Mari

Tutto comincia con il chiacchericcio delle onde.

L’oceano è tranquillo oggi, respira piano. Non è lui a svegliare Mari. I suoi occhi grandi e opachi si spalancano e trovano il mondo a cui è abituata, ma questo non è abbastanza per calmarla. Non si è mai sentita cosi. Tutto è….

Mari non è brava con le parole ma non importa, nessuno saprebbe descrivere adeguatamente cosa si prova nel vivere per la prima volta un’esperienza onirica.. E davvero Mari non aveva mai sognato prima d’ora, e se lo faceva, non se ne era mai accorta. Il sogno è arrivato senza preavviso, straniero eppure a suo agio, impossibile eppure realistico. L’affanno e l’ eccitazione e il terrore e la curiosità e l’euforia e la confusione e il resto di quelle emozioni a cui nessuno si è mai preso la briga di dare un nome, tutto si muove dentro di lei, tutto è…

Tutto è uguale, al prima e al dopo. Familiare. Il faro abbandonato di New Haven non è affatto una località sconosciuta, comunque la lunga camminata necessaria per arrivarci è sufficiente a scoraggiare i più, e resta un posto relativamente tranquillo. Mari viene spesso qui, nei pomeriggi senza vento. Le piace camminare dolcemente sulle pietre nere del molo, annusare gli odori ancestrali dell’oceano che le è proibito e sconosciuto, le piace distendersi a sonnecchiare all’ombra di quella torre strana e fuori dal tempo. Tutto è come al solito, Mari dorme nel sogno come sta dormendo nella realtà, almeno fino a quando comincia il tremore. Mari non è brava con le parole ma non importa, dentro di lei sa che l’oceano si è alzato dal suo vecchio letto e le sta venendo incontro. Spalanca gli occhi grandi e opachi, curiosa suo malgrado di vedere come corre un oceano folle, ma l’oceano è immobile, non c’è nessuno tsunami, ma il tremore continua, e solo ora capisce che le onde stanno arrivando ma da dietro di lei, è la terraferma che si è alzata e le sta correndo incontro impazzita, scrollandosi di dosso quello che ci piace considerare immobile e indiscutibile, e gli occhi di Mari non possono spalancarsi abbastanza per concepire ogni dettaglio, ogni finestra infranta di ogni palazzo scaraventato nel cielo, ogni persona e ogni auto e ogni lettera mai letta muoversi in ogni traiettoria mai considerata, e ormai l’enorme ombra di tutta questa follia la raggiunge e l’abbraccia, quasi volesse proteggerla da cosa sta accadendo, e poi

C’è un rumore di passi che si avvicina, ora lo sente, e l’istinto la strappa suo malgrado al ricordo dell’esperienza. Un ragazzo, a una ventina di metri, non si è accorto di lei, cammina fino al culmine del molo di pietre, lo vede sedersi e accendersi una sigaretta e rimanere immobile senza fumarla, impegnato a parlare con l’oceano o forse con sè stesso. Mari si alza. L’adrenalina sta sfumando, ma qualcos’altro le rimane dentro, una parola che non conosce.. Apre la bocca e quello che esce è un lungo gemito, anzi quasi un ululato, un suono senza senso rivolto alle cose immobili e indiscutibili, a tutto quello che crediamo di comprendere.

Il ragazzo la sta guardando ora. Ha una certa aria triste ma le sorride, le fa cenno di avvicinarsi. Mari tende i muscoli, non si è mai fidata degli uomini, eppure comincia camminare lentamente e gli si siede accanto. E c’è un attimo di nervosismo quando lui la accarezza, ma passa subito. Lo lascia fare, sente la sua mano scorrere nel pelo folto della nuca, e lei appoggia il muso sulle zampe, chiude gli occhi e muove timidamente la coda perchè adesso, fosse anche solo per alcuni minuti, tutto quanto ha finalmente un nome.

K

 

 

Sentieri

Per di qua!” esclamò improvvisamente la guida, svoltando a destra e uscendo dal sentiero sterrato per immergersi in un vasto campo abbandonato.

Lo fece in modo così repentino da lasciarmi confuso per una decina di secondi, perso a guardarlo saltellare nell’erba alta. Anche Zion lo fissò per un po’, le orecchie nere sull’attenti, poi si rivolse a me e cominciò ad abbaiare in modo stizzito, con il solo scopo di risvegliarmi dalla trance.

(Muoviti, testa di cazzo! Guarda che lo perdiamo! Quello non aspetta!)

Mi diedi una scrollata, e mi lanciai all’inseguimento. Il campo era in realtà un enorme acquitrino; l’erba si ergeva fino ai fianchi, spuntando da una superficie stagnante di acqua morta e puzzolente che arrivava poco sotto le ginocchia. Mi chiesi come facesse Zion a non svenire, con il suo olfatto amplificato di cane, ma lei sgambettava e nuotava tutta contenta, senza dar segni di essere infastidita. Finalmente giungemmo all’altra sponda. La guida si era fermata, non per aspettarci bensì per scrutarsi attorno e fiutare l’aria. Sentivo una sensazione strana alle gambe, come se fossero più pesanti. Mi arrotolai su i jeans, scoprendo con orrore una ventina di nerissime sanguisughe giganti che banchettavano con i miei polpacci. Cacciai un gemito, e stavo giusto chiedendomi come mai Zion e la guida fossero rimaste intoccate, quando quest’ultima urlò di nuovo “per di qua!”, immergendosi dentro il fitto sottobosco che cominciava lì vicino. Stavolta non esitai: mi fiondai subito dietro di lui, cercando di ignorare lo schifo, ma nonostante la prontezza dopo pochi minuti mi ero comunque perso. Il sottobosco era fittissimo, una giungla di erbacce, rovi e sottilissimi rami fioriti che mi abbracciavano da ogni lato. Ben presto il sole si offuscò, lasciandomi in una penombra ammiccante che era perfino peggio del buio. Mi fermai e chiamai la guida: ricevetti in risposta un altro debole “per di qua!”. Sembrava provenire da sinistra, forse a una cinquantina di metri: mi incamminai in quella direzione, ma dopo averne percorso cento mi fermai di nuovo, con il panico che cominciava a bussare. L’aria aveva acquistato una strana consistenza, densa, quasi liquida. Mi sembrava di trovarmi di nuovo nella palude di prima, ma stavolta con la superficie dell’acqua davanti agli occhi invece che intorno alle gambe. Mi tastai la faccia, convinto di trovarci appesa una legione di sanguisughe. Non c’era nulla.

Chiamai ancora.

Di nuovo quel per di qua!, stavolta più vicino, a destra. Mi stava prendendo in giro? Non potevo saperlo. Una trentina di passi e uscii finalmente da quel labirinto neroverdastro. Ero di nuovo su un sentiero, che poco distante finiva sull’argine di quello che sembrava un grosso lago. Una specie di piccola palafitta di legno marcio faceva da passerella, molo e confine tra la terra e l’acqua.
La guida era li sopra, mi dava le spalle osservando l’epidermide nervosa dell’acqua. Mentre mi avvicinavo, con Zion trotterellante al mio fianco, notai ai bordi del sentiero alcuni strani serpenti, o forse bisce acquatiche. Certe scappavano via spaventate, ma altre rimanevano ferme, e sembravano fissarmi con cattiveria. E quando arrivai alla passerella mi accorsi che non erano alcuni: erano centinaia, migliaia, e ricoprivano l’argine e tutto il lago, sguazzando e rincorrendosi nervose. Alla fine della passerella vidi ormeggiata una malandata barca a remi, anch’essa completamente ricoperta dai serpenti. Mi resi conto improvvisamente che il molo era l’unico luogo a non essere infestato dall’esercito di bisce; una specie di zona franca intoccabile. Le stesse sanguisughe che ancora avevo attaccate alle gambe stavano cadendo spontaneamente al suolo, morte. Alcune restavano appese ad una estremità, mentre l’altra penzolava, lasciando colare non sangue ma piccoli fiotti di minuscoli parassiti bianchi. Se la guida non avesse cominciato a parlare in quel momento, catalizzando la mia attenzione, probabilmente avrei vomitato, e sarei andato avanti per ore.

Per di là” disse la guida. “Puoi prendere la barca. In fondo al lago sfocia un affluente. Puoi risalirlo, se sei abbastanza forte da remare controcorrente. Seguilo finchè dura, o finchè finirai le forze. Se riuscirai ad arrivare in fondo, capirai meglio.

“Sempre dritto dici? E per quanto dovrò remare?”

Non posso rispondere. Tu ragioni per direzioni e misure, e queste cose nei sogni non hanno senso. Vai, e basta.

Spostai lo sguardo e osservai Zion, che era scesa all’argine e stava annusando tutto. Saltellava incurante di qua e di là, e tuttavia riusciva a non sfiorare mai nessuna delle innumerevoli bisce. Sembrava quasi non vederle, non accorgersi di loro. Stavo già pensando a come accendere un fuoco, a dove trovare dei rami spessi e lunghi da incendiare e usare per allontanare i serpenti dalla barca, possibilmente senza ridurla in cenere. Mi voltai di nuovo verso la guida, ma era sparita.

Non ne fui stupito. Cominciai a sentire uno strano odore come di carta bruciata, un odore che conoscevo: l’odore del risveglio che arrivava trasportato da un vento che esisteva solo nella mia mente. Mi concessi un ultimo, intenso sguardo alla barca, al lago, ai serpenti, alla strisciolina tremolante all’orizzonte che doveva essere il fiume di cui parlava la guida.

Poi chiusi gli occhi, e mi lasciai trasportare verso su.

Kire

Geografia del Disagio

Qualcuno cantava, distante. Non distingueva le parole, sembrava più una voce femminile, un po’ ruvida, che scivolava e risaliva lungo una melodia di qualche tipo, forse orientale.
Si affacciò al balcone, tentando di capire meglio, ma il vento si alzò all’improvviso e portò via con sè le note, nascondendole nell’aria, come polvere sotto un tappeto. Lasciò perdere, e tornò nella stanza.

C’era puzza, lì dentro. Odore di decomposizione.

Camminò lentamente intorno alla grande tavola imbandita. Si affacciò sopra lo schienale di ogni sedia, afferrando spalle flaccide e tirando su ricordi putrefatti e vestiti a festa, rimettendoli seduti composti, come dovevano stare. Ma non fece in tempo a finire il giro che il primo ricordo si era già afflosciato nuovamente, diventando una grottesca caricatura di sè stesso, un arazzo dai colori resi sbiaditi dal fumo di troppi incensi offerti. Sbuffò. Quei ricordi non significavano più nulla. Era stanco di giocarci. Girò i tacchi e uscì dal salotto della memoria, deciso a fare due passi per schiarirsi l’umore.

Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò davanti a due enormi vetrate verdastre, sporche ed appannate, macchiate qua è là di grigio e di nero. Una discreta folla bisbigliante stazionava davanti alle due aperture. Si incuriosì, e si alzò sulle punte dei piedi, cercando di vedere quello che succedeva fuori.
Rimase così per qualche mese, in preda ad uno sconcerto crescente. C’era una sola parola che riusciva a riassumere l’intraducibile orgia di segnali che filtravano attraverso il vetro, e quella parola era Follia. In ogni colore, lettera, numero, gesto, idea, sfumatura, innocenza, pericolsità, risata, lacrima, bisbiglio, urlo, silenzio, la Follia regnava smandibolando su un trono invisibile di corpi incatenati, idee vaganti, sabbia e saliva, rossastra e secca.

Rabbrividendo, come svegliandosi di colpo da un lungo sonno agitato, cominciò ad indietreggiare, sforzandosi per comandare le gambe ormai addormentate che minacciavano di farlo cadere. Salì su un treno a caso, con il solo impulso di partire, fuggire, allontanarsi il più possibile da quella diometrica realtà cacofonica di agglomerati di vita, giganti meccanici e dementi, vestiti con pellicce puzzolenti e stracci di speranza e

Si addormentò, durante il viaggio. Forse sognò qualcosa di migliore, ma quando il trenò si fermò cigolando e svegliandolo, già non ricordava più nulla. Scese e capì di essere vicino al cuore: tirava un sottile vento freddo, e ogni tanto il suolo era colpito da profonde vibrazioni, costringendo il confuso viaggiatore ad aggrapparsi ad appigli casuali per non cadere. Non c’erano entrate, o almeno non le vedeva; appoggiando l’orecchio alle pareti scure, fu piacevolmente pervaso da un vago tepore, e grande fu il disappunto quando lo strapparono via da lì per poi spingerlo giù da un ciglio, chiudendogli la testa dentro un sacchetto di nylon, e più cadeva e più mancava l’aria e più si alzava la rabbia e

e più ti incazzi più sei calmo e quella pelle è così diversa e riesci a vedere le cose come non sono e l’oceano mangia sè stesso e l’esplosione ti annienta e i sensi si dilatano per contenere il passaggio dell’universo e il primo respiro che fai è il primo respiro della tua vita, e a quel punto non te ne frega più niente di chi sei tu chi sono gli altri, lasciatemi morire, non lo so, ci vediamo dopo.

Quando si riprese, era disteso per terra. L’erba corta gli solleticava il collo, e quando si mise a sedere non capì dov’era, non c’era niente, non era giorno, non era notte. Sentì di nuovo quella musica distante, quella un po’ ruvida forse orientale. Si incamminò in quella direzione, un po’ stralunato, un po’ incuriosito, e chissà che fine fece.

Ki

Solo pochi metri

(Notte)
Questa volta è un ponte lungo e antico, sopra un fiume addormentato e nervoso.
Una strada asfaltata lo percorre, ma nessun altro percorre lei.
Lampioni sinuosi, con abiti di un altro secolo, mandano una luce calda e avvolgente, che fa il solletico al buio.

Il Buio sbuffa annoiato e si sposta a destra e sinistra, dove non ci sono altri lampioni, bloccando la nostra visuale, disinteressandosi di noi.
Alcune persone, forse cinque, forse uomini, si trovano sul marciapiede, appoggiate con i gomiti al parapetto di pietra, osservando il fiume che sonnecchia abbracciato alle ombre, solo pochi metri più sotto. Non li vediamo in faccia, ma sembrano vestiti in modo uguale. Le luci dell’argine illuminano i confini del fiume, ma il letto rimane oscuro, di un nero educato ed elegante.

Con calma, senza fretta, i cinque uomini salgono sul parapetto, e se ne restano tranquilli in piedi sul bordo, a guardare giù, pensierosi. Sembra che riescano a vedere qualcosa sulla superficie dell’acqua, ci sono effettivamente degli strani riflessi, ma indistinti e incomprensibili.

(Poco dopo, qualcuno.)

Una donna, molto bella, cammina emergendo dal Buio, quest’ultimo le lascia sugli abiti degli sbuffi di nero, che si scrollano di dosso come farebbero residui di neve. I capelli corti, umidi di tenebre, ampliano un’espressività sognante e astuta, rendendola bellissima.
Si avvicina a uno degli uomini e gli posa una mano sulla gamba, facendola scendere lentamente in una sospirata carezza. L’uomo la guarda e scende con riverenza dal parapetto. Si abbracciano, si baciano appassionatamente, le mani frenetiche che si rincorrono nei capelli.
E poi se ne vanno, abbracciati, immergendosi nel Buio senza timore.

(Qualcun altro.)

Un signore ben vestito, giacca cravatta e valigetta. Come la donna sbuca fuori dal buio, si avvicina, estrae un cellulare e compone un numero. Uno degli uomini si infila la mano nella giacca, prende il suo e risponde. Non sentiamo le parole. L’Uomo scende dal parapetto e si avvicina al Benvestito, ma nonostante siano uno di fronte all’altro continuano a parlare al telefono. Benvestito estrae vari documenti dalla valigetta e li mostra all’Uomo. Forse contratti, forse assegni. Discutono, senza parole. L’Uomo sembra convinto. Si stringono la mano con forza, e anche loro se ne vanno nel Buio, fianco a fianco, sempre parlando al telefono.

(Qualcun altro.)

Un tizio sporco e ciondolante, jeans malandati e felpa con il cappuccio, non lo vediamo bene.
Mima un fischio, uno degli uomini si volta e scende di scatto. Confabulano assieme, si guardano intorno di continuo, ogni tanto accennano un sorriso ma sembrano nervosi. Si passano qualcosa di mano. Se ne vanno ridacchiando di gran fretta, e per un solo momento scorgiamo sullo sfondo l’insegna luminosa di un locale, e poi tutto svanisce.

(Nessun altro.)

Solo il Vento, che si alza improvvisamente e vortica attorno ai due uomini rimasti. Delle cartacce iniziano a sfrecciare di fianco a loro, uno dei due si volta e se ne prende una in faccia. Lo esamina: è un volantino di qualche tipo, forse di un centro commerciale, vediamo e foto di computer, monitor, telefoni e prodotti vari. Annuisce, scende a terra e se ne va, sempre rimirando il volantino.
L’ultimo uomo sul parapetto si guarda attorno, realizza di essere rimasto solo, ora ha l’aria un po’ triste.

Più nessuna distrazione per lui, nessun impegno, nessun amore, nessun fondo da toccare, nessuna scusa che gli impedisca di fare i conti con Quello Che Non Conosce.
Solo il fiume sotto, che ora non sembra più così buio.

(Chissà se questo fiume sfocia nel mare, da qualche parte. Chissà se l’uomo sa nuotare; ora come ora, non riesce a ricordarselo.)

Forse ci sono dei riflessi, giù, che danzano silenziosi sulla superficie e mimano incomprensibili interpretazioni di copioni mai scritti, come se sott’acqua ci fosse un’altro mondo in attesa, impaziente, incoerente, invitante, pericolante.

Chiudo gli occhi. Salto.

Kire

Deframe

“Mentre scendevo lungo Fiumi impassibili, | Non mi sentii più guidato dai trainanti. | Pellirossa chiassosi li avevano inchiodati, | Nudo bersaglio, ai pali variopinti.”
A.Rimbaud

Oggi esco a fare una passeggiata, e ne approfitto per portare fuori la cattiveria a fare i suoi bisogni.

E’ irrequieta, la cucciola. Ultimamente non le ho dato molta attenzione, e lei si è fatta nervosa, iniziando a fare dispetti in giro per la casa.

Già sul pianerottolo la sento tirare e strattonare, tanto forte che quasi mi fa cadere. Serro la presa sul vecchio guinzaglio, logoro ma solido, e strizzo gli occhi. Non è il guinzaglio a preoccuparmi, piuttosto trovo inquietante la velocità con cui Catty è cresciuta ultimamente, sebbene si nutra solo delle solite crocchette- stronzate quotidiane. Forse è tempo di cambiare dieta.

Due passi fuori dal portone, e l’immobilità ci inghiotte. Da quando Lei ha evocato la sua magia più potente, il Silenzio, il mondo appare così. Immobile, sccch. Niente nani-panda in monociclo che sculettano cantando l’inno nazionale della Corea del sud. Niente cavallette assassine con la testa di neonato che mi inseguono sibilando mentre piloto la mia astrobicicletta verso le spiagge asfaltate del Solito.

Che palle. Fa freddo. Catty ringhia, non capisce, perde bavetta. Dai piccola, op, andiamo al parco.

Al parco ci sono due figure, una di fronte all’altra. Un poeta, e un demente. Giocano a scacchi, e le pedine sono in fiamme, ma loro non sembra scottarsi e applicano strategie con noncuranza, nel frattempo chiaccherano.

“La vita mi si è infranta sul capo, come la marea sugli scogli. Ancora adesso la sento gocciolare, impregnare le vesti dei sensi”
blatera il poeta

“Puoi essere più chiaro? Detta così sembra che ti abbiano rovesciato un secchio di sperma in testa.”
balbetta il demente

C’è una sorta di ridicolo potenziale, sti due mi ispirano. Per questo mi distraggo, e Catty si libera dalla presa.

Il resto è questione di secondi. Uno scatto, una fila di zanne argentate, rumore di pelle che si lacera.

I due giaccono riversi a terra, il sangue che scorre adattandosi tra i sassi, creando curiosi bassorilievi di vita sprecata.

Oops. Riacciuffo Catty, e mi guardo intorno preoccupato. Sia mai che qualcuno mi veda, mentre affogo i miei sogni. Via di qui, è meglio.

Incrocio qualcuno, poco dopo. Ma proprio lei? Ora?

La Bellezza in tutte le sue forme mi si avvicina e mi sorride. Mi racconta novelle del suo mondo, e queste prendono forma sulle sue labbra, e tutto in lei è talmente mozzafiato che quasi mi lascio andare, mi inebrio del suo profumo, e le ondulazioni dell’emozione nella sua voce mi fanno venire voglia di piangere, da quanto mi fa star bene. Per un secondo supero la soggezione e mi avvicino all’universo dei suoi occhi, ma poi sento ringhiare. Sento uno strattone, e il senso di pericolo tinge tutto di rosso.

(Vuoi divorare anche lei? Non sei sazio?)

Corro, corro via, corro fino a farmi esplodere il cuore. La cattiveria mi segue felice, la lingua penzoloni e la coda che gira a mille. Uuf. E ora dove cazzo siamo finiti?

Lì, in fondo, ormai ci sono le porte della fantasia, con i cartelloni illuminati da luna park che promettono montagne russe, case degli specchi, autoscontri e tricchetracche.

Mi frugo nelle tasche, in cerca di spiccioli. Sono fortunato, mi resta ancora qualche sogno, forse basta per entrare…e per comprare un po’ di zucchero filato per me, e un po’ di ingenuità per la mia cagnetta.

Dove sta il vero coraggio? Nel saper accettare la vita con i suoi limiti e contraddizioni, o nel volerne testardamente immaginare un’altra?

Giuro, non ne ho idea. Ma in fondo, chi se ne frega.

Sono solo sogni.

K

 

Solus Loquor

Diciannove e quarantadue.

Il treno parte proprio ora, e io me ne sto ancora seduto sulla scalinata fuori la stazione, a parlare di nuovi inizi e antichi finali con una vecchia amica.
Sullo sfondo, Venezia è qualcosa di strano, sembra una vecchia signora con un vestito elegantissimo e il viso deforme, ricoperta fino alle spalle da formiche asiatiche che trasportano teleobiettivi-briciola da dieci volte il loro peso.
Sembra voler fare l’indifferente, Venezia, ma quasi per forza, la vedo che mi controlla con la coda dell’occhio, lo so che mi ascolta. E qui da bravo antipatico io la pacco, chiudo il discorso sul più bello, e poi, ma non dovevo prendere un treno io?

Bacio frettolosamente la mia amica e inizio a correre verso il binario, i borsoni e le borsette di birre che saltellano e mi sbattono addosso tintellando (….tintell..are? Esiste?).
Zion, la mia cagna, mi trotterella dietro, il guinzaglio che striscia sulle mattonelle, le unghiette che fanno tikitik, ehy, ci sono anch’io, ma guardatemi che figa che sono, c’ho settant’anni io, tikitik, tikitik.

Fermo una carinissima… (Controllora? Controllice? Cosa succede oggi all’italiano?)

Fermo l’OPERATRICE DI CARROZZA mentre sta salendo e chiudendo le serrande, e salto su, op.

Lei guarda prima la tuba, poi me, poi Zion, con un’espressione tra il divertimento la pietà la malizia, e mi ammonisce sorridendo, la mia divoratrice di cuori dovrebbe portare la museruola, lo sapevo?

“Cara, è più probabile che ti morda io”

Sai mai, a volte funzionano, ste battutelle da telefilm argentino. Però ora che la guardo meglio non è che sia mica così così carinissima. Beh, magari è splendida dentro. E sicuro ha un bel culo. E poi tanto mentre penso a ste stronzate lei se ne è già andata. Tutti contenti.

Il treno parte, butto la roba in un angolo e me stesso su una poltronetta.
Tempo ce n’è, stanco sono stanco, il cane fa la guardia, facciamoci un giretto di là.

Chiudo gli occhi.

Drin drin, telefono. Rispondo ed è una cara amica che non vedo da una vita ( sì, un’altra, ho un sacco di vecchie amiche, posso?). Dal tono sembra davvero giù, ma non mi dice che ha. Decidiamo di incontrarci, lo facciamo in una casa che mi sembra familiare ma non metto a fuoco.
Ah questa poi, ecco perchè è giù. Gli manca la gamba destra, amputata all’altezza della coscia. Il motivo non si sa, né io mi ricordo di chiederlo. Penso solo ad abbracciarla e consolarla, gioco ad acchiappare le sue lacrime con le dita e le labbra, e neanche a dirlo finiamo a letto ed è strano, facciamo l’amore piano, piangendo, tutti e due, e paradossalmente lei non è mai stata così brava, ed è bellissimo. Poi lei si addormenta, ed io mi sento improvvisamente di troppo, è come se avessi svolto il mio ruolo e bon, è tempo che la lasci.
Esco, e camminando per strada vengo affiancato da un’automobilona scura che procede a zig zag, che mattacchioni. L’auto si ferma e ne escono dei tizi ben vestiti e palesemente ubriachi e attaccabrighe.
Mi sanno da poliziotti, forse in borghese forse fuori servizio, boh. Cominciano a provocarmi malamente, e dio che fastidio, ci son poche cose più tristi di un ubriaco che si atteggia a gran figo. Me ne sto zitto ma mi tendo tutto, corpo e mente, pronto a scattare. In quel momento, sbucando dal buio dei sedili posteriori, la figura di mia NONNA spunta fuori. E’ tutta truccata in ghingheri, ed è sbomba di alcool pure lei, e urla “Oh cazzoni! Che, è mio nipote quello! Che è un bravo ragazzo, un attimo strano, ma lasciatelo stare che se no che se no…” e qui RUTTA, ma di gusto proprio, e dai non ce la faccio, scoppio a ridere, e con me i cazzoni.
Tutti amici, ora: gli ufficiali son tutti contenti e mi danno grandi pacche sulle spalle, e mi dicono sali sali dai andiamo a bere, declino gentilmente e riprendo per la mia strada, ma pensa te.
Continuo a camminare e mi ritrovo a seguire un fiume, mi siedo sull’argine e mi godo il paesaggio. Forse sono triste, forse no, non capisco. Vorrei che ci fosse qualcuno con me ora, eppure anche da solo mi sento bene. Mi sembra quasi di essere egoista, a gustarmi questo bel momento da solo. Il mio cervello forse mi sente, perchè materializza una specie di ventilatore parlante, alto e bianco, che mi si piazza di fianco. Di cosa mi parla non ricordo, però ogni volta che si gira verso di me mi investe di leggere folate d’aria, non realmente fastidiose, ciononostante gli dico scortesemente di andarsene, o almeno di girarsi dall’altra parte.
Il ventilatore si mette a piangere, non chiedetemi come, so solo che schizza acquamatta dappertutto attraverso le pale in movimento. Butta invece l’aria dall’altra parte smuovendo l’erba, e singhiozza duro, io mi sento un po’ in colpa, dai dai su piccolo coso delonghi, scusami va tutto bene dai, ssccch.
“Sono una cosa inutile”, mi dice (credo), “tutti mi cercano per alleviare un po’ il calore, ma è un trucco, il calore non se ne va, resta! E quando se ne va davvero, vengo dimenticato. La gente ama quello che faccio, non me. Sono così inutile!”

“Mi sa che quello che fai è quello che sei”, rispondo (credo), “almeno in quel momento. E se sai fare solo quello, vedi di abituartici. Frignare perchè non sei amato è patetico, è come piangere perchè qualcuno non ti regala il mondo. Impara piuttosto ad amare un po’ quello che fai, a non fare male agli altri, e soprattutto impara a farti i cazzi tuoi.”

Il coso ora non schizza più acqua. Si gira lentamente verso di me, mi scompiglia i capelli, mi guarda con quell’espressione intensa che solo un ventilatore triste può darti.

“Ma con chi stai parlando?”

“Come con chi sto parlando, ebete di un giravento, sto parlando con…”

Qualcosa di ruvido mi lecca la mano, un avvertimento. Subito dopo qualcos’altro mi batte sulla spalla, un vocione roco si fa strada tra i miei sensi, mi risucchia via da Efemeride, mi riporta in quest’allegra fogna che tutti amiamo e odiamo e la la la.

“Buongiorno. Biglietto, per favore.”

Kires

Duyfken

C’è la periferia, e io ci cammino.

C’è qualcuno con me, che strani amici. Uno è una specie di nano, anzi no, è solo uno molto basso. Potrebbe essere anche un bambino, ma qualcosa nei suoi occhi è troppo vecchio. Ha i capelli rossi e corti e una maglietta arancione, e parla a manetta tutto contento, gesticolando. Cosa dica non ne ho idea, non capisco. Poi c’è un’altra figura bizzarra. E’ una specie di macchina fotografica, grande come un pallone da basket. E’ formata da una sacco di parti tecnologiche moderne, tasti, schermi, tanto quanto da ciarpame steampunk, vecchie molle arruginite, grossi ingranaggi di orologi che ticchettano. Come braccia e gambe ha dei sottilissimi steli di filo di ferro, che la fanno muovere lentamente e goffamente, in un modo che suscita simpatia. Anche lei parla, da una bocca che non vedo, e parla con le note di un pianoforte, una melodia veloce ed allegra, da saloon.

Questo posto sembra un po’ il mio paese, ma anche no. C’è questo bar piccolino che si chiama Riverside. Al suo fianco c’è davvero un fiume, anche se forse è più un rigagnolo di sputo rimescolato largo pochi metri. Entro nel bar, accompagnato da quei due strascichi del mio subconscio.

Dentro ci sono una barista e pochi clienti, tutta gente che conosco di vista ma con cui non ho nessun rapporto. Alcuni di loro li ricordo, mi bullavano a scuola da ragazzino. Ora è tutta gente che nella vita reale mi guarda e saluta con una sorta di curioso rispetto, nonostante non abbia mai sprecato più di un ciao annoiato per loro. Và a capire la gente.

Ho voglia di un caffè, scavalco il bancone e me lo faccio da solo. Il nanetto si arrampica sul frigo dei gelati e comincia ad abbuffarsi di cornetti e ghiaccioli. La fantareflex si mette a flirtare con il registratore di cassa, pianeggiando lenta una ballata d’amore. La fa aprire con un DIN!, e le sfila tutti i soldi. Se sia una metafora di qualcosa, non ne ho idea. Quando facciamo per uscire, la barista mormora qualcosa timidamente, forse a riguardo dei soldi e delle consumazioni da pagare. A questo punto piazzo una battuta che fa piegare tutti, barista e clienti. Ci danno dentro proprio di gusto, si sganasciano battendo le mani sulle coscie, ha ha, che sagoma. Dev’essere stata una battutaccia tosta. Per fortuna non la ricordo. Esco in strada.

Dopo pochi passi, incontro Slon. Sì proprio il farlocco che scrive qua su sto blog. E’ vestito a festa, elegantissimo, e questo mi fa rendere conto all’improvviso che anch’io sto tirato a figurino, belle scarpe, pantaloni neri gessati, camicia giacca e cravattone da serata di gala. Slon mi dice che passava di la in auto. Facciamo un giro? Ha una Diane due cavalli che è un pugno in faccia, nera e gialla canarino. Ha solo tre sedili, due davanti dove ci piazziamo noi, e uno dietro dove si sistema il rossonano con la fantareflex in braccio. Partiamo, il motore fa un casino boia e sembra avere le convulsioni, ma almeno cammina. Mentre usciamo dal parcheggio del bar, vediamo un cazzo di transatlantico navigare nello sputofiume, buttando fuori enormi sbuffi dalle ciminiere e suonando una specie di clacson potentissimo.

Lo seguiamo in auto per un po’, urlando e lanciando sogni dai finestrini, poi le strade si dividono. Ci fermiamo in un parco, vicino a delle panchine. Ci sono un po’ di sconociuti e una tizia che conosco, sta tracciando con le dita qualcosa nell’aria, piccoli simboli che restano fluttuando nello spazio giusto pochi secondi, e poi scompaiono. Ricordo una specie di triangolo, con con una spirale ondulata che parte salendo dall’angolo superiore. Penso al greco antico.

E poi, tutto cambia. Tutte le cose, tutti gli odori, le immagini, si fondono insieme per un attimo, e c’è un viso che sorride, ma è un sorriso teso, dispiaciuto.

E poi tutto si scompone ancora, in altri suoni, altre superfici, altri personaggi, altri pupazzi di parole.

Ma questa è un’altra storia.

K

Frequenze

Mi trovo a Praga, a casa mia, in un appartamento diverso da quello attuale, distante dal centro e differente negli interni. Un loft sobriamente arredato, così bianco in tutto da bruciare la retina.
Il tetto inclinato da mansarda con i suoi finestroni spioventi sembra volerci ricordare che può caderci in testa in ogni momento, ma non lo fa perchè gli stiamo simpatici.

3 cari amici mi sono venuti a trovare in auto dall’Italia. Mi trovo con loro nel soggiorno a bere e
chiaccherare, con noi ci sono anche la mia attuale coinquilina irlandese e un’altra tipa che conosco,
e che non so bene cosa ci faccia qui. Le due ragazze stanno tutte in tiro, ben truccate e vestite per la serata imminente: parlano con noi, seguono i discorsi e non dicono stronzate, ma hanno un modo così “gratuito” di fare le brillanti che dopo un po’ cominciano a venirmi a noia. Inizio a fare facce da mentecatto in codice ai miei amici, che capiscono al volo. Pochi minuti dopo siamo in macchina, diretti verso il centro.

Ora, il sistema stradale di Praga può essere un po’ disiorientante, soprattutto se non sai bene dove andare e c’è un traffico da esodo biblico, con Mosè alla guida di una skoda usata in testa alla colonna, che suona selvaggiamente il clacson e bestemmia nelle sue strane lingue da antico testamento.

Ma noi non abbiamo voglia di rimanere bloccati nel traffico. E poi siamo UBRIACHI.
Svoltiamo e entriamo con l’auto in un parco pubblico, parte una bizzarra sequenza alla die hard 3,
con noi che guidiamo sui sentierini di ciottolato e la gente che si scansa urlando.
C’è un senso di velocità tremendo, anche se in realtà andiamo abbastanza piano perchè non vogliamo ammazzare nessuno. Ben presto lasciamo il parco e ci infiliamo in vicoli strettissimi, sempre più minacciosi, finchè non restiamo praticamente incastrati tra due muri con gran stridio di lamiere e scintille, e dobbiamo uscire a stento attraverso il tettuccio. Continuiamo a piedi, siamo nei pressi del vecchio quartiere ebraico.

Per strane ragioni anche la camminata è difficile, ci sono ovunque cancelli e parti di inferriate antiche che non hanno realmente motivo di esistere, stanno lì solo per rompere i coglioni. Spesso dobbiamo abbassarci, contorcerci e addirittura strisciare per uscire da questa zona di ancestrali tentacoli arrugginiti, ma alla fine ci ritroviamo finalmente sull’argine del Vtlava, tutti graffiati e bestemmianti, ma ancora euforici.

C’è un ristorante in una grossa barca ormeggiata alla riva, decidiamo di entrarci, lo facciamo
da un’entrata secondaria, saltando dall’asfalto al retro dell’imbarcazione.

Curiosando all’interno, troviamo una scala a chiocciola, ma non la classica “rotonda”:
sono piccoli gradini rettangolari, 3 o 4 per lato, che salgono su loro stessi. Non c’è parapetto.
Se guardiamo su, possiamo vedere la fine al prossimo piano; se guardiamo giù, cristo santo.
La scala scende per decine e decine e decine di metri verso il centro della terra, ogni piano è illuminato così che possiamo gustare ben bene la profondità, anche se a furia di guardare la conformazione delle scale comincia a scherzare con le nostre percezioni, comincia a girare tutto, l’assenza di parapetto non aiuta.

Sono colto da uno svarione, ho paura di cadere: mi stacco di botto da quell’ipnotica visione e mi dirigo verso la sala principale del ristorante. E’ abbastanza piena, la gente cena tranquilla. Un cameriere di colore, rasato e ben vestito di nero ma con uno sguardo duro e inquisitorio, mi chiede se può aiutarmi, ma io voglio solo un po’ d’aria e mi dirigo fuori dalla sala verso la prua, dove c’è una terrazzina. C’è una passerella che corre sui due lati della nave, anche questa senza parapetto.
Mi metto sul bordo dal lato dell’argine, cercando di respirare con calma. Il cameriere mi raggiunge,
si mette al mio fianco, mi dice qualcosa che non ricordo. Improvvisamente la barca si INCLINA mostruosamente dal nostro lato, quasi si adagia completamente su un fianco, ricordo un frammento della faccia spaventata del cameriere.
Potrei semplicemente fare un piccolo salto dalla passerella alla terraferma, ci sarà sì e no un metro di distanza, ma per qualche folle motivo decido di sfidare morte e gravità, cercando di ritornare dentro la sala, aggrappandomi ad ogni cosa. Non so se per merito mio o per misericordia divina, fatto sta che la barca si risistema e torna alla sua posizione originale, alzando sbuffi di acqua schiumosa tutto intorno. Dentro la sala è un macello, tutto quanto è rovesciato, ma la gente sembra stranamente tranquilla. Il cameriere mi raggiunge e con aria mortificata, mi dice di portare pazienza, che ogni tanto succede. Lo mando affanculo e torno a camminare sulle strade, mi rendo improvvisamente conto che ho perso gli altri. Vago senza meta, e ormai l’alba si stiracchia, sbadigliando senza fretta.

Mi ritrovo davanti ad una strana costruzione grigia ferro di una ventina di metri di altezza, sembra un lampione gigante, ma senza il vetro e la luce alla sommità. La base è più grande, e via via che sale si assottiglia. C’è una porta chiusa, grande ma “mimetizzata”, dello stesso colore della facciata.
Di fianco alla porta, appeso ad altezza testa, c’è un blocco di post-it colorati, e sulla prima nota
c’è scritto qualcosa in una lingua che non capisco. Lo strappo via e me lo metto in tasca. Apro e osservo. L’interno, circolare, non ha nessun tipo di arredamento o oggetto, c’è solo paglia sparsa
per terra, odore di urina, e una persona raggomitolata in fondo. La scruto e mi rendo conto di conoscerla, è la ragazza di un mio amico. Appena entro la porta si chiude alle mie spalle, buio totale. Neanche tento di aprirla, so istintivamente che non funzionerà. Tento di parlare con la ragazza e chiedere spiegazioni, ma non risponde. Dopo un tempo di disagio relativamente breve, la porta si apre e la luce ci abbraccia vivace. All’entrata c’è A., il ragazzo della tizia. E’ vestito normalmente, ha una macchina fotografica appesa al collo con un laccio, e non ha per nulla un’aria stupita.
Fuori parliamo. Mi dice che si trovano lì in ferie, che mi aveva visto entrare da lontano,
e che quel bizzarro lampione è una sorta di antica tradizione, un posto dove la gente
entra volontariamente a riflettere, è l’unico modo per uscire è che qualcuno all’esterno
scriva la tue peggiori paure sul post-it, e che poi lo strappi. Non conosco A. così bene, quindi
è parecchio strano che sia al corrente delle mie paure più inconsce, ma nel sogno non gli chiedo nulla, sono solo riconoscente di essere fuori.

Nel frattempo la tizia ha ritrovato verve e buonumore, ciancia a raffica, e noi tre cerchiamo un bar
per fare colazione. Ne troviamo uno all’aperto sempre sulla riva del fiume, un grande tavolo con
una panca a u intorno e delle pareti di legno ricamate, con dell’edera rigogliosa che cresce
attraverso i l’interno dei rombi che costituiscono la trama. Ci sediamo e ordiniamo da bere,
alcool, arrivano 4 donne vestite in minigonna top e giacchetta. Una è giovane, le altre tre sulla cinquantina.
Non sono particolarmente belle o interessanti. Vogliono a tutti i costi sedersi con noi,
nonostante tutti gli altri tavoli siano liberi. Evabè, ci stringiamo e facciamo spazio.
Dopo un po’ cominciamo a essere tutti un po’ brilli, soprattutto la tizia del mio amico,
che comincia a darmi un po’ fastidio. Un poco per i discorsi senza senso che fa, nella foga
del vaniloquio insulta un po’ tutti. Senza neanche rendersene conto, mi butta la cenere della
sigaretta nella birra, scalcia, è petulante, rovescia dei bicchieri addosso a tutti e soprattutto a me.
Mi alzo in piedi fradicio, eccheccazzo, lei continua a ridere e nemmeno chiede scusa.
Mi guarda sprezzante e mi dice una cosa tipo: “embè? Il mio ragazzo ti ha salvato”.
Il mio amico mi sembra tranquillo e distante, pensa ai cazzi suoi, non partecipa al circo.
Le tipe sconosciute se la ridono. Insomma, colazione alcolica con circo di puttane arroganti,
io mi rompo. Saluto A. e me ne vado.

Cerco di ritrovare la direzione verso casa, ma dopo un po’ si alza improvvisamente
una nebbia fittissima, che abbraccia ogni cosa con una velocità assurda.
Non mi sento impaurito, anzi sono a mio agio. Comincio a sentire voci nella nebbia,
vicine e distanti, sussurri e toni alti, ma mai minacciosi. Alcune le capisco,
altre sono in lingue che non conosco. Non si rivolgono mai direttamente a me,
parlano tra loro, è come se stessi captando ogni dialogo in svolgimento nella città.

Continuo a camminare tranquillo in questo streaming mistico di voci sconosciute, e mi sento bene.

Kires

Vento

Lo scenario è una grande, anonima metropoli, di giorno.

Ci sono un sacco di palazzi e grattacieli, dita grigie e stanche puntate contro un cielo limpidissimo e dalla coscienza a posto.
Sono sospeso nell’aria, altissimo, e anche senza vederla riesco a percepire una presenza sopra di me, camuffata tra le sfumature colorate dell’infinito.
In qualche modo sento che è INCAZZATA, una divinità folle e rabbiosa che mi fissa e mi giudica in silenzio. E che poi, si sfoga.
La gravità si sveglia, comincio a cadere nel vuoto, forse urlo. Qualcosa mi prende e mi rilancia verso su, con una forza inaudita.
E così comincia uno stranissimo giro in giostra, con io che vengo sballottato su, giù, a destra, a sinistra, esploro a velocità folle ogni forma della Direzione, uno yo yo umano e boccheggiante appeso al dito di un Dio ghignante in preda alle convulsioni.
Va avanti per un tempo indefinito, fino a quando ogni cosa e percezione di essa comincia a vorticare in uno sfondo bianco-grigio informe, e l’unica cosa che riesco ancora a sentire è il vento, negli occhi, nelle orecchie, sulla pelle attraverso i vestiti.
Vengo lanciato contro la facciata di un palazzo, infrango le grandi vetrate a specchio e finisco a scivolare su un lucido pavimento, il tempo si ferma per un attimo: riesco a scorgere distintamente gambe di sedie e scrivanie, qualche brutta pianta, e ovunque piccole gocce luccicanti di vetro infranto che ancora planano verso il suolo. E poi, si ricomincia.
La forza divina, o quello che è, mi reclama a giocare. Scivolo indietro, sono di nuovo nel vuoto, di nuovo su e giù di qua e di là
Di nuovo mi ritrovo a ingoiare il mio stesso respiro, tango epilettico delle percezioni, amplesso cieco nelle braccia del vento, inconscio che grida senza riconoscere le sue parole.

E basta, non c’è un finale. Si vortica, si balla e si ansima.
Fino a qui tutto bene.

Kiree

Dentro.

C’è questo posto. Questa specie di palazzo. E’ curioso.

E’ grande grande grande. Nonostante l’abbia in gran parte costruito io, ci sono ancora un sacco di stanze in cui non sono mai entrato. Stanze grandi, disordinate, in cui non ho ancora allacciato la luce, e in cui mi devo muovere a tentoni, accarezzando scatoloni chiusi pieni di cose bellissime.

O terribili.

Quello che conosco invece, mi piace come è arredato. Una stanza a tema per ogni stato d’animo.
All’interno, o forse dietro non so, c’è un giardino molto grande: di solito ci vado all’alba, a passeggiare quando mi sento bene. Alcune parti sono molto ben curate: sentierini, aiuole, simmetria. Ci sono siepi e sculture d’erba, piccoli animali di siepe, costellazioni, strani oggetti.
Ma la parte che preferisco è quella in fondo, selvaggia, con l’erba bagnata di rugiada che arriva alle ginocchia, e un filo di nebbia perenne che sfuoca l’orizzonte.
C’è una terrazza capovolta, dove vado a pensare quando sono confuso: da lì guardo il mondo al contrario e cerco i immaginarmelo con la stessa mia gravità. Ma non è facile, e il più delle volte me ne torno in casa con un mal di testa biblico.
C’è una stanza che contiene l’oceano, tanto quanto posso percepirlo.
Comincia da una spiaggia totalmente bianca e immacolata. Qui è dove vengo quando sono davvero al limite, incazzato o frustrato. Non molto spesso, devo ammettere. Qui è dove vengo quando i miei problemi, le mie paranoie, i miei incubi raggiungono l’apice, e non sono più gestibili o rimandabili.
Qua è dove li combatto: faccia a faccia occhi negli occhi e denti nella carne se sono problemi veri, o mettendoli in ginocchio e finendoli con un colpo alla nuca, se sono solo seghe mentali.
In un grande salone ho allestito un cineforum d’essai, in cui posso sedermi tranquillo e visionare con calma ogni idea o viaggio mentale mi stia galleggiando grezzo nella mente. Lavoro sul montaggio mano a mano che il film scorre, aggiungo tolgo e modifico, mi emoziono applaudo o critico come se fosse sempre la prima ufficiale.
C’è una cantina, da qualche parte, sopra o sotto. Ci si arriva tramite un complesso sistema di scale male illuminate. Ospita una specie di antica fornace che lavora costantemente e riempie l’ambiente di quello che può andare dal gradevole calore al caminetto dell’inferno. Qui ci vengo di nascosto stando attento che nessuno mi segua quando ho freddo, quel tipo di freddo emotivo che mi rende insofferente e nervoso a qualsiasi tipo di vento esterno. Qui mi accoccolo tra vecchi sacchi di yuta, rabbrividendo di calore puro e ancestrale, completamente indifferente alla temperatura del Mondo di Fuori.
Ed è qui che mi fermo un po’ a riscaldarmi, ora.

Kiree