Arriva Bingo Bongo (ldcds ospita)

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare da una superficiale osservazione basata esclusivamente dall’analisi del nome, Bingo Bongo non era di colore, ma era bianco. Abbandonato orfano praticamente neonato dentro una legnaia infestata dalle piattole, era stato fin da piccolo male accettato dalla virtuosa comunità Brocobiavese, e quindi, da sempre relegato in una tarlata capanna nel bosco, di cui pagava pure affitto e tassa comunale. Il Lunedì, alle quattro e mezza del mattino, Bingo Bongo si alzò dalla sua lurida branda come tutti i dannati giorni alla solita ora. Era ancora buio pesto. Il lavoro cominciava alle sei, ma a lui toccava alzarsi prima. Per arrivare sul posto di lavoro c’era un’ora di cammino nel bosco, e in più, se non arrivava almeno mezz’ora prima di tutti gli altri, Otto lo puniva corporalmente. Ma non era tanto quello. Bingo Bongo in realtà aveva paura di Otto arrabbiato. Aveva paura della faccia di Otto arrabbiato che diventava brutta ma brutta, e poi aveva paura dello scettro di Otto arrabbiato che fischiava nell’aria tanto ma tanto, e poi ancora aveva paura della voce di Otto arrabbiato che ruggiva come il gorilla Gozzolla tanto ma tanto cattivo. Insomma aveva tanta, ma tantissima paura!

“Forse… sono un vigliacco?” Si domandò. Ma poi si rispose da solo “…e resterò vigliacco…”. Terminato di pensare ciò, Bingo Bongo raggiunse la tinozza d’acqua piovana ove era solito lavarsi, e per l’appunto, si lavò rovesciandosela in testa. Poi prese uno dei ghiri arrosto avanzati dalla cena domenicale, e cominciò a masticarlo. I ghiri li catturava lui, a mani nude, e poi li cucinava sul fuoco infilandogli uno spiedo nel culo. Avevano un sapore selvatico e stopposo, ma non sapeva cuocersi altro. Era uno spettacolo vederlo: alto più di due metri, pesante centoventi chili e fradicio di acqua piovana, mentre, nel buio della notte, sputava ossa di ghiro come fossero noccioli d’albicocca. I suoi vestiti erano quelli provenienti dal volontariato delle vecchie del paese. Il maglione, troppo piccolo, gli lasciava scoperta la pancia fino al pelo pubico, ed i pantaloni, troppo corti, si abbassavano mettendo in mostra il fondoschiena. Del resto, per un gigante del genere non esisteva la misura giusta. Quindi si mise in marcia per raggiungere il cantiere. Sarà utile precisare una cosa: una qualsiasi altra persona, partendo dalla capanna, non avrebbe impiegato un’ora di cammino, ma Bingo Bongo era solito fermarsi per ogni stupidaggine. I lacci delle scarpe gli si slacciavano di continuo e perdeva tempo a riallacciarli. Passava un gracco, e si fermava a salutarlo: “Ciao signor gracco… come va? Dove stai volando di bello… Ehi! Uccello, perchè non rispondi ?”. Oppure si fermava ad annusare i fiori, e spesso se li mangiava pure. Talvolta prendeva una farfalla ed ovviamente, nel tentativo, la spappolava. Quando poi apriva la mano, il poetico insetto era letteralmente stampato sul palmo, ed allora lui le chiedeva scusa: “Oh! Povera farfallina… ti ho fatto un po’ male…”. Quando vedeva un nido, solitamente s’arrampicava sull’albero con l’agilità di un scimmia, in cerca, diceva lui: “Delle uove fresche appena munte”. Da quel momento il destino del nido era segnato. Con una manata lo rovesciava per vedere se “uscivano le uova”, generalmente sterminando tutti gli uccellini. Oppure si bloccava di fronte al rumore delle api cattive. Per Bingo Bongo, tutti gli insetti che facevano “bbzzzzzz” erano api cattive. Non importa che fossero vespe o mosche, quando sentiva avvicinarsi un “bbzzzz” urlava: “Le api cattive! Aiuto!”.

E scappava, perdendo altro tempo. Quando vedeva una mandria al pascolo, comprese le capre, invece gli correva incontro urlando: “Mucche! Mucche! Latte! Latte!” I poveri armenti, di fronte a quella specie di energumeno selvaggiamente proiettato contro di loro, fuggivano terrorizzati come i branchi imbizzarriti dei film western, mentre solitamente la corsa di Bingo Bongo terminava scivolando su d’una merda. Un’altra sua caratteristica era l’innato, razionalmente inspiegabile senso dell’orientamento. Per quanto uscisse dal sentiero, cambiasse strada, attraversasse il bosco, riusciva sempre a trovare la sua capanna o il cantiere. Ma insomma, quel giorno, a Bingo Bongo gli si erano slacciate le scarpe già quindici volte, aveva scacciato due branchi di mucche, ucciso sei farfalle e sterminato due nidi. E non era ancora a metà strada! Ad un certo punto, uscendo dal bosco, gli apparve una radura. Era uno di quei grandi prati di montagna, pieni di fiori variopinti e profumati. I colori brillavano intensamente, proprio come se restituissero generosamente la luce di quel limpido sole nato di lì a poco. Come li vide, Bingo Bongo cominciò a correre a perdifiato, allargando le braccia come se volesse abbracciarli tutti. “I fiori, i miei amici fiori…” gridava. Sembrava un gigante rimasto bambino. Si rotolava nel campo, saltava, li sniffava, non se ne perdeva uno. Poi cominciò ad estirparli, e quindi a mangiarseli. Appena trovava un fiore, lo annusava e diceva: “Tu sei buono, adesso ti mangio, Gnam!”. E addio bel fiore. Qualche tempo dopo, durante il processo contro di “loro”, il suo avvocato difensore addusse come attenuante il fatto che, cibandosi il Bingo Bongo solo di ghiri, era costretto a compensare la dieta con vitamine provenienti dai fiori. In realtà nessuno in quell’aula sapeva se i fiori contenevano vitamine, e anche se l’avessero saputo avrebbero dovuto ingaggiare un perito, perciò preferirono proseguire con gli altri capi di imputazione. Del resto molte cose di “loro” restarono oscure. Per esempio, le autorità non capirono mai se Bingo fosse il nome e Bongo il cognome, o se il contrario, o se fosse solo un soprannome. Ma questo avvenne tempo dopo. Insomma, tornando a noi… quel giorno si trovava da quelle parti il Guardacaccia e Guardiscarica, l’arcigno Matildo Saturnio. Il vecchio Matildo sentì delle urla provenire da lì vicino, ed in parte incuriosito, andò a controllare. Superò quindi il cartello con la scritta “VIETATO RACCOGLIERE FIORI”, e proseguì fintanto che non gli apparve l’immonda scena: Il prato, forse il più bel prato fiorito di Brocobiava, era per metà devastato, mentre seduto al centro il Bingo Bongo manducava un gigantesco mazzo di fiori con la stessa delicatezza dei giganteschi erbivori precedenti al Pleistocene. Matildo estrasse il blocco delle contravvenzioni e si diresse in direzione del gigante, il quale smise momentaneamente di ruminare. Arrivato, Matildo lo guardò negli occhi con cattiveria, e Bingo Bongo cominciò a tremare. Assurdo! Un gigante alto oltre due metri e forte come un rinoceronte che tremava di fronte ad un vecchio di quasi settant’anni, alto un metro e un cazzo, e per di più con gli occhiali! Gli sarebbe bastata una mano per trasformarlo in una frittata! Ma non avrebbe mai osato, poiché egli, anzi “loro”, erano vigliacchi. Matildo lo sapeva, e per di più (grande paura) indossava la divisa. “Brutto deficiente, guarda cos’hai combinato! Ma stavolta me la paghi cara, anzi, carissima!”. E ciò detto Matildo estrasse la macchina fotografica e immortalò il campo devastato insieme a Bingo Bongo con i fiori ancora in bocca. Quindi impugnò la penna d’ordinanza e compose una multa comminando il massimo previsto dalla legge. Quando gliela porse, Bingo Bongo la raccolse con mano tremante, e domandò: “Signora guardia, perchè mi ha dato i numeri?”. Matildo si fece paonazzo: “Pezzo di cretino! Quei numeri sono i soldi che dovrai pagare, e come, se li dovrai pagare! Perchè altrimenti, questa è la volta buona che ti faccio internare!”. Bingo Bongo era così terrorizzato che non riusciva a muoversi, ed il suo povero stomaco, contratto tra incontrollabili spasmi di tensione, scatenò un’immonda flatulenza. Matildo si tappò il naso con un: “Santo cielo, che puzza di merda!”. Bingo Bongo era davvero dispiaciuto, ma come poteva riparare? D’un tratto gli venne in mente un film con un tipo bello e ricco, un tale Giacomes Bond, che aveva fatto una cosa, e l’aveva fatta al ristorante ed era una cosa buona, e quindi decise di farla pure lui. Perciò restituì la multa al Matildo dicendo: “Metta pure sul mio conto, signor cameriere…”. Matildo esplose! Era così incazzato che Bingo Bongo dal terrore andò in delirio: Vide la faccia di Matildo ingigantirsi come la bocca di un Cattivosauro Recs che voleva mangiarselo, e fuggì urlando.

Smise di correre solo quando raggiunse il cantiere, naturalmente in ritardo. Come lo videro, lo accolsero le parole di scherno dei tre operai di colore. Abdul Kilimangiaro urlò, rivolgendosi a Otto: “Capo, capo, guardi, è arrivato Bingo Bongo, che nel culo te lo pongo”. “É arrivato Bango Bingo che nel culo te lo spingo” gli fece eco Omar Safari. Mentre Togo Nilo concluse con “Ecco arriva Bingo Bango, che nel culo te lo spando”. “Silenzio!” urlò Isotto, tra il rumore delle seghe a nastro. Dunque sollevò la sua verga facendo il gesto di colpire. Ma non avrebbe mai osato. I tre neri erano protetti dalla legge e pure iscritti al sindacato, e ciò significava che non poteva nemmeno insultarli. Inoltre maneggiavano la sega a nastro, ed era meglio essere prudenti. Otto perciò si morse le labbra cercando di contenere la libidine: come avrebbe voluto offendere i tre extracomunitari di colore sfoggiando le più intriganti frasi razziste del suo vocabolario proibito. Ma ecco che… gli apparve Bingo Bongo… e allora, finalmente il vecchio capocantiere potè liberare tutta la sua lussuria frustrata! E dunque colpì, trasfigurando la regal verga sul corpo dello sciagurato gigante come fosse il gigantesco fallo vendicatore di un Dio pagano e crudele! Il bastone si abbassava ritmicamente sul povero Bingo Bongo, tormentandolo nel corpo e nello spirito. Il tapino si inginocchiò come un martire, ma Otto non ebbe pietà, e anzi, mentre lo bastonava comincio a sbavare di concupiscenza: “Vigliacco, ribellati se hai il coraggio, ma non ce l’hai, perchè sei vigliacco!” “Sì, sì, sono un vigliacco…” pianse Bingo Bongo, ma quelle parole, anzichè smuovere un anelito di pietà nel cuore di Isotto, ne eccitarono soltanto la sadica frustrazione. “Io ti faccio nero!” sentenziò il vecchio capocantiere, e così dicendo, e per godere del suo più profondo e feroce razzismo, immaginò che Bingo Bongo, anche se di pelle bianchissima, si trasformasse in uomo di colore, così che egli potesse bastonare un negro. Ad un certo punto Bingo Bongo strappò con forza sovrumana la sega circolare accesa dalle mani di Omar Safari. Omar si ritrasse, pensando: “Questa volta il vecchio finisce a pezzi”. Anche Otto si bloccò, percorso da una inquietante riflessione: “Forse… che abbia esagerato?”. Ma Bingo Bongo orientò la sega verso il tronco e cominciò a segare. Segò quel fusto con sapiente maestria, e la sega parve davvero un piccolo strumento tra le sue mani. I pezzetti di segatura volarono tutt’attorno mentre i tre operai e il vecchio osservavano la determinazione e la precisione con la quale il Bingo Bongo svolgeva il suo lavoro. Poco dopo ciascuno tornò al suo ruolo, e per un po’ nessuno ebbe più niente da dire.

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