L’opinione del vento

Un crepuscolo di un numero incomprensibile di anni fa, dentro una realtà in fondo non così diversa dalle altre, un giovane artigiano vagabondo di nome Antes raggiungeva arrancando la cima di una delle ventuno colline deformi che appannavano gli orizzonti della città perplessa, conosciuta anche con il nome di Aequum.

Antes era una creatura che aveva conosciuto molti passi, ma non si era mai ancora avventurato negli interrogativi delle Regioni Annerite, di cui Aequum faceva da capitale e ambasciatrice. Si era ritrovato da quelle parti più per caso che per reale interesse o necessità, e ora emozioni contrastanti bagordavano nel suo stomaco mentre da sopra la collina osservava lo spettacolo incerto della città perplessa al tramonto. I suoi occhi rincorrevano la luce che inciampava sui contorni sfuggenti di tetti e torri, mentre i suoi pensieri ritornavano a una conversazione avuta appena la notte prima con un neonato di passaggio, ai piedi della collina.

“Sei diretto in città.”, aveva inciso il neonato nella sabbia, usando un ramoscello, “Spero tu sappia quello che fai.”

“In realtà non ne ho idea”, aveva risposto Antes, mentre accendeva un piccolo fuoco schioccando le labbra. “Credo di essermi perso. Vengo da Quartapelle, nel nuovo nord. Viaggio cercando lavoro, ma senza una precisa destinazione. Sono capitato qui.”

Il vento fantasma urlava con ferocia mentre le due figure si accoccolavano davanti al fuoco notturno. Non un filo d’aria minacciava le piccole fiamme: solo lo spaventoso lamento dell’aria immobile, che riusciva a stordire i viandanti anche attraverso i pesanti cappucci ricuciti.

“Sembri un ingenuo”, continuò il neonato, questa volta sollevando lingue di fiamma e formando piccole parole dentro di esse, “quindi lascia che ti parli come si parla a uno di loro. Questa notte è la festa di finetempo. Questa è la notte in cui a speranze, dubbi e follie viene data la possibilità di manifestarsi nella carne e finalmente morire, per dare spazio alla nuova generazione di grida e sussurri. La Configurazione dei sogni è sospesa: non è un buon momento per cercare qualcosa diverso dal caos. Ritorna fra qualche giorno, quando i bagordi saranno finiti e i cadaveri raccolti.”

Antes ascoltò con rispetto e avrebbe voluto saperne di più, ma la litania del vento crebbe d’intensità, stritolando parole e pensieri. Il neonato d’altronde si era già coricato, dandogli le spalle e addormentandosi all’istante. Antes tentò di fare lo stesso, ma era ormai troppo tardi: qualcosa di familiare e irrazionale gli stava artigliando le viscere tirandole contemporaneamente in tutte le direzioni. Rivolse gli occhi al cielo e ai suoi abitanti, e passò il resto della notte ad ascoltare le opinioni del vento che non c’era.

Entrare in città fu spaventosamente facile. Nessuno badava a nessuno nella vivace confusione che baccanagliava nelle strade. Nulla era immobile ad Aequum; non solo abitanti e forestieri, che si affannavano a scappare o rincorrere assurde creature di ogni e nessun tipo; perfino strade, mura ed edifici scivolavano con grazia su loro stessi, unendosi in coreografie impossibili di mattoni e tegole e ciottoli, creando vertiginose geometrie in continuo mutamento. C’era effettivamente un’atmosfera di gran festa: tutti sembravano su di giri in una maniera o nell’altra. Antes andò a sbattere contro un basso ometto e quasi si incendiò la faccia sull’enorme candela accesa che gli spuntava dal cranio. Fece per scusarsi e notò che l’ometto-candela stava in groppa a un vecchietto a quattro zampe, con uno smisurato sorriso dipinto in faccia. La coppia trotterellò via ciscinchiando insieme in una lingua sconosciuta, che ricordò ad Antes il crepitio delle foglie che bruciano. Poco più in là, una donna avvolta in larghi strati di seta verde ballava appassionatamente con quella che pareva essere un’enorme lisca di pesce, giallastra e puntellata di sparuti ciuffi d’erba. Piccole creature a metà tra un felino e una scimmia saltavano allegre sulle spalle dei passanti, inseguite da un piccolo gruppo di bambini sporchi e senza denti. Antes rimase particolarmente affascinato da una giovane coppia che ballava un tango a bordo della strada principale, senza curarsi delle rispettive ombre che nuotavano libere sulle mura alle loro spalle, rincorrendosi e abbracciandosi ed esplodendo in fiori di buio. E poi, la calle dietro di loro voltò improvvisamente a destra, incurvandosi e formando una ripida salita che portava all’entrata prima inaccessibile di un edificio cilindrico ricoperto da finestre luminose di ogni forma e dimensione. La folla magnifica e bestiale cominciò a spingere con entusiasmo verso quella direzione, e Antes decise di farsi da parte per vedere cosa sarebbe successo. Ritiratosi nell’ombra calda di un vicolo laterale, avrebbe potuto benissimo restare lì tutta la notte, contemplando quel fantastico addio alle carni. E quasi si mozzò da solo la lingua, quando il vicolo girò su sé stesso e sprofondò nel terreno, riportandolo senza nessun motivo centinaia di metri più indietro, al principio della strada principale, ora deserta. Sembrava che tutta la città si stesse muovendo verso la strana torre. Fu in quel momento, grazie al silenzio, che Antes si accorse che qualcosa lo stava seguendo. Solo pochi metri più indietro, un esile profilo si muoveva goffamente dentro le pennellate di oscurità tra i lampioni ad olio. Improvvisamente, la stessa potentissima sensazione di fuoco rabbioso che aveva provato la sera prima, e ogni sera prima di quella, tornò a riempirlo; ma questa volta, invece che provenire da dentro, era emanata dalla figura nascosta.

“Chi sei? Fatti riconoscere.” chiese Antes, che pure credeva di conoscere già la risposta.

La figura avanzò, con le movenze di un randagio affamato. Era uscita dall’ombra ora, eppure in qualche modo sembrava ancora indefinita, come se la luce gli scivolasse addosso per poi gocciolare a terra. Antes riuscì a scorgere un viso vagamente femminile, ricoperto da intricate spirali che avrebbero potuto essere tatuaggi o cicatrici. Lunghi capelli del colore dell’autunno fluttuavano attorno al suo viso effimero e bellissimo, e un paio di occhi neri come gli abissi lo stritolavano in uno sguardo che decapitava il respiro.

“Parla!” esclamò Antes, “Dove sono diretto? Che cosa sto cercando?”

La figura rispose, ma non attraverso parole. Frammenti di codici primordiali attraversavano l’etere, colpendo il centro perfetto dell’anima di Antes.

“A est. Cercami a est. Non lasciarmi andare.”

“Dove…”

“NON LASCIARMI ANDARE”

Antes e il suo sogno si unirono in un abbraccio furioso e tenace, e così restarono, immobili, fino al momento in cui i primi timidi raggi dell’alba cominciarono a filtrare dalla sommità dei palazzi. L’esile figura dal viso bellissimo non si muoveva più ora, e sembrava caduta in un sonno delicato e silenzioso. Meno di un’ora dopo, Antes era uscito dalla città. Aveva raggiunto la cima di una delle colline, e si concesse un ultimo sguardo alle spalle. Perfino da li sopra, poteva scorgere la torre cilindrica e la strada principale, seppellita sotto centinaia di minuscole sagome immobili. Sospirò, chiedendosi che cosa fosse la sensazione completamente nuova che si stava facendo strada dentro di lui.

Scrollò le spalle, e si diresse verso ovest.

Kire

Con tutta la gentilezza (IV)

(Prima, durante, forse dopo, in ogni caso mai)

 (O, detta meno da stronzi, uno sguardo alle “puntate” precedenti)

 – Il Legale e il Randagio

(Frammento di interrogatorio. Origine: sconosciuta. Dagli archivi della prefettura contro i Crimini Universali, sezione: Uso improprio della ragione)

GRANTON: “Quindi…anche se non mi vuoi dire da chi, si può affermare che la cosa fosse stata organizzata.”

D: “Sì, direi, assolutamente, perlomeno nei primi stadi. Che poi la situazione sia sfuggita di mano…e poi conclusa in un modo così improbabile…intendo, è un altro discorso. Un discorso impegnativo, se mi capisci. Ma tutti noi eravamo lì per un motivo ben preciso.”

G.: “Lavoro.”

D. (alza le spalle e fa una smorfia, come se non gli piacesse la parola) “Come ti pare.” (pausa) “Sì, puoi scrivere così. Non è completamente esatto, ma non abbiamo tempo per fermarci su ogni parola. La vostra lingua è facile da imparare in sè, ma voi usate le parole in modo strano, cambiate il loro peso di volta in volta per motivi che non comprendo. Lavoro. Andiamo avanti.”

G.”Dove si è svolto esattamente lo scambio, e come?”

D.:”In una città chiamata Praga. Non ne avevo mai sentito parlare, prima. So che c’erano dei problemi in quel periodo…una specie di…” (gesticola in modo interrogativo)

G.: “Certo. La crisi, i disordini. Il ventidue fu proprio l’anno in cui il primo Default fu ufficializzato in quasi tutta Europa. Non ricordo scontri particolarmente duri a Praga, ma la situazione non doveva essere di certo rilassata…”

D.:”In realtà la città era abbastanza tranquilla, e non avemmo problemi di nessun tipo sul piano convenzionale. Lo scambio avvenne in una zona povera fuori città, con molte case alte tutte uguali. Pare che non ci fossero più…risorse…risorse?.”

G.:”Vuoi dire servizi. Probabilmente avevano già interrotto luce e acqua, in periferia.”

D.:”…Sì. Credo. In ogni caso per questo molti avevano abbandonato le loro case. La zona era quasi totalmente disabitata, fatta eccezione per un po’ di vagabondi qua e là. Quasi tutta la mia squadra attendeva in una di quelle case alte e vuote.”

G.:”Quanti eravate?”

D.:”Cinque.  Anche troppi per una…per un lavoro così semplice. Non farò nomi. Io, un canefinto e un temporaneo eravamo di scorta, dovevamo solo assicurarci che nessun estraneo intervenisse. Un uomo, uno dei vostri, faceva da interprete. Un Sicaridaee era incaricato di contattare discretamente il passeggero e portarlo da noi. Ci riuscì. Ci riescono quasi sempre. Aspettavamo loro.”

G.:”Chi era il passeggero?”

D.:”Non ne ho idea. Uno scrittore di qualche tipo, nessuno di importante, all’apparenza. Dovresti chiedere a qualcun altro, io non mi interessavo mai dell’identità dei passeggeri.”

G.:”L’avevate fatto molte altre volte?”

D.:”Sì, certo. Abbastanza da farmi venire tutto a noia e abbassare la guardia. Questo fu forse uno dei motivi per cui non reagii prontamente come avrei dovuto, anche se in fondo non avrebbe fatto nessuna differenza.”

G.:”Cosa andò storto, esattamente?”

D.:”Ecco…come ho già detto, qui la storia diventa complicata. Se mi capisci.”

(Il resto del documento è occultato.)

– Lo Scrittore e il Sicaridaee

Dopo la nostra conversazione in auto, dal mio strano accompagnatore non uscirono più parole nè suoni. Del fatto dei suoni, mi accorsi solo più tardi. Eravamo nell’atrio della palazzina. Non c’era illuminazione ma la tracotante luna piena, i frequenti lampi e il fatto che molte finestre fossero infrante o solo rimaste aperte facevano sì che potessi vedere e muovermi senza problemi. Il canto rauco della pioggia nascondeva sotto di sè un silenzio assoluto che da solo sarebbe stato più che inquietante. Lo strano uomo dal vestito impeccabile e dalla pelle quasi bianca mi precedeva salendo le scale strette, e fu solo allora che mi accorsi che non portava scarpe, e che muovendosi non produceva il benchè minimo rumore, nemmeno quando i suoi piedi quasi bianchi si immergevano in una pozza d’acqua sotto una finestra o spostavano qualcuno dei rifiuti umidi che rivestivano gli scalini. Del sarcasmo sprezzante che avevo sfoggiato in auto non c’era più nessuna traccia, mi trovavo ora preda di una sensazione di dormiveglia, di distratta, tiepida irrealtà. Salendo, cominciai a vedere, o meglio immaginare, delle cose. Non vere e proprie e normali allucinazioni; era qualcosa più come delle immagini estranee, velocissime, infilate a forza nel normale corso dei miei pensieri, talmente rapide che non riuscivo nemmeno ad afferrarne i contorni. I miei ultimi ricordi chiari si fermano su un pianerottolo forse a metà salita. Ricordo di aver sentito delle voci provenire da uno dei corridoi. Ricordo che lo strano uomo si fermò di colpo, ricordo di aver pensato con ironia che a volte anche il diavolo può stupirsi. Poi la vecchia malattia tornò (da) dentro me, senza tante cerimonie, fregandosene di uomini e demoni, e caddi semplicemente addormentato al suolo bagnato..

– L’Esule e la comparsa

Ne era completamente terrorizzato. Aveva viaggiato Altrove in passato, ma mai si era ritrovato in un luogo tanto sterile ed opprimente come quella stanza.

L’uomo vuoto, l’assurdo esemplare di vita senza la vita che si trovava nella squallida stanza dove Ne si era risvegliato senza sapere come, guardava ancora fuori dalla finestra sfondata, offrendo il viso alla pioggia e parlottando di cose incomprensibili tra sè e sè.

“Non è la polizia. Non sono nemmeno i ridicoli rincoglioniti del cazzo. Chi sono? Sono due. Sembrano ben vestiti. Sembrano galli. Galli grassi. Qè-qè-qè. Chi sono? Li conosci? E a proposito, chi cazzo saresti tu? Da dove sei sbucato?”

Ne si rese conto all’improvviso che l’unico modo per sconfiggere la confusione era smettere di combatterla. O si adattava, o sarebbe impazzito nel giro di pochi secondi. Per la prima volta in vita sua, parlò utilizzando solamente le parole. Fu spaventosamente facile, meno traumatico di quanto aveva immaginato, ma non fu meno SBAGLIATO. 

“Non..non sono nessuno. Cercavo solo un riparo dalla pioggia e mi sono perso. Non conosco quei due.”

“Mh. Vabè. Comunque sembrano dei galli, e cosa mai ci faranno qua? Forse cercano qualcuno che prima viveva qui, ma qui non è rimasto nessuno. Ehi, senti un po’…”

L’uomo vuoto rovista nel piccolo cumulo di ciarpame affianco al materasso dove siede. Estrae un grosso coltello da cucina, con il manico in legno e la lama leggermente arruginita.

“Facciamoli cantare questi galli, eh? Che ne dici? Vuoi vedere che stasera si mangia? Dai dai. Su. Vieni!”

L’uomo vuoto esce dalla stanza, continuando a parlottare. Ne non è sicuro delle sue intenzioni, non ha idea di cosa sta per succedere, ma decide di abbandonarsi completamente al delirio e comincia a seguirlo.

Ne si alzò, sorretto dai propri stessi brividi,, e ando incontrò alla sua sorte con tutta la gentilezza di cui disponeva.

 

(Sigue. Kire)

I limiti della verità (III)

  • Non avevo mai visto questa parte della città. Quelle palazzine…nemmeno una luce. Sembrano scatoloni lasciati a marcire sotto la pioggia in un parcheggio. Fanno paura.

L’uomo con la pelle quasi bianca sta guidando e non risponde. Dopo una curva percorsa quasi a passo d’uomo schiaccia con forza l’acceleratore. Contemporaneamente tenta di ingranare la terza, ma la leva del cambio gli sfugge e l’auto comincia a singhiozzare, addormentandosi pochi metri dopo. Lo guardo mentre la riavvia, senza scomporsi minimamente, non un solo cenno di disappunto o un’emozione qualsiasi.

Mi sforzo di sorridere e con sollievo ci riesco. La follia che sto vivendo è accettabile come ogni altra, ma se perdessi anche il senso dell’umorismo comincerei davvero a preoccuparmi. Dall’altra parte del finestrino la periferia di Praga respira piano e tiene gli occhi bassi, ignorandoci. Niente pattuglie da queste parti, solo telecamere.

Mi chiedo se la disperazione esista anche in natura o se sia una necessità puramente umana.

  • Al bar mi eri sembrato molto più ciarliero. Hai detto che devi mostrarmi qualcosa. C’è della bellezza in questa cosa?

  • Non pronunciare parole di cui non conosci il significato. So di luoghi in cui ti caverebbero gli occhi per una domanda simile. Un consiglio: quando sarai altrove, parla il meno possibile.

  • Senza offesa, ma la tua voce è nauseante. Mi ucciderai?

  • Non ti ucciderò, sera, nè ti farò nascere. Questo incontro non modifica le tue responsabilità sul tuo futuro. Per me sei solo una scatola da consegnare.

  • Che cosa sei?

  • Mi chiamano Sicaridaee. Ci chiamano figuranti, incompleti, maliardi; I nomi sono una perdita di tempo. Sono colui che possiede ogni risposta ma trova incomprensibile il concetto di domanda. Il tuo bisogno di sapere è per me offensivo. I limiti della verità…non sono nessuno. Considerami una delle tue solite visioni.

  • Se questo fosse un sogno ti farei guidare meglio, per me è offensivo come usi le marce. Inoltre di qua ci siamo già passati, spero che tu lo sappia.

  • Dobbiamo mantenerci su strade secondarie. Conosco l’itinerario, purtroppo non sono molto abituato a questa Scrittura. Mi scuso per i miei errori.

  • Questa…scrittura?

  • Questa concezione. Questa culla corrotta in cui esisti. Il modo perverso in cui esercitate il pensiero. Non sapete esistere se non legati in catene, alla loro tessitura dedicate ogni respiro. Dato che non capite la lingua dell’esistenza ne avete inventato un’altra, che non capite in ogni caso. Una fertile, timorosa, mansueta nazione di schiavi sognatori. C’è chi vi trova affascinanti; non sono tra quelli. Ma è particolare che tu non sia intimidito.

Rido, di gusto. Rido, tanto. Questa volta senza sforzarmi per farlo.

  • Un fantasma…no, fermo. Un maliardo proveniente da un’altra dimensione, con una voce che sembra fango liquido, mi rapisce e infila dentro un’auto rubata che non sa nemmeno guidare. Mi parla di cazzate esistenziali come se fossi un’universitaria da rimorchiare, mentre mi porta in un posto oltre-la-realtà dove probabilmente mi caveranno gli occhi per aver chiesto se hanno del formaggio. Che cosa c’è di spaventoso? Dico, guarda fuori. Guarda, cosa stiamo sognando. Che fascino. Il mondo. Pardon, la “Scrittura”. Coglione.

Non so se ho offeso il mio interlocutore, né mi interessa. La sua faccia quasi bianca non tradisce stati d’animo. In ogni caso dopo questo non ci sono più parole. L’auto continua a singhiozzare per una decina di minuti e finalmente si ferma nel parcheggio di una palazzina abbandonata. C’è una luce accesa in uno degli appartamenti all’ultimo piano. E’ flebile ma è anche l’unica e questo la fa risaltare come un faro su una scogliera. Scorgo movimenti dietro le finestre buie. Qualcuno ci sta osservando. La curiosità serpeggia sulla pelle facendola formicolare.

Apro la portiera.

Kire

Un Incontro (II)

 

 Praga, 30 novembre 2022

Sono appena al mio terzo whisky, e le mani mi tremano già che è una meraviglia. Rovescio quasi mezzo bicchiere sul bancone, bestemmio e scolo d’un fiato il resto, prima di combinare altri guai. Resisto alla tentazione di ordinarne subito un altro; stringo i denti e mi costringo ad aspettare almeno dieci minuti. Mentre le dita fanno spola dalle gocce sul bancone alla mia lingua, gli occhi stanchi mi cadono sul grande schermo acceso in fondo al locale.

Danno un retegiornale. Non c’è volume, non serve. Seguo una serie di servizi cronometrati, 50 secondi l’uno. Il vento tossico in medio oriente. Le piattaforme di contenimento nel pacifico. Stronzate politiche con la Cina, forse un embargo. Strage e saccheggi in vaticano. Colpo di stato a Cape town. Pubblicità.

Ordino il mio quarto whisky.

Nemmeno me ne accorgo, quando lui mi si siede di fianco. O forse me ne accorgo, ma non me ne frega nulla. Pronuncia il mio nome con tono interrogativo. Dopo circa un minuto di silenzio ci riprova, e stavolta aggiunge “lo scrittore?” alla fine.

Devo ammettere che è una domanda piuttosto interessante, soprattutto qui, soprattutto ora. E’ quasi un peccato che abbia già altri bellissimi piani per la serata. Non rispondo, fra un po’ si stancherà e

“Karim Mureau, nato ad Annaba il 17 maggio 1989. Famiglia normale ma assente, anche a causa della tua natura fredda e schiva fin da piccolo. Cresci in periferia con pochi amici, senza imparare granchè della vita. A 16 anni ti trasferisci in Inghilterra con i genitori…”

Le mie dita stringono il bicchiere fino a sbiancarsi, e qualcosa di biologicamente vicino al panico puro mi impedisce di voltarmi. Non tanto per quello che sta dicendo. E’ la sua voce. Ha cambiato voce. Ora è sottile, strascicante, incolore, gorgogliante. E’ come sentire parlare una palude. E’ come

“..ma una volta lì le cose non migliorano. Primi sintomi di narcolessia e allucinazioni ipnagogiche, ma nessuno prende la cosa sul serio. A 19 anni hai un attacco e ti addormenti mentre stai viaggiando da passeggero sulla moto di un amico. Cadi e vieni investito da un furgone. Resti in coma tre settimane. Dal tuo risveglio, la tua mente va in caduta libera. Università di Manchester, ti laurei a stento in filosofia…”

Sento dolore, mi accorgo che mi sto mordendo il labbro. Devo fare qualcosa, reagire, questa voce fa male, MORDE, ti scivola dentro è come masticare sabbia è

“..gli attacchi peggiorano con il tempo, non esci più di casa per paura. I pochi amici che hai ti abbandonano. Nei momenti di lucidità scrivi. Per pura fortuna più che per reale talento vinci un piccolo concorso letterario e pubblichi un libro mediocre con storielle sulle tue allucinazioni. Che peggiorano. Diventi un ometto patetico e paranoico che prende aerei a caso nel cuore della notte per sfuggire a ombre viste sui muri. Affitti monolocali in città che non conosci e passi intere nottate nei bar senza muoverti, sempre nella stessa sedia. Il mondo muore intorno a te e l’unica cosa che riesci a pensare è che sia tutto così norm…”

“SILENZIO!”

La mano scatta da sola, senza chiedere la mia opinione. Batte sul bancone mandando in mille pezzi il bicchiere. Mi volto. E’ un uomo. Non fa paura. E’ vestito bene, completo marrone e lungo soprabito nero. Ha un vecchio cappello e dei piccoli occhiali da sole. E’ ben rasato. Molto pallido. Quasi bianco. C’è una macchia nera sulla sua guancia destra. Sembra quasi che si muova leggermente, che galleggi sopra la pelle. In effetti fa paura. Sono ubriaco. E’ a piedi nudi, anche se mi accorgerò solo più tardi di questo. C’è qualcos’altro che galleggia, dietro le lenti dei suoi occhiali. Fa scivolare il suo bicchiere verso di me. Whisky, naturalmente. Sorride. Gesticola, indica il liquore, mima una sorsata. Quando comincio a piangere, piega esageratamente le labba all’ingiù. Mi mette la mano sulla spalla.

“Silenzio”, sussurra.

Le sue dita sono roventi, sento il calore attraverso i vestiti. Non so perchè ma ho la certezza che se provassi a fare resistenza, semplicemente mi strapperebbe via il braccio.

Non faccio resistenza.

“C’è qualcosa che devi vedere. Andiamo a fare un giro in macchina.”

 Kiree

Il Fiato sul Collo (I)

Ne si svegliò, e la prima cosa che invase la sua coscienza fu il pensiero di essere libero.

(E’ gentilezza precisare che Ne si trovava in una situazione leggermente insolita. Per gran parte della sua vita era stato preda di una sorta di strana persecuzione, i cui dettagli non sono noti. Quando, adulto e ormai stanco di sopportare, era stato vicino alla follia, aveva scelto di rivolgersi ad un Sicariidae, una delle figure basse della concezione di Efemeride. Non è chiaro di cosa parlarono, ma è certo che stipularono un patto nella lingua dei figuranti, le cui parole, si sa, sono sfuggenti e mutevoli. Ne riuscì a fuggire dalla sua antica maledizione…ma è più giusto dire che scambiò semplicemente una condanna per un’altra. Fu infatti costretto a vivere ogni giorno sempre con lo stesso stato d’animo, l’inquietude. Ed è per questo motivo che questo risveglio fu così strano per lui; per la prima volta dopo molti anni, un sentimento antico e nuovo allo stesso tempo stava sbadigliando con forza, tra il crepitio delle foglie secche che ricoprivano il suo sentire.)

Ne aprì gli occhi, e la seconda cosa che sorrise ai suoi sensi fu la paura.

(Il panico passeggiava nervosamente avanti e indietro, su e giù lungo i salotti abbandonati nelle iridi. I suoi occhi, che erano gli stessi di Ne, correvano fuori per poi fermarsi sulla linea di un orizzonte che terminava inspiegabilmente pochi metri più in là. C’erano dei muri, ma non riusciva ad oltrepassarli con lo sguardo, e non ne capiva il motivo, e la cosa lo terrorizzava. Era come se stesse osservando allo stesso tempo due realtà diverse e sovrapposte, come se i contorni della prima si muovessero cercando di adattarsi alle forme della seconda, spezzandosi sopra spigoli duri quanto il rimpianto.)

Ne si mise a sedere, e la terza cosa che nutrì la sua ansia fu una piccola figura.

(Stava rannicchiata in un angolo della stanza, animale infreddolito. Aveva sembianze umane, eppure per qualche motivo sembrava un alieno, qualcosa di inavvicinabile, inspiegabile, inguardabile. Era come fissare un sole vuoto, da cui si dovesse distogliere lo sguardo per l’intensità dell’assenza di segnali. Non vestiva simboli né emozioni; nessun quadro disegnava sé stesso alle sue spalle, nessuna parola tra parentesi provava a tradurre la complessità dei suoi pensieri. Era un uomo, era vivo, ed era vuoto. Era la cosa più spaventosa che avesse mai visto.)

“Non fare rumore.”

(Sa parlare! Ma perchè la sua voce è così bassa? Perchè le sue parole si dissolvono, dopo essere state pronunciate?)

“Ci sono più pattuglie del solito stanotte, dev’essere successo qualcosa. Non bastava il coprifuoco del cazzo, servivano sti ragazzini che giocano ai ribelli per finire il quadretto. Ribelli di cosa, poi. La rivoluzione dovevano farla PRIMA, quando c’erano ancora cose da salvare, quando ancora si sapeva contro chi combattere. Hanno lasciato che ci prendessero tutto, hanno letteralmente firmato come tutti il consenso a farsi strappare la vita. E solo ORA si mettono a sparare? Eh beh certo, prima erano troppo occupati a parlottare e scandalizzarsi nei bar. Milioni di piccoli profeti, tutti pronti a condividere la verità e difendere cose come la democrazia dietro un cartello o uno schermo. Tutti scattanti, quando c’era da fare manifestazioni per proteggere ideali inesistenti, giusto? Ma quanti ne hai visti muovere un dito per salvare qualcosa di vero? E ora vogliono combattere, e non sanno manco contro chi. Si ammazzano tra loro, ci credi? Ridicoli rincoglioniti del cazzo…shhh, vedo un’auto. Si è fermata. Silenzio ora.”

 

(La confusione era totale. Ne riusciva a comprendere le parole di quell’uomo, eppure suonavano alle sue orecchie come impercettibili tonfi di una mosca chiusa dentro una bottiglia, che sbatte senza sosta contro le pareti di vetro. Valutò se uscire dalla stanza per cercare di capire qualcosa, anche solo come fosse capitato li, ma il terrore di una ancora maggiore incomprensione, pronta a fargli esplodere la mente in mille pezzi, lo ancorò all’angolo di cemento in cui si era svegliato.)

 

  Ne rimase immobile e tremante, e la quarta cosa che gli alitò sul collo quella notte non fu una cosa.

Kiree

Anamnesi (Il Lento Risveglio della Memoria)

“Il punto è che non ti abitui a questo posto.

Vedi, tu sembri un tipo sveglio. Hai una mentalità aperta e quindi sei sorpreso e non spaventato. Ma non basta. Il tuo problema è che ti comporti come se ti fossi appena trasferito in un luogo nuovo. Pensi che con pazienza e tempo ti ambienterai: imparerai la lingua, le strade, usi e costumi, meccanismi. Non è così. Non c’è nulla da imparare. Qui tutto scorre in te nel momento in cui accade, anche se non è mai accaduto. Lo smarrimento che senti si attenuerà, ma non arriverai mai a capire come vanno le cose qui, anche perchè le hai già capite. Mi segui?”

“No.”

“Naturalmente. In ogni caso io stesso non ti sto insegnando nulla, cerco solo di alleviare la tua confusione usando parole a cui sei abituato. E’ il mio lavoro. La parola stessa è una delle prigioni più sofisticate. Ma sono cose che già sai, cose che hai sempre saputo, anche prima di arrivare qui. Insomma, pensa a cose semplici, un ragno che tesse una tela, una vespa che costruisce un nido di terra. Sono forse andate a scuola per fare queste cose? Pensi ci fosse nonno Tarantola a spiegare ai cuccioli cos’è il bene e cos’è il male? Andiamo. Tutto quello che siamo è eternamente con noi fin da quando prendiamo forma, e forse anche da prima. Di tutte le razze, le specie, le concezioni, noi siamo quella che più si è impantanata su questo. Filosofia, la chiamiamo. Dimentica il concetto di capire come lo conosci: è solo una soluzione ad un problema che nessuno ha mai posto. Ricorda, invece di capire. Ma prima devi dimenticare: i tuoi sensi sono sporchi.”

“Per essere uno che nega l’uso della filosofia, mi pare che ci sguazzi dentro piuttosto bene.”

“Cerco solo di venirti incontro, tesoro. E questo è un altro tuo problema; qui ci sono molte cose che non conosci, ma molte altre ti sembrano familiari. Pensi che sia un vantaggio, una base in comune da cui partire. No. Qui è dove le cose sono quelle che sono, non quelle che pensi che siano. L’uno diventa il sette. Il respiro diventa pensiero. Il dolore è una stanza, una strada è un movimento. Tutte queste parole sono molecole di polvere che si agitano sopra una tela. Tieni, bevi qualcosa.”

Il bicchiere è vecchio e sporco, il liquore solo sporco. Il sapore è di whisky mischiato a fango. La gola si incendia, mentre un treno di calore mi scende cieco nelle budella. Il fumo della sigaretta di Anton si raggruppa fluttuando. Forma l’immagine di una scalinata. Man mano che salgo i gradini con lo sguardo l’immagine di fumo cambia, introducendo nuovi dettagli e lasciando intravedere l’entrata di una stanza enorme, di cui scorgo solo un sontuoso lampadario prima che Anton sbuffi stizzito, cancellando la scena.

“Non distrarti. Avrai tempo per fare amicizia con il vuoto. Come ti senti? Non mi stai impazzendo vero?”

“No..non lo so. Hai parlato del tuo lavoro. Che cosa fai di preciso?”

“Più o meno quello che sto facendo ora, solo che scelgo meglio le parole e vengo pagato. C’è ancora molto della vecchia concezione in me, quindi mi viene facile trattare con i forestieri. Molti arrivano quasi per caso, come te. Alcuni smattano e vanno calmati, o soppressi. Altri usano strani rituali e investono molta ricchezza per venire qui solo temporaneamente. Come fossero in gita, ci credi? Io faccio loro da guida e li proteggo. Questo faccio. Hai avuto fortuna ad incontrarmi”

“Avrebbe una qualche utilità chiederti dove siamo?”

“Siamo dove tutte le anime vengono quando non sanno più dove altro andare. Lo scoglio dove tutti i mondi si infrangono. Basta parlare, sei esausto. Tornerò fra qualche anno, quando avrai dimenticato abbastanza. Forse avrò del lavoro per te.”

Anton si alza, ed esce dalla locanda senza voltarsi. Tocco il bicchiere vuoto, saggio la sua fisicità per convincermi per l’ennesima volta che non sto sognando. Il bicchiere è sicuramente li, ma per qualche motivo questo non mi rassicura. Fuori è l’alba, per la seconda volta in poche ore. Esco a fare due passi.

Kire

 

Anamnesi - by l'Arlequin fou (db4power@gmail.com)

Anamnesi – by l’Arlequin fou ([email protected])

Il poco che rimane (Interludio)

“Per mettere alla prova la realtà dobbiamo vederla sulla fune del circo. Quando le verità diventano acrobate, allora le possiamo giudicare.”

O. Wilde

Ci sarà una volta un uomo distratto che leggerà una storia, e sarà una storia già sentita, ma all’uomo distratto non importerà, perchè in quei tempi tutte le storie saranno già state raccontate, sentite, ricordate.

La fine della Fantasia non coinciderà con la fine del Bisogno di ascoltare. Ricercatori rinomati studieranno nuove forme di ispirazione rinnovabile, e spacceranno per nuove quelle forze che in realtà ci accompagnano dalla prima volta che un uomo rimase insonne a contemplare il cielo di notte, chiedendosi perchè si sentiva così. Ma infine il Sogno si addormenterà e sognerà sè stesso, escludendoci dal meccanismo della Creazione e lasciandoci istupiditi e boccheggianti.

Gli ultimi, frastagliati anni del tormentato impero dell’Immaginazione si svolgeranno nei palmi delle mani di mercenari vestiti da bardi, signori del riassunto e khan del riciclo, e spolveratori di professione, filantropi del deja vù, archeologi degli archivi, alchimisti del remake, oh .

(Non sai dirlo? Fallo dire a qualcuno più bravo di te. Qualcuno del secolo scorso magari. Tanto, lui ormai è schiattato e tu fai bella figura. Tutti contenti.)

Col tempo gli alfabeti si dilateranno e si sdoppierano, solo per avere più modi con cui dire sempre le solite cose. Le persone acculturate parleranno attraverso mille e più bocche; quelle semplici attraverso quelle quattro labbra al momento più convenienti nel loro perimetro di realtà. Ai creatori per dono di nascita verrà imposto per tutta la vita di ricordare i volti dei loro infiniti padri, e saranno di fatto convinti dell’inutilità di mettere al mondo altri figli, poeti timidi dal sangue indebolito, che non riuscirebbero mai a sopravvivere tra le macerie dell’Arte, costretti a vagare infreddoliti di notte, cercando focolari sempre più rari e isolati.

L’uomo distratto leggerà la storia già sentita, e sarà una storia che racconterà di un uomo piccolo e distratto come lui, che un giorno, un po’ per inclinazione un po’ per caso, scoprirà l’esistenza di quelli che all’inizio gli sembreranno altri mondi. Col tempo gli altri mondi diventeranno diversi piani di una mente, ma quale mente? La sua? No, troppo facile. La storia sarà un po’ più complessa. O forse farà solo finta di esserlo. Una truffa narrativa come tante.

(Alzate i vostri calici vuoti e dissetatevi.)

L’uomo distratto, quello della storia già sentita, intraprenderà un viaggio con alcuni compagni, invitati rapiti ad una festa di nozze tra l’empatia e l’improbabilità, e sarà un viaggio di convenienza che diventerà un viaggio di scoperta e poi di necessità. Necessità di trovare qualcosa, ma soprattutto necessità di cercare qualcosa.

(Quel poco che rimane. Se c’è.)

L’uomo distratto sulla poltrona vedrà l’uomo distratto della storia già sentita alzare una bussola, consultarla attentamente per poi gettarla in un buio che non è proprio buio. Lo vedrà incamminarsi su una strada che non è proprio una strada, e deciderà di seguirlo, non avrà nulla di meglio da fare. Il finale ancora non lo sa, ma tanto sarà come tutti i finali, no?

(No?)

Kire

Rifugi (Testimonianze\Prima)

27 Dicembre 1938
Da qualche parte in Andalusia, sud della Spagna

(Una stanza sporca e spartana, con pochi mobili in legno; luce del giorno che si insinua da una porta d’entrata spalancata; polvere che fluttua pigra nell’aria, tracce di fieno vecchio sopra piastrelle sbiadite.
Rumori indistinti: alcuni spari e grida, resi ovattati dalla distanza; tre figure entrano nella stanza arrancando velocemente, chiudendo la porta dietro di loro. Due sembrano soldati di qualche tipo, ansimanti e in malarnese: uno di loro trascina un vecchio ciondolante, con una grossa macchia di sangue su un fianco.
Penombra, ora: restano solo le strisce di luce che entrano dalle vecchie finestre semisprangate.
Urla rabbiose, incoerenti: il vecchio ora giace a terra, contorcendosi in una pozza del suo stesso sangue. I due soldati si piazzano sotto una finestra, i respiri rochi, la paura tratteggiata sui loro visi stanchi e provati.
Per un solo secondo, c’è un silenzio perfetto: sembra che il mondo si sia fermato a posare per un singolo fotogramma, che racconta una storia confusa. Dopodichè, la vita riprende.)

“putaaaaaaAAAAAAAAAA VETE A LA MIERDA! VETE A CHUPARLA…que te jodan LOS HUEVOS! ME CAGO EN LA PUTA PERRA QUE TE Pariò…ooooOOOOOOO….”

“Dio…Dio…”

“Stai calmo. Sei ferito?”

“Non credo…no…Oh dio, siamo fregati…”

“Respira lentamente: non ci hanno ancora preso. Niente panico.”

“…llllegarà EL DIA EN CUAL MEARE’ EN LA BOCA DE TU PUTA MADRE! Voy a rasgarte los ojoooooouuuuuuuuuuUUUUUUUUUUUU…..”

“Ehy, vecchio! Anche tu! Datti una calmata!”

“L’hanno colpito, povero bastardo…guarda quanto sangue…è solo un contadino, stava spaccando legna quando siamo arrivati…”

“Deve stare zitto. Non riesco a pensare…”

“OOOOoooooo…joder jodER JODER…….”

“Perchè non sparano? Perchè non entrano?”

“Non lo so. Spostati, fammi guardare fuori…porci. Senti, hanno visto entrare solo noi tre. Forse pensano che sia un nostro rifugio. Non sanno quanti siamo…Sanno solo che siamo brigatisti, e tanto gli basta per ammazzarci una decina di volte di seguito.”

“Allora…”

“Allora niente, stanno circondando la casa, poi ci chiederanno di arrenderci e uscire, e se non lo faremo daranno fuoco a noi, alla casa e a tutto il bosco. Dobbiamo pensare a qualcosa, in fretta.”

“Credi che al campo abbiano sentito gli spari?”

“E da che parte sta il campo, ci siamo persi ricordi? E poi è probabile che abbiano già abbandonato tutto e stiano ripiegando verso Murcia. La guerra è finita, compadre. Resta solo da salvare la pelle ormai.”

“Merda…dio…”

“Senti…”

ME CAGO EN LA VUESTRA PUTA GUERRA! A TOMAR POR CULO TODOS!”

CALLATE, POR DIOS! HAY GENTE QUE INTENTA SOBREVIVIR AQUI’!”

OOOOooooooo….”

“Ascolta, vai dal vecchio, calmalo, senti cosa sa, basta che la smetta di gridare. Io controllo quelle due porte e do un’occhiata alla casa, vedo se trovo qualcosa di utile. Stai lontano dalle finestre…”

“Qualcosa di utile? Cosa, un forcone? Ci saranno almeno cinquanta franchisti, là fuori, maledizione! Che hai da sorridere?”

“Non mi dispiacerebbe un po’ di vino rosso, prima di crepare. Vado, pensa al vecchio. Stai attento.”

“Ehy, abuelito…ssccch, calma, fammi vedere…cristo quanto sangue…stai fermo, maledizione! Tento di tamponare la ferita…”

“Ci sono delle scale qui! Forse una cantina. Scendo a vedere.”

“Va bene. Sbrigati, questo fra poco schiatta…dio…”

No…no hay nada por allì…no hay…

Tranquilo, vecchio…non siamo ladri, cerchiamo solo di uscire da questo casino…ci dispiace di averti coinvolto…”

Las manos…quieren ver…de lejos….ooohh….”

“Le…mani? Di che parli? C’è qualcuno di sotto? Nascondi della gente? Rispondi!”

Dejame, gillipollas! No teneis idea de lo que pasa… hahaa…Esta guerra es broma…todo el mundo es broma…hay que jugar, no? Hahaa…”

“Ma di che cazzo parli, cristo! Ehy! EHY! No…”

(Il vecchio si ferma a prendere fiato, ma di fiato non ce n’é. Il respiro gli muore in gola, e di lui restano solo due occhi azzurri sbarrati, e una barba bianca velata di sangue. Il soldato gli resta inginocchiato affianco, e forse vorrebbe piangere, ma dei rumori fuori, ormai vicini, lo fanno scattare. Corre basso fino alla porta: delle scale di legno marcio scendono fino ad un pianerottolo. Non c’è illuminazione, ma da dietro l’angolo arriva a intermittenza una flebile luce violacea. Il soldato chiama il suo compagno, prima piano, poi un po’ più forte. Nessuna risposta. O forse sì. Arrivano delle voci dal basso, molte voci, ma flebili, sfuggenti, come se sussurrassero, e non si capisce la lingua. Strane visioni assurde e velocissime si insinuano nella mente del soldato, senza capirne il motivo immagina un uomo con le dita lunghissime, forse metri, dei treni neri che corrono nel deserto, e altre cose, troppo assurde e troppo veloci per essere capite subito, e…

Ora i rumori sono molto vicini, qualcuno sta armeggiando con la porta. Il soldato resta così per qualche lunghissimo secondo, preso tra due fuochi, da una parte la paura della morte, dall’altra una paura diversa, sconosciuta, indifferente quanto l’universo.

Comincia a scendere, e divenne un’altra storia.)

Kire

Ne

Ne si svegliò all’improvviso, preoccupato ed ansimante, senza riuscire a capirne il motivo. Era una mattina presto come tante altre, e la notte era stata tranquilla, non ricordava incubi o stranezze di sorta. Rimase così per un po’, seduto sul letto. Piccole gocce di sudore calavano lentamente giù per le sue tempie, e sembravano andare a ritmo con quelle della pioggia sottile di novembre, che scivolava discreta lungo il vetro della finestra.

Tranquillo, Ne. E’ solo un po’ d’inquietudine. Niente di cui preoccuparsi.

Si alzò e si vestì con calma, poi si concesse qualche minuto nella biblioteca. Sorseggiava del rum caldo e sfogliava libri antichi a caso, così, più per rilassarsi che per un reale motivo. Ma la sensazione strana non lo abbandonava, anzi sembrava crescere, lentamente, come peli sottili su braccia infreddolite.
Si stava facendo tardi. Le lancette sotto il suo occhio sinistro ticchettavano sempre più veloci. Mise il mantello e uscì, rabbrividendo nell’aria pungente e sbarazzina di febbraio. Si diresse su, fino a un’uscita secondaria dei tunnel, e poi puntò a est, diretto verso la

Polvere.

Esistevano solo calcoli approssimativi su quanto si estendesse l’enorme, perenne tempesta di sabbia. Si conosceva il punto in cui iniziava, ma nessuno era sicuro di dove finisse.
Nessuno aveva mai esplorato a fondo il suo stomaco violentato, o perlomeno nessuno era mai tornato per condividere le proprie conoscenze. Al suo interno, intere città dai nomi dimenticati gareggiavano a chi si sgretolasse più rapidamente. Il vento soffiava senza sosta su ogni cosa, con la delicatezza e la precisione di una colonna di carri armati guidati da scoiattoli sotto anfetamine. Anche con la migliore preparazione ed esperienza, pure una semplice passeggiata nella Polvere poteva rivelarsi fatale.
Ne lo sapeva bene, e decise di non sfidare la sorte, non oggi almeno. Legò la solita corda alla solita vecchia quercia rinsecchita che ormai conosceva bene e, dopo averci scambiato qualche chiacchiera frivola e frettolosa, si immerse nel magicomico turbinio.
Restò ancorato ad un sentiero a sei corsie che aveva percorso già molte volte e, con il grosso cappello a tubo calato giù fino alle spalle, si diresse verso un punto che si era ripromesso di controllare meglio l’ultima volta, una piccola radura d’asfalto seminascosta dietro le macerie di un grattacielo crollato. Il luogo era stato nel frattempo setacciato e depredato, ma qualcosa ancora rimaneva. Ne costruì un carretto improvvisato di ossa umane, due tombini di metallo come ruote, e ci caricò sopra un vecchio motore a pompa che sembrava ancora in buono stato. Poi tornò indietro. Poche ore dopo, era uscito dalla tormenta e si trovava nel quartiere delle Piazze di

Meralosca,

l’ultima città di confine prima della Polvere. Senza troppi problemi riuscì a piazzare il motore, barattandolo con alcuni sacchetti di respiro e un piatto di zuppa, condita con i capelli strappati di un’innamorata delusa. Mangiò di gusto e poi si rilassò fumando lentamente una sigaretta di tabacco stantio, osservando le genti vive e quelle morte, che indaffarate trotterellavano e macchineggiavano su e giù per i mercati all’aperto. Da una parte si sentiva sollevato, anche per oggi era riuscito a portare a casa la giornata; eppure, quella sottile sensazione di timida inquietudine lo accompagnava ancora, grattava alla porta dei suoi sensi come un cane chiuso fuori al freddo, smanioso di entrare per scaldarsi e fare le feste al suo padrone. Una lacrima scese solitaria sotto l’occhio destro di Ne, scolorendo leggermente il vivace bosco a tempera che un bambino sconosciuto gli aveva disegnato lì molti anni anni prima.

Ormai era quasi sera: il sole splendeva alto e rigoglioso nel cielo limpido di giugno. Ne si diresse verso la via carovaniera più vicina per fare un po’ di autostop, e quasi subito trovò un passaggio in un’antica gabbia a vapore, trainata da rimpianti vecchi e stanchi. Il cocchiere era un ometto piccino e barbuto, dai capelli arcigni e dallo sguardo folto, che mise in chiaro fin da subito di non aver voglia di ciarlare. A Ne la cosa andava benissimo, e in silenzio viaggiarono verso l’entrata dei tunnel, la soglia incustodita del mondo sotterraneo. Erano quasi arrivati quando la gabbia dovette rallentare, per lasciare il passo ad un vecchietto ciondolante, che stava attraversando la strada lentissimamente, leggendo un quotidiano completamente bianco. Si fermò giusto un secondo in mezzo alla via, accarezzò sorridendo uno dei rimpianti che trainavano la gabbia. Il rimpianto guaì, il vecchio proseguì, la gabbia cigolò, il cocchiere bestemmiò, e Ne fu finalmente a casa, libero di rilassarsi e

sognare.

Passò il resto della serata stravaccato nella sua poltrona preferita, nella terrazza capovolta. Guardava affascinato il sottosuolo al contrario, tratteggiandone i contorni su un foglio di carta bagnata, e canticchiava. Aveva infine aperto la porta all’inquietudine, che ora dormiva tranquilla al suo fianco, svegliandosi ogni tanto per leccargli velocemente la mano e poi tornare a sonnecchiare. Il mare in tempesta tatuato sulla sua nuca si gonfiava e si abbatteva su sé stesso, costringendo Ne a cambiare posizione ogni tanto, per lasciar fluire libere le onde. Fissò le stelle, attraverso la consistenza flebile del terreno. Erano tante e splendenti, erano le costellazioni orgogliose di una notte d’agosto.

Sorrise.

Come passa in fretta il tempo, quando ti diverti.

 

Kire

Polvere (Libera Nos a Malo)

“Non biasimatelo se egli adesso la vede, e non date a lui la colpa se diventa matto solo perchè maestri e sacerdoti non furono abbastanza saggi da insegnarli che l’esplorazione della realtà non ha mai termine, e che siamo degli stronzi a limitarci all’abbiccì del mondo.”

Henry Chinaski, Los Angeles 1967

Zion appoggiò su di me il suo sguardo interrogativo, insieme a quell’espressione di esagerata rassegnazione pietosa che ormai conoscevo bene, come se dovesse ricordarmi di continuo quanto gli pesasse sopportarmi e viaggiare con me, io che ero così stupido, così limitato, così inesperto, così…umano.

Ma avevo imparato presto che questo atteggiamento era solo il suo modo di gestire le nostre profonde differenze; dove io avevo inizialmente reagito con lo stupore e la paura, e in seguito con il rispetto e la pazienza, lei reagiva con l’orgoglio e il sarcasmo. Non era un rapporto poi molto diverso da quello che avrei potuto avere con altre persone come me, altre persone “normali”.

Ci si passa tranquillamente sopra, se ci sono degli obiettivi in comune o se semplicemente ci si vuole bene. Tutt’ora non so quale delle due cose fosse la mia giustificazione. Non ha importanza.

“Continua a leggere.”

Zion emise uno dei suoi ringhi leggeri di frustazione, e continuò a scartabellare tra i vecchi fogli sparsi pieni di scritte sottili. Ricominciò a leggere a voce alta.

“Una volta, prima della Guerra, prima dei numeri e dei simboli, era conosciuto come il Re della Polvere, anche se nessuno sembrava ricordarsi perchè. La gente gli aveva dato quel soprannome più che altro per sapere come riferirsi a lui, dato che aveva la bizzarra abitudine di presentarsi sempre con nomi diversi. Lo si vedeva spesso saltellare di qua e di là, nei quartieri bassi di Meralosca, dove viveva; eppure, i singolari servigi che offriva erano spesso richiesti anche dagli altri quartieri e perfino dalle Corti, di quando in quando. Di origine era umano, e proveniva dalla Concezione del Compromesso. Non aveva sangue di Artista, come molti pensavano: spesso doveva ingaggiare agenti esterni, mercenari della Creazione, per riuscire a tradurre determinate voci e a trattare con i suoi clienti. Ma c’era una cosa in lui che nessun altro sembrava avere, ovvero una smisurata empatia nel capire istantaneamente cosa la gente desiderasse, nel profondo delle loro anime. Oltre a questo, possedeva una scaltrezza da brigante e un approccio molto….Dio della pazienza, cosa sono queste idiozie?”

Zion roteò gli occhi al cielo ed emise un flebile ululato. Ridacchiai.

“Sai, se fosse rimasto nella mia vecchia concezione, un tizio così sarebbe stato veramente un personaggio. Probabilmente avrebbe fondato una religione tutta sua.”

“Dal poco che so della tua concezione, un tipo così lo avrebbero ammazzato prima che iniziasse a fare danni. In ogni caso non mi sembra nulla che ci possa essere utile, e nemmeno niente di interessante. Dove hai trovato questi appunti?”

“Non…” mi bloccai di colpo, una fitta feroce di dolore alla testa mi paralizzò per qualche secondo. Non era la prima. Da quattro giorni ormai mi preparavo silenziosamente a sognare: quattro giorni di veglia, di meditazione, digiuno e strani piccoli rituali per stimolare la mente. Ma la mia mente era solo umana, e non completamente abituata ai cambi di strato. Sognare era ancora doloroso, per uno come me.

Mi aspettavo che Zion ripetesse la domanda, che mi schernisse addirittura, eppure tacque. Mise da parte i fogli di appunti e aspettò che l’ondata di dolore se ne andasse, poi abbaiò.

“E’ un errore. Non sai nulla di questo tizio, e anche se fossimo sicuri che può aiutarci, tu non sai ancora sognare da solo. Nel migliore dei casi rischi di tornare impazzito. Nel peggiore..beh, lo sai. Non lo fare.”

“Alternative? Uscire ed essere catturati oppure rimanere in questo scantinato a litigare fino a che non marcisce il tempo. Rischio volentieri.”

Silenzio nervoso.

“Il Re ci serve, canefinto. So io perchè. Tu pensa a fare la guardia, che io vado a prendere il nostro profeta per le orecchie.”

L’incenso bruciava lentamente, facendo il rumore di treni immobili, arrugginiti e abbandonati, il loro carico di ricordi saccheggiati dai vagabondi del Sentire.

Kire