dal viso bellissimo non si muoveva più ora, e sembrava caduta in un sonno delicato e silenzioso. Meno di un’ora dopo, Antes era uscito dalla città. Aveva raggiunto la cima di una delle colline, e si concesse un ultimo sguardo alle spalle. Perfino da li sopra, poteva scorgere la torre cilindrica e la strada principale, seppellita sotto centinaia di minuscole sagome immobili. Sospirò, chiedendosi che cosa fosse la sensazione completamente nuova che si stava facendo strada dentro di lui.

Scrollò le spalle, e si diresse verso ovest.

Kire

Nel buio

– Scendiamo qui – mormorò Elias.

Brian, che si era fissato le scarpe in silenzio per tutto il tragitto, sollevò lo sguardo e guardò fuori dai finestrini della metro. Erano in un tratto di superficie, in aperta periferia; la sagoma del muro di casermoni che avevano appena oltrepassato si distingueva a malapena a poche centinaia di metri da loro, nel buio della notte. Il convoglio rallentava.
Elias guardava in piedi il buio fuori dai finestrini con espressione indifferente, come fino a poco prima aveva guardato le pareti del tunnel. Era rimasto in piedi, appoggiato a un sostegno per tutta la corsa. Sembrava perso in distanze siderali, e quelle due parole erano le prime da quando erano saliti nel vagone.
Andy, che era seduto accanto ad Brian, a quell’invito alzò finalmente gli occhi dalla console; non aveva fatto altro che videogiocare per l’intero tragitto. Brian si disse che non avrebbe potuto pensare per i due compagni due modi più diversi di comportarsi allo stesso modo. Quanto a lui, fino a lì aveva a malapena respirato. Aveva i suoi motivi.
Passando sulla banchina furono investiti dall’autunno. Era da poco passata l’una e faceva freddissimo, ma il cielo terso e la luna piena rendevano debole l’oscurità. Andy bestemmiò contro il clima, poi si rivolse ad Brian.
-È la tua prima messa nera?-
Elias cominciò ad allontanarsi dalla fermata, lasciandosi i palazzi alle spalle. Nella direzione in cui si avviava c’erano campi, sterpaglie e cantieri, come se la città si fosse presa una pausa. “25 ettari di nulla”, gli aveva spiegato Elias.
-No, è la terza. Ma è la prima da quando sono qui in città. Le altre le avevo viste dove vivevo prima.-
-Qui abbiamo un bel gruppo- proseguì Andy. Si incamminò anche lui, seguendo Elias con Brian al fianco. -È raro celebrare in città, è pericoloso. Ma questa zona per ora è abbastanza sicura, ci sono solo cantieri e campi. Quando sei in mezzo, sei sicuro di non avere nessuno intorno nel raggio di oltre quattrocento metri. Mi piace questo posto, ci vengo spesso per i fatti miei. Qualche volta, quando ero più piccolo, ci ho giocato a cricket con qualche amico, dove vivevo era pieno di famiglie pakistane e i loro bambini ci andavano pazzi. È meglio qui che nei parchi. Meno rompiscatole.-
– Lo trovo appropriato.-
– Sì? –
– C’è qualcosa di satanico nel cricket. Pensa solo all’importanza del numero sei in quello sport. Sei lanci nell’over, sei punti per il fuoricampo, sei stump nel terreno, sei ore di gioco al giorno. Strano che le partite durino solo cinque giorni, uno meno di quanto sarebbe lecito.-
Andy sogghignò. Elias disse qualcosa a mezza voce che ad Brian suonò come un “Quante stronzate”… ed in effetti lui stesso concordava. Diceva stronzate perché era nervoso, non poteva evitarlo.
– Dai, Elias, non essere crudele. È un’idea tutto sommato simpatica, se ci pensi.-
Elias non rispose.

Scesero in un piano interrato di uno degli edifici in costruzione. Un futuro garage. In qualche modo appropriato per una messa nera, pensò Brian. Vide che erano stati preceduti: tre ragazzi e due ragazze si aggiravano attorno ad un basso tavolo coperto da un telo nero: un improvvisato altare. Ma non c’erano suppellettili di alcun tipo, e -nonostante si aspettasse qualcosa del genere- il particolare colpì Brian come una rasoiata.

Nelle campagne da cui veniva aveva frequentato brevemente gruppi satanisti. Da quando si era trasferito in città aveva cercato in tutti i modi di pendere contatto con altri occultisti come lui. C’era riuscito facilmente, aveva stretto nuove amicizie, e aveva scoperto come l’ambiente lì fosse molto diverso, più duro e complicato d quello a cui era abituato. Gli parlarono di sacrifici umani.

-Seriamente?- aveva chiesto ad Elias.
-Sì. Succede; deve succedere. Non spesso. Più o meno una volta ogni paio d’anni. Ma deve succedere.

Non aveva approfondito l’argomento, nonostante tutte le domande sulle possibili conseguenze che gli si accalcavano in testa. Dopo la rivelazione, e nonostante le conferme, aveva preferito proseguire a considerarlo come una sorta di scherzo.
Ma l’altare ora era davanti a lui. E che fosse basso e sgombro rendeva difficilmente equivocabile il suo scopo: doveva esserci spazio per depositarvi la vittima, e basso abbastanza perché il corpo fosse comodamente maneggiabile. Per Brian era la definitiva conferma, più valida di qualsiasi parola pronunciata gravemente a bassa voce, di quel che sarebbe successo.
A quel punto erano quindi in otto. Erano tutti ragazzi sui venti, forse ventidue anni, tranne un uomo alto e imponente, forse sui quarant’anni, che si diresse verso di loro appena dopo il loro ingresso. Era Daniel, il celebrante. Brian lo incontrava per la prima volta, ma la fama di figura carismatica del gruppo lo aveva preceduto. Daniel gli tese la mano.
– Quindi tu sei Brian.-
– E lei è Daniel,immagino.-
– Dammi del tu. Sei stato coraggioso a venire. Diversi si sono tirati indietro, sapendo cosa dovevano… aspettarsi di vedere. E anche per paura di conseguenze spiacevoli per loro.-
– Di quelle ho paura anch’io, però. Un omicidio è un omicidio.-
– Non devi preoccuparti. Tu sei nuovo e non hai responsabilità verso nulla di ciò che succederà; noi, per ciò che riguarda, sappiamo come muoverci per evitare rischi. Le nostre vittime quasi sempre sono balordi, vagabondi, reietti che nessuno reclamerà mai. E comunque – Daniel si permise di sorridere – lui ci protegge.-
Brian non riuscì a replicare. Una vaga tranquillità si faceva largo dentro di lui.
– Quando arriverà quello di stasera? –
– Presto. Lo porteremo sull’altare al termine della funzione.
La cerimonia cominciò poco dopo. Era diversa da quelle che Brian aveva seguito in precedenza, ma non se ne stupì, sapeva che ogni gruppo aveva i suoi riti personali. Erano tutti inginocchiati in semicerchio a qualche metro dall’altare, eccetto Daniel che officiava in piedi dando loro le spalle; Brian aveva Elias alla sua sinistra e Andy alla sua destra, ancora come sulla metro. L’”arredo sacro” era minimo: oltre all’altare ancora sgombro c’erano solo teli con disegni esoterici appesi alle pareti, e nient’altro. Daniel pronunciava formule con voce grave, e i suoi confratelli a tratti cantilenavano lugubremente. Era tutto molto scarno e nel complesso molto tetro. Il salmodiare proseguì per venti minuti, poi Daniel si interruppe all’improvviso.
Si girò verso Brian e tese verso di lui una mano. – È nostro desiderio che sia tu a condurre qui la vittima dell’olocausto. Avvicinati.-
Brian impietrì. Non gli riuscì più nemmeno di deglutire. Per qualche secondo non si mosse, poi sentì una fitta nel fianco destro: era stata una gomitata di Andy a provocarla. Brian lo guardò e vide che Andy -l’eterno mezzo sorriso sulle labbra- gli faceva cenno con la testa di andare. Brian finalmente si mosse verso Daniel e gli prese la mano. Daniel la afferrò con forza e tirò verso di sé Brian, che per la sorpresa quasi perse l’equilibrio. Al di sopra dell’altare Daniel incollò quasi il viso al suo, gli occhi a pochissimi centimetri; la voce con cui parlò era poco più di un mormorio.
– Sei nuovo, sì, e ovviamente ci sono cose che non sai. Da oltre dieci anni celebriamo col sangue per ingraziarci il favore del nostro signore. È un’immensa gioia per lui, e ovviamente anche per noi. Non avere paura. Assapora la sua gloria, e vivila, come la viviamo noi, e vedrai come diventerà grandiosa la tua esistenza…-
Ad ogni parola Brian diveniva sempre più terrorizzato. Gli sembrava di essere precipitato in un abisso. Ma la presa salda e un qualcosa di ipnotico nella voce di Daniel gli impedivano di fuggire come una parte di lui gli diceva di fare. Lentamente il terrore si trasformò una sorta di intorpidimento. Daniel continuò a glorificare il demonio alzando progressivamente la voce, arrivando infine ad urlare, finché non si azzittì di colpo. Nell’immediato silenzio Brian tornò improvvisamente padrone di sé. Si aspettava, e temeva, che Daniel gli lasciasse la mano e gli indicasse dove si trovava la vittima. Ma la mano libera del celebrante saettò all’improvviso e gli piantò un pugnale in pieno cuore.

Brian non riuscì a percepire la gloria del loro signore al di sopra del dolore squassante nel petto e della delusione per essere caduto in un’insulsa trappola. Ma la vita se ne stava andando rapidamente, Alzò gli occhi e notò che il celebrante ora sorrideva. Fu l’ultima cosa che vide.

 

Opossum