Atser

-Resta-
Disse dal profondo della sua anima, mentre con una mano stringeva il braccio sfuggente.
Resta, gli disse, sapendo che non lo avrebbe mai fatto.
C’è qualcosa di più crudele, di chiedere sapendo che non verremo mai esauditi?
Resta, ma lui si sedette sul bordo del letto, scostandosi i capelli dalla faccia.
Resta, e lui non parlò, sospirando come faceva sempre, come lei odiava tanto ma senza aver mai avuto il coraggio di dirglielo.
La danza è finita, le luci si sono accese e improvvisamente tutto questo sembra così vuoto, così estraneo, ma io ti chiedo di restare e so che tu non lo farai.
E cosa farò io dopo, cosa ne sarà di me domani, e domani ancora e un giorno dopo l’altro, così, all’infinito, per quanto infiniti possiamo essere. Avrà l’alba lo stesso sapore, il vento continuerà a scompigliarmi i capelli o tutto cambierà, era solo un mondo nostro, costruito da me e te in un giardino verde, oppure è veramente questo il mondo.
Resta, perché non c’è più nessuno a spiegarmelo e improvvisamente mi sembra di aver scordato come si parla, perfino respirare ora mi sembra così superfluo, ora che è solo aria che che esce dalle labbra.
Resta,
oppure no,
non restare,
forse è venuto davvero il momento di girare l’angolo e vedere se veramente quel lampione illumina la strada come ho sempre pensato.
Non restare, alzati da questo letto, non guardare i muri, ignora i libri e le foto, schiva i nostri ricordi riflessi sulla finestra, alzati e vestiti, lentamente come sai fare, come se per te tempo fosse solo una parola inventata da un bambino capriccioso.
Quando chiuderai la porta tu non sarai mai esistito e io…
Io imparerò a scendere le scale senza corrimano, a non guardare lo specchio prima di uscire, scenderò a testa alta per strada e non abbasserò più lo sguardo, smetterò di fingere di essere una tela grigia e il mondo diventerà quel quadro che ho sempre voluto.
È venuto il momento, per questo?
Atser.

MDC
([email protected])

Sabato (LDCDS ospita)

È che questa giornata non poteva che andare così, in ogni singolo particolare l’avevo progettata male.
Sono due mesi che non mi alzo presto perchè non vado a scuola e, alle 6 del mattino, il mio sonno è più pesante che mai, nell’abbraccio caldo di Ste. Ma alla sveglia del mio telefono non gliene fotte un cazzo e irrompe nel silenzio con Brimful of Asha.
Sto male. A parte la nausea, sto male davvero.
Con un incredibile atto di forza mi alzo e raggiungo il bagno, che è un cesso perchè ieri sera Ste si è fatto la barba e ci sono peli ovunque. Mi faccio una doccia. Mentre il getto di acqua bollente mi martella la testa mi balenano le idee migliori: non ci vado, torno a letto, dico che ho perso il treno.
Mezz’ora dopo sono in stazione per prendere il treno.
Sto aspettando sta mia amica mentre faccio colazione con una sfogliatina alla mela schifosa, in questo bar schifoso. Arriva e prendiamo il treno.
Ho la nausea, ancora.
Sul treno, pochi sedili avanti c’è un tipo pelato sulla trentina che mi fissa, è colpa mia che oggi sono troppo figa, ma mi dà sui nervi. Lui ovviamente è abbastanza sfigato da non accorgersene o forse da pensare addirittura che la cosa mi intrighi e continua a fissarmi per tutto il viaggio, mentre Milano mi sembra sempre più lontana.
Quando arriviamo dobbiamo “trovare il passante” mi avverte la mia amica, sembra una roba losca da narcotrafficanti, invece è un altro treno del cazzo.
Trovarlo non è difficile perchè un’orda di fastidiosi maturandi in cerca del proprio futuro, come noi, si riversa, intasando scale mobili e sottopassi della stazione, verso di esso.
Tutti vanno all’openday del Poli. Poli è un modo meno atroce di dire Politecnico, un posto dove io so già che non voglio andare perchè ci ha studiato mio padre e io sono diversa da lui.
Noi stiamo andando a vedere i corsi di design e stiamo cercando due mie compagne di classe, Fabi e Linda, che sono anche loro qui per questo. Non ci eravamo messe d’accordo bene su dove trovarci, ma quando le troviamo andiamo.
Un veloce giro dei laboratori e 150 minuti di fracassamento di coglioni ad ascoltare la presentazione dei corsi di moda, comunicazione e prodotto. Mi piacciono uno meno dell’altro.
Il programma era di restare a fare un giro di negozi, ma per me è un casino e comunque Fabi e Linda le vedo già stasera, che abbiamo quest’uscita in ballo da settimane.
Così ce ne torniamo a casa.
Alle 18:20 sono in fermata e fra tre minuti passa il pullman per andare dalla Fabi. È l’apertura del carnevale e “ci sono sbronze in giro” aveva detto.
Finito di truccarci e pettinarci a casa sua, usciamo e appena arriva la Linda ci spariamo in un rassicurante bar e ci beviamo tre spritz da brave fighette. Poi passiamo alla birra che ci si addice di più. Ci annoiamo, usciamo. A piedi infiliamo la strada per la stazione per fumare in un posto tranquillo. Che poi non c’è posto più sgamo della stazione per fumare e noi imperterrite andiamo sempre là lo stesso. In stazione, in mezzo a tutti gli altri stronzi che hanno avuto la nostra stessa idea, noto che è anche pieno di ragazzini. No, proprio ragazzini ini ini, tipo 13 14 anni. Questi fanno finta di ballare musica alternativa ruttata da un iphone. Vabbè è un mondo libero, io devo solo pensare a non farmi cadere la mista che è un’abitudine che sto prendendo un po’ troppo ultimamente.

Io e la Linda abbiamo fame, non abbiamo cenato, torniamo in un bar e prendiamo un tost che mi sembra la cosa più buona del mondo e qualche birra. Questa è la fase più brutta della serata perchè è il momento in cui, dopo aver fumato, stiamo in silenzio. Non vola una mosca. Chissà perchè poi, forse loro si rilassano, invece io non riesco a smettere di guardare quanto è brutta la Linda quando è fatta e mi viene l’ansia che magari sono brutta così pure io. Invece la Fabi è sempre così bella, anzi drogata è anche più bella. Madonna che ansia, usciamo, cambiamo bar.
Appena fuori mi rendo conto che è stata un’idea di merda, il freddo mi prende a pugni lo stomaco, questa sera sbocco. Mi lancio a passo spedito verso il bar di fronte, con quelle due dietro che o non hanno i miei problemi di sbocco facile, o proprio non ce la fanno a camminare in fretta. Poi cazzo, arrivo alla porta e questa tipa seduta per terra, mi saluta e sostiene di conoscermi. Sì dai voglio entrare, invece no lei deve raccontarmi qualche cosa che non ascolto. Però mi regala il suo campari, almeno quello.
Dopo aver accuratamente scelto il tavolo più brutto del locale, ordiniamo il litro di birra. Quando uno fa così se le cerca, cosa mi lamento se poi vomito.
Ce la giochiamo a carte, ovviamente perdo. Va bene, andiamo al cesso e poi andiamocene che non sto in piedi.
Noi ragazze al cesso ci si va tutte insieme e questo è uno dei motivi principali per cui una volta al mese mi faccio infilare le mani dell’estetista in ogni anfratto, se non sei totalmente depilata non va bene. Odio questa cosa della pipì fra amiche, è imbarazzante barcollare sulla turca con una che ti fissa, anche se è tua amica.
Andiamo in piazza e troviamo questo tipo, amico di Fabi, che ci invita a casa sua. Ci carica su una jeep con il tetto di tela e qualcuno ha la brillante idea di aprilo. Cazzo è febbraio.
A casa di sto tipo ci facciamo due righe e questo è l’apice, penso proprio che ho bisogno di emozioni. Sono così concia che mentre pippo sbatto in giro la bamba con i capelli e me ne accorgo anche, ma non ce la faccio, me li raccoglie con una mano il tipo.
Sono stanca. Ho la nausea, ancora. Ho bisogno di dormire.
Finalmente decidiamo di andare a casa della Linda a dormire. DORMIRE. Non so che ore siano quando arriviamo, tipo le quattro.
Raggiungo il bagno per forza d’inerzia, mi guardo allo specchio e con stupore noto che sono pure carina. L’ottimismo è il profumo della vita, devo levarmi quest’espressione disarmata dalla faccia.
Voglio il letto. Mi spoglio, mi sdraio e mentre mi sto addormentando penso. Qualcuno ha vomitato. Ma io sono certa di non aver vomitato…un po’ strano. Infatti ho vomitato io. Quando? Che ne so, domani me lo farò raccontare.
È mattina, anche se io non lo so. Mi sveglio nel letto fra i corpi lisci e caldi di Fabi e Linda.
C’è la luce accesa perchè Fabi dorme sempre con la luce accesa, mi alzo e la spengo e lì mi accorgo che è giorno. Vado in bagno a sistemarmi e sto benissimo, il vantaggio di vomitare sempre.
Torno in camera e ci alziamo tutte tre.
So che io e Linda dovremmo andare subito perchè rischio di perdere il pullman delle 12.28, ma non ci frega. Infatti quando arrivo in fermata l’ho perso, ma non sapevo che il prossimo è fra 5 ore diamine.
Aspetto lì sul ciglio della strada, un po’ lontano dalla fermata che altro non è che un cartello giallo, per vedere se qualcuno mi carica e mi porta a casa. Sì, dovrei chiamare qualcuno che mi venga a prendere, ma sono irresponsabile e comunque oggi non ho nessuno, sono tutti via.
Si ferma un tipo su una bella macchina nuova.
Controllo e sembra pure figo, salgo. Sì, è figo…per una trentacinquenne, peccato che io sia appena maggiorenne.
Ha tutti i capelli in testa, ma tanti sono grigi. Allo stesso tempo però ha anche i punti neri sul naso. Questo si crede un ragazzino, se volesse crescere se li schiaccerebbe.
Infatti tempo due secondi peter pan comincia a provarci, mi chiede subito se ho il ragazzo, quanti anni ho, se rischia l’arresto se mi chiede di uscire e intanto accellera e sorpassa per fare il figo.
So come fanno gli uomini di una certa età, mi è già successo.
Mi giro e lo guardo negli occhi in un qualche modo audace per metterlo alla prova. Ecco, rallenta perchè probabilmente è già intento a contenere un’erezione, che senza palle.

Vorrei dirgli che, se sapesse cosa è uscito dalla mia bocca stanotte, avrebbe schifo anche solo a starmi vicino. Ma lui non lo sa e poggia la mano sul mio ginocchio.
Se gli faccio capire che non ci sto potrebbe lasciarmi a piedi.
Arriviamo sotto casa mia, o meglio, sotto una casa che spaccio per mia perchè non voglio che sappia dove abito. Mi chiede il numero, io gli do facebook e si accontenta. Scendo.
Due passi e sono a casa, la doccia mi era mancata. Letto.
Mi sveglio quattro ore dopo, apro facebook e mi ha già scritto. Non fa niente, non è disdicevole ciò che ho fatto. Se non avessi accettato il suo passaggio adesso starei ancora aspettando il pullman.
Invece sto benissimo, mi sono già lavata, ho già dormito e ho tanta voglia di mangiare sushi stasera, con Ste.

Pie ([email protected])

Estremo Saluto (ldcds ospita)

“Ben sei persone” scandì Uriel. “Prete e becchino inclusi. Dovevi essere amatissimo da vivo.”.

Sergej fissò l’angelo senza rispondere. Il suo profilo severo e squadrato mal si sposava con il sarcasmo. Il sole volgeva sanguinando ad ovest, basso all’orizzonte. I convenuti alla sepoltura si coprivano gli occhi, infastiditi dal riverbero. Uriel e Sergej non ne avevano bisogno.

Il prete armeggiava con una copia sgualcita della bibbia, pronunciando parole ormai consunte da decine di cerimonie una uguale all’altra. “A Dio piacendo” pensava, “tra due ore c’è la partita”

“Vorrei una sigaretta” disse Sergej sovrappensiero. Uriel lo guardò severamente.

“Sei morto, non…”

“Aaah, taci una buona volta!”

Uriel tacque. Non avrebbe dovuto sopportare a lungo quell’anima sgradevole. Aveva ottenuto la possibilità di presenziare al suo estremo saluto sotto sorveglianza, poi sarebbe finito dove meritava. Uriel non aveva dubbi sulla destinazione finale, e si concesse un mezzo sorriso.

A due passi dalla fossa, ritta come cartello di STOP, stava una donna avvolta in un tailleur fuxia. Aveva scarpe a tacco alto, cintura, occhiali e borsa bianchi. Tamburellava le dita su un vistoso orologio da polso pieno di cristalli. I capelli platinati scintillavano alla luce del crepuscolo, mentre li ravvivava con fare seccato.

“La mia Lucy.” mormorò Sergej, fissandola con prepotenza. Si massaggiava il polso senza sentire nulla: un vecchio tic che la morte non gli aveva portato via.

“E’sempre bellissima” disse a bassa voce alla fine, abbandonando le braccia lungo i fianchi.

Uriel si girò di nuovo a fissarlo.

“Ma come puoi!” sbottò.

Sergej alzò la mano per zittirlo, e lui tornò a tacere, immobile, mentre una brezza tiepida lo attraversava.

A mezzo metro da Lucy, troneggiava un uomo. Era alto, poderoso, brizzolato. Da dietro non si vedeva, ma somigliava a Sergej in maniera impressionante. Suo fratello Danj sembrava un pilastro di un qualche viadotto o la solida torre di un sinistro maniero. Aveva quattro anni più di Sergej, ed era sempre stato un faro per lui.

Sergej si portò le mani al volto, come se avesse voluto piangere, invece si massaggiò gli zigomi. Lucy allungò una mano verso Danj, e gli accarezzò il braccio, facendovi scorrere con delicatezza anche le unghie. Lui si girò, e le fece l’occhiolino. Il prete vide tutto, ma continuò a blaterare sciocchezze pensando alla nuova ala destra che avrebbe esordito quella sera. Chissà se avrebbe anche segnato.

Sergej sorrise a quel gesto.

Uriel si voltò di scatto verso di lui. L’aria dell’angelo non era più algida: sembrava furibondo mentre puntava l’indice verso i due.

“Come puoi ridere!” sibilò “Sei stato tradito. Da tua moglie e da tuo fratello!”

Sergej mantenne il suo sorriso triste e non rispose. Uriel parve ringhiare, o forse era solo il vento.

Il becchino scese un attimo dal piccolo e silenzioso bobcat con cui aveva smosso il terreno. Accese una sigaretta e armeggiò sotto la bara ed il carrello che la sosteneva per agganciare il cordame con cui l’avrebbe sollevata. Poi chiuse il moschettone dall’altro capo sul gancio che spuntava sulla piccola benna.

Durante quelle operazioni, dietro Lucy e Danj, un uomo calvo sulla trentina e una donna anziana, confabulavano ad alta voce. Gesticolavano convulsamente. L’uomo si passo il pollice della mano destra lungo il collo ed indicò il feretro. Ridacchiarono, mentre il prete mormorava quello che poteva essere un salmo, oppure la formazione tipo della sua squadra. Erano il fratello e la madre di Lucy. Sergej inclinò la testa e osservò il siparietto, divertito.

“Adesso vivono con lei, lo sai vero?” disse Uriel gelido. “Nella vostra… anzi, nella tua casa. Tuo fratello dorme nel tuo letto, con la tua donna. Si sono presi la tua vita.”

Sergej finalmente degnò l’angelo della sua attenzione. Si girò lentamente, senza perdere la sua espressione triste, ma sorridente.

“E quindi?” chiese con tono neutro.

L’angelo stavolta ringhiò sul serio, e sembrò crescere, farsi maestoso. Il becchino tornò sul bobcat e con esasperante lentezza, sollevò la bara, lasciandola sospesa a mezz’aria sulla fossa. Saltò giù e accese un’altra sigaretta, lasciando al prete le ultime pastoie eccleasiastiche ed ai convenuti la possibilità di stringersi per l’ultima volta attorno al defunto. Girò l’angolo di una piccola tomba di famiglia e si dedicò al suo cellulare.

“E quindi? Eri un mercenario, dannazione!” si scompose Uriel. “Ti sei fatto tradire ed ammazzare dai tuoi cari. Ora scopro che lo sapevi! Perchè non hai reagito? Non hai fatto nulla?”

“Perchè io stavo morendo.” disse placido Sergej all’angelo sconvolto. “Cancro al pancreas, incurabile. Senza saperlo, me l’hanno resa più veloce e indolore” concluse allargando il sorriso in un ghigno.

“La morte non basta a sopportare il tradimento di tutte le persone che ami!”

“Oh no, non tutte.” disse approfondendo il ghigno.

Poi la bara esplose. Le schegge, l’aria infuocata e i pezzi di cadavere schizzarono ovunque. I convenuti volarono via come fantocci, ricadendo senza vita.

Lucy sembrò rialzarsi. Si trascinò per qualche metro verso la fossa, poi cadde morta. Il suo vestito fuxia, era completamente rovinato.

Uriel lo fissò sbalordito, senza parole.

Il becchino emerse da dietro la tomba dove si era riparato, baciò qualcosa nella sua mano, e la rivolse al cielo assieme ad uno sguardo. Poi si incamminò all’uscita fischiettando.

“Non tutti mi hanno tradito. E ora mi puoi portare al mio seminterrato, ragazzo” disse Sergej, avviandosi verso un cono d’ombra che sorgeva minaccioso dal suolo.

Maicol

Arriva Bingo Bongo (ldcds ospita)

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare da una superficiale osservazione basata esclusivamente dall’analisi del nome, Bingo Bongo non era di colore, ma era bianco. Abbandonato orfano praticamente neonato dentro una legnaia infestata dalle piattole, era stato fin da piccolo male accettato dalla virtuosa comunità Brocobiavese, e quindi, da sempre relegato in una tarlata capanna nel bosco, di cui pagava pure affitto e tassa comunale. Il Lunedì, alle quattro e mezza del mattino, Bingo Bongo si alzò dalla sua lurida branda come tutti i dannati giorni alla solita ora. Era ancora buio pesto. Il lavoro cominciava alle sei, ma a lui toccava alzarsi prima. Per arrivare sul posto di lavoro c’era un’ora di cammino nel bosco, e in più, se non arrivava almeno mezz’ora prima di tutti gli altri, Otto lo puniva corporalmente. Ma non era tanto quello. Bingo Bongo in realtà aveva paura di Otto arrabbiato. Aveva paura della faccia di Otto arrabbiato che diventava brutta ma brutta, e poi aveva paura dello scettro di Otto arrabbiato che fischiava nell’aria tanto ma tanto, e poi ancora aveva paura della voce di Otto arrabbiato che ruggiva come il gorilla Gozzolla tanto ma tanto cattivo. Insomma aveva tanta, ma tantissima paura!

“Forse… sono un vigliacco?” Si domandò. Ma poi si rispose da solo “…e resterò vigliacco…”. Terminato di pensare ciò, Bingo Bongo raggiunse la tinozza d’acqua piovana ove era solito lavarsi, e per l’appunto, si lavò rovesciandosela in testa. Poi prese uno dei ghiri arrosto avanzati dalla cena domenicale, e cominciò a masticarlo. I ghiri li catturava lui, a mani nude, e poi li cucinava sul fuoco infilandogli uno spiedo nel culo. Avevano un sapore selvatico e stopposo, ma non sapeva cuocersi altro. Era uno spettacolo vederlo: alto più di due metri, pesante centoventi chili e fradicio di acqua piovana, mentre, nel buio della notte, sputava ossa di ghiro come fossero noccioli d’albicocca. I suoi vestiti erano quelli provenienti dal volontariato delle vecchie del paese. Il maglione, troppo piccolo, gli lasciava scoperta la pancia fino al pelo pubico, ed i pantaloni, troppo corti, si abbassavano mettendo in mostra il fondoschiena. Del resto, per un gigante del genere non esisteva la misura giusta. Quindi si mise in marcia per raggiungere il cantiere. Sarà utile precisare una cosa: una qualsiasi altra persona, partendo dalla capanna, non avrebbe impiegato un’ora di cammino, ma Bingo Bongo era solito fermarsi per ogni stupidaggine. I lacci delle scarpe gli si slacciavano di continuo e perdeva tempo a riallacciarli. Passava un gracco, e si fermava a salutarlo: “Ciao signor gracco… come va? Dove stai volando di bello… Ehi! Uccello, perchè non rispondi ?”. Oppure si fermava ad annusare i fiori, e spesso se li mangiava pure. Talvolta prendeva una farfalla ed ovviamente, nel tentativo, la spappolava. Quando poi apriva la mano, il poetico insetto era letteralmente stampato sul palmo, ed allora lui le chiedeva scusa: “Oh! Povera farfallina… ti ho fatto un po’ male…”. Quando vedeva un nido, solitamente s’arrampicava sull’albero con l’agilità di un scimmia, in cerca, diceva lui: “Delle uove fresche appena munte”. Da quel momento il destino del nido era segnato. Con una manata lo rovesciava per vedere se “uscivano le uova”, generalmente sterminando tutti gli uccellini. Oppure si bloccava di fronte al rumore delle api cattive. Per Bingo Bongo, tutti gli insetti che facevano “bbzzzzzz” erano api cattive. Non importa che fossero vespe o mosche, quando sentiva avvicinarsi un “bbzzzz” urlava: “Le api cattive! Aiuto!”.

E scappava, perdendo altro tempo. Quando vedeva una mandria al pascolo, comprese le capre, invece gli correva incontro urlando: “Mucche! Mucche! Latte! Latte!” I poveri armenti, di fronte a quella specie di energumeno selvaggiamente proiettato contro di loro, fuggivano terrorizzati come i branchi imbizzarriti dei film western, mentre solitamente la corsa di Bingo Bongo terminava scivolando su d’una merda. Un’altra sua caratteristica era l’innato, razionalmente inspiegabile senso dell’orientamento. Per quanto uscisse dal sentiero, cambiasse strada, attraversasse il bosco, riusciva sempre a trovare la sua capanna o il cantiere. Ma insomma, quel giorno, a Bingo Bongo gli si erano slacciate le scarpe già quindici volte, aveva scacciato due branchi di mucche, ucciso sei farfalle e sterminato due nidi. E non era ancora a metà strada! Ad un certo punto, uscendo dal bosco, gli apparve una radura. Era uno di quei grandi prati di montagna, pieni di fiori variopinti e profumati. I colori brillavano intensamente, proprio come se restituissero generosamente la luce di quel limpido sole nato di lì a poco. Come li vide, Bingo Bongo cominciò a correre a perdifiato, allargando le braccia come se volesse abbracciarli tutti. “I fiori, i miei amici fiori…” gridava. Sembrava un gigante rimasto bambino. Si rotolava nel campo, saltava, li sniffava, non se ne perdeva uno. Poi cominciò ad estirparli, e quindi a mangiarseli. Appena trovava un fiore, lo annusava e diceva: “Tu sei buono, adesso ti mangio, Gnam!”. E addio bel fiore. Qualche tempo dopo, durante il processo contro di “loro”, il suo avvocato difensore addusse come attenuante il fatto che, cibandosi il Bingo Bongo solo di ghiri, era costretto a compensare la dieta con vitamine provenienti dai fiori. In realtà nessuno in quell’aula sapeva se i fiori contenevano vitamine, e anche se l’avessero saputo avrebbero dovuto ingaggiare un perito, perciò preferirono proseguire con gli altri capi di imputazione. Del resto molte cose di “loro” restarono oscure. Per esempio, le autorità non capirono mai se Bingo fosse il nome e Bongo il cognome, o se il contrario, o se fosse solo un soprannome. Ma questo avvenne tempo dopo. Insomma, tornando a noi… quel giorno si trovava da quelle parti il Guardacaccia e Guardiscarica, l’arcigno Matildo Saturnio. Il vecchio Matildo sentì delle urla provenire da lì vicino, ed in parte incuriosito, andò a controllare. Superò quindi il cartello con la scritta “VIETATO RACCOGLIERE FIORI”, e proseguì fintanto che non gli apparve l’immonda scena: Il prato, forse il più bel prato fiorito di Brocobiava, era per metà devastato, mentre seduto al centro il Bingo Bongo manducava un gigantesco mazzo di fiori con la stessa delicatezza dei giganteschi erbivori precedenti al Pleistocene. Matildo estrasse il blocco delle contravvenzioni e si diresse in direzione del gigante, il quale smise momentaneamente di ruminare. Arrivato, Matildo lo guardò negli occhi con cattiveria, e Bingo Bongo cominciò a tremare. Assurdo! Un gigante alto oltre due metri e forte come un rinoceronte che tremava di fronte ad un vecchio di quasi settant’anni, alto un metro e un cazzo, e per di più con gli occhiali! Gli sarebbe bastata una mano per trasformarlo in una frittata! Ma non avrebbe mai osato, poiché egli, anzi “loro”, erano vigliacchi. Matildo lo sapeva, e per di più (grande paura) indossava la divisa. “Brutto deficiente, guarda cos’hai combinato! Ma stavolta me la paghi cara, anzi, carissima!”. E ciò detto Matildo estrasse la macchina fotografica e immortalò il campo devastato insieme a Bingo Bongo con i fiori ancora in bocca. Quindi impugnò la penna d’ordinanza e compose una multa comminando il massimo previsto dalla legge. Quando gliela porse, Bingo Bongo la raccolse con mano tremante, e domandò: “Signora guardia, perchè mi ha dato i numeri?”. Matildo si fece paonazzo: “Pezzo di cretino! Quei numeri sono i soldi che dovrai pagare, e come, se li dovrai pagare! Perchè altrimenti, questa è la volta buona che ti faccio internare!”. Bingo Bongo era così terrorizzato che non riusciva a muoversi, ed il suo povero stomaco, contratto tra incontrollabili spasmi di tensione, scatenò un’immonda flatulenza. Matildo si tappò il naso con un: “Santo cielo, che puzza di merda!”. Bingo Bongo era davvero dispiaciuto, ma come poteva riparare? D’un tratto gli venne in mente un film con un tipo bello e ricco, un tale Giacomes Bond, che aveva fatto una cosa, e l’aveva fatta al ristorante ed era una cosa buona, e quindi decise di farla pure lui. Perciò restituì la multa al Matildo dicendo: “Metta pure sul mio conto, signor cameriere…”. Matildo esplose! Era così incazzato che Bingo Bongo dal terrore andò in delirio: Vide la faccia di Matildo ingigantirsi come la bocca di un Cattivosauro Recs che voleva mangiarselo, e fuggì urlando.

Smise di correre solo quando raggiunse il cantiere, naturalmente in ritardo. Come lo videro, lo accolsero le parole di scherno dei tre operai di colore. Abdul Kilimangiaro urlò, rivolgendosi a Otto: “Capo, capo, guardi, è arrivato Bingo Bongo, che nel culo te lo pongo”. “É arrivato Bango Bingo che nel culo te lo spingo” gli fece eco Omar Safari. Mentre Togo Nilo concluse con “Ecco arriva Bingo Bango, che nel culo te lo spando”. “Silenzio!” urlò Isotto, tra il rumore delle seghe a nastro. Dunque sollevò la sua verga facendo il gesto di colpire. Ma non avrebbe mai osato. I tre neri erano protetti dalla legge e pure iscritti al sindacato, e ciò significava che non poteva nemmeno insultarli. Inoltre maneggiavano la sega a nastro, ed era meglio essere prudenti. Otto perciò si morse le labbra cercando di contenere la libidine: come avrebbe voluto offendere i tre extracomunitari di colore sfoggiando le più intriganti frasi razziste del suo vocabolario proibito. Ma ecco che… gli apparve Bingo Bongo… e allora, finalmente il vecchio capocantiere potè liberare tutta la sua lussuria frustrata! E dunque colpì, trasfigurando la regal verga sul corpo dello sciagurato gigante come fosse il gigantesco fallo vendicatore di un Dio pagano e crudele! Il bastone si abbassava ritmicamente sul povero Bingo Bongo, tormentandolo nel corpo e nello spirito. Il tapino si inginocchiò come un martire, ma Otto non ebbe pietà, e anzi, mentre lo bastonava comincio a sbavare di concupiscenza: “Vigliacco, ribellati se hai il coraggio, ma non ce l’hai, perchè sei vigliacco!” “Sì, sì, sono un vigliacco…” pianse Bingo Bongo, ma quelle parole, anzichè smuovere un anelito di pietà nel cuore di Isotto, ne eccitarono soltanto la sadica frustrazione. “Io ti faccio nero!” sentenziò il vecchio capocantiere, e così dicendo, e per godere del suo più profondo e feroce razzismo, immaginò che Bingo Bongo, anche se di pelle bianchissima, si trasformasse in uomo di colore, così che egli potesse bastonare un negro. Ad un certo punto Bingo Bongo strappò con forza sovrumana la sega circolare accesa dalle mani di Omar Safari. Omar si ritrasse, pensando: “Questa volta il vecchio finisce a pezzi”. Anche Otto si bloccò, percorso da una inquietante riflessione: “Forse… che abbia esagerato?”. Ma Bingo Bongo orientò la sega verso il tronco e cominciò a segare. Segò quel fusto con sapiente maestria, e la sega parve davvero un piccolo strumento tra le sue mani. I pezzetti di segatura volarono tutt’attorno mentre i tre operai e il vecchio osservavano la determinazione e la precisione con la quale il Bingo Bongo svolgeva il suo lavoro. Poco dopo ciascuno tornò al suo ruolo, e per un po’ nessuno ebbe più niente da dire.

Fonta

Non sei tu che non cachi, ma gli altri che ti hanno emarginato (ldcds ospita)

Tutti abbiamo dei problemi, grossi o piccoli che siano, il difficile sta nell’inquadrarli, quando ti capita, la più piccola delle cagate sembra un grosso guaio.
Domande e dubbi che stanno nascosti nel nostro ipotalamo come troll sotto ad un ponte durante il giorno, la notte invece escono, appena poggi la testa sul cuscino li senti li che mormorano.
Sei un fallito bello mio, non combinerai un bel cazzo di niente, uno di questi giorni ci farai un buco nel tetto con una bella canna rigata. Cosa credi che sia il bozzo che senti quando ti fai la barba?
E via di questo passo.
Ma c’è un problema che mi interessa in particolare, è quello che aveva Luigi Melloni.
Luigi Melloni era nato vicino Pavona nel 1983 da un’umile famiglia di contadini, e con contadini non intendo gente che lavora la terra, ma chi ci campa con quello che sputa il proprio fazzoletto ghiaioso e pieno di erba cattiva.
Luigi crebbe insensibile a quel mondo, odiava ogni cosa: ogni rastrello, vanga, trattorino, cane pulcioso e cafone che abitava nella sua casa o una qualsiasi nei dintorni. Per questo decise di studiare, per andarsene.
Entrò a ragioneria si diplomò e tanti saluti a bidonville.
Con i pochi risparmi che aveva prese un piccolo appartamento in affitto a Santa Palomba e fece sciogliere bracciali e catene d’oro (regalo sudato con ore di interminabili sproloqui religiosi e pittoresce feste a base di ostia) per avere un gruzzoletto con cui cominciare una nuova vita.
Senza fatica trovò un lavoro decente e pure una ragazza, mediocre per gli standard cittadini ma che lui trovava bellissima e speciale, lontana anni luce dalle buzzicone coi baffi che vivevano dalle sue parti o dalle coatte stupide e sciape che infestavano piazza Berlinguer.
La sua vita stava prendendo per la prima volta una direzione che lo soddisfava, ma soprattutto, di cui aveva il controllo.
Il Ragionier Melloni però non era felice, preso dal lavoro non lo notò subito, ma col passare dei giorni e delle settimane il suo problema divenne palese.
Luigi non cacava.
Se ne accorse una mattina di Settembre, preso di sorpresa dall’inaspettato fresco mattutino dopo un’estate torrida, non sentì il classico stimolo alla prima boccata di tabacco (viziaccio preso al lavoro) e si stranì.
Quando è stata l’ultima volta, Sabato o forse Venerdì?
Sembrava assurdo, eppure non ricordava con precisione.
– Cos’hai Melloni?, gli chiedevano i colleghi, – sei pallido, contestavano.
– Quanti caffè abbiamo intenzione di prendere Ragioniere? Incalzava il Dottor Nanni, socio anziano dello studio e rompicoglioni di settimo dan.
-Stamattina l’ha passata tutta alla macchinetta, la pago per far di conto non per macchiarsi i denti.
Ma cosa poteva rispondere il povero cristo?
Dottore non caco da non so quanto, davvero non lo so più neanche io, 4 caffè e 15 sigarette non sento nemmeno un brontolio e ora mi brucia pure lo stomaco.
No, no, meglio tacere, chiedere scusa e non pensarci, tornato a casa un bel lassativo e passa la paura.
Ma due blister e cinque giorni dopo non passò un bel niente dallo sfintere del povero Luigi, i muscoli dell’addome erano duri e contratti come pelle di tamburo, faceva fatica a sedersi, ad alzarsi dal letto e a camminare, inoltre per diretta conseguenza aveva anche smesso di mangiare, non c’era posto nel suo corpo magro da zappatore per quel mare di cacca, dove diamine si stava nascondendo? Era per via delle settimane di pranzi di volata e cene riscaldate?
In ogni caso non avrebbe rischiato di peggiorare ulteriormente la situazione ingerendo altro cibo.
Passarono altri giorni e , stanco di soffrire, pensò di agire direttamente e fisicamente sul problema, si sedette sulla tazza e cominciò a spingere e spingere, niente, per quanto sudasse e sentisse il cuore battere più svelto di tre tempi non riusciva a smuovere nulla, disperato infranse il più sacro dei tabù degli eterosessuali timorati di dio, lentamente ma con decisione cominciò ad esplorare il suo retto.
Ansimante e preoccupato muoveva il suo indice come un salmone su per una cascata, ma il canale era vuoto – Figlio di una cagnà! Esclamò, arrivato a quel punto non poteva certo arrendersi, qualcosa DOVEVA trovare, spinse ancora più in fondo passando al dito medio, il centimetro di differenza fruttò l’agoniato contatto, c’era, era li.
-Si, Dio grazie, si, si, si!
Ringraziò i suoi avi, la Madonna e i pochi santi che ricordava, le lacrime gli rigavano il volto e gocciolavano sul tappeto di pelo marrone, riempiendogli le cavità facciali di muco chiaro.
La gioia, aimè, si interruppe quando tastò meglio. Non poteva essere roba sua.
Era dura come la pietra e sembrava avesse una sorta di rilievo, sbiancò terrorizzato e iniziò a sudare freddo senza smettere di singhiozzare, preso dal panico afferrò la matita che teneva accanto alla tazza insieme alle parole crociate, e la usò come sonda per spostare il corpo estraneo, si fece forza e cercò di scalzarlo dalle pareti del suo colon senza pensare a cosa fosse e come fosse finita li. Finalmente ottenne una presa solida, iniziò a tirare e tirare ignorando il dolore e la paura, il suo ano, ormai dilatato all’inverosimile, ospitava tutte e 5 le dita ma non era ancora abbastanza largo per quella cosa. Luigi prese un grosso respiro, morse il colletto della sua t-shirt Italia 90 e diede uno strattone. L’oggetto gli scivolò dalle dita e finì nella tazza tintinnando, lo sforzo e il dolore gli causarono uno spasmo facendolo rizzare sulle gambe intorpidite dal tempo passato sulla tazza, scivolò sul pavimento bagnato e cadde in avanti battendo la sua zucca pallida sul bidet sbeccato. Riavutosi, chissà quante ore dopo, cominciò a guardarsi intorno con un solo occhio aperto e la faccia ancora a contatto con le piastrelle smaltate del bagno, il sole freddo delle 6:00 antimeridiane filtrava dalla tapparella semi aperta. Con non poca fatica si staccò dal pavimento facendosi forza con le sue braccia flaccide, sentiva qualcosa di secco sulla faccia e a giudicare dalla silhouette marrone che aveva lasciato sul pavimento doveva essere il suo sangue.
Si sciacquo la bocca e il volto nel bidet osservando il suo riflesso macellato sul rubinetto di metallo lucido, aveva un sopracciglio gonfio e spaccato che gli teneva chiuso l’occhio destro.
Stava quasi per andarsene pretendendo di aver scordato la situazione che lo aveva portato a ridursi così, ma come poteva dimenticare? Quell’affare era ancora nel water.
Ingoiando una noce di saliva si sporse sulla tazza per controllarne il contenuto, tra i vari pezzetti di escrementi e il sangue una moneta dorata grande come un CD faceva capolino sbrilluccicando, aveva un grosso “1” impresso sulla faccia visibile.
Luigi chiuse il coperchio del water lasciandola lì, come un aborto nel bagno di un autogrill, e senza dire una parola si tolse i vestiti e si gettò sul letto sfatto a fissare il termosifone.
Là rimase, ignorando gli squilli del telefono, il suono del citofono, i morsi della fame e le domande che gli ronzavano in testa, fino a quando il sole se ne tornò a nanna e anche lui riusci a chiudere gli occhi sprofondando in un sonno febbricitante e pieno di paura.
Luigi non ricordava stesse facendo alcun sogno, quando una sensazione dolorosa e familiare gli colpì le viscere nel pieno della notte svegliandolo. Dopo ere geologiche il suo intestino si stava muovendo, da una parte si sentiva felice, dall’altra il ricordo della sera precedente e il fatto che chiaramente non avrebbe raggiunto la tazza in tempo lo preoccupavano non poco.
Per sua fortuna il dilemma non durò a lungo, un doloroso fiotto di diarrea esplose dal suo fondoschiena superando la debole barriera della coperta e si infranse sulla parete come un disgustoso fuoco d’artificio. Con la voce strozzata e trattenendo il respiro, Luigi attese che il suo intestino si contraesse ancora tre volte, sputando qualcosa di solido, prima di prendere fiato.
Affannato, e con la testa che gli girava per lo sforzo e l’odore pungente, sollevò la coperta, immersi nella brodaglia marrone c’erano una grossa chiave blu, la coppia di ciliege più grandi che avesse mai visto e una specie di smeraldo.
Velocemente appallottolò tutto e lo lanciò fuori dalla finestra, pentendosene un microsecondo dopo quando il contatto fasullo tra i suoi neuroni si aggiustò ricordandogli che la sua finestra dava nel cortile interno e c’erano ben pochi posti da cui quello schifo poteva essere uscito.
Nelle condizioni in cui era si sorprese di preoccuparsi ancora delle apparenze, sarebbe senza dubbio dovuto andare in un ospedale per quella storia e raccontare che cacava roba che sembrava uscita dallo scrigno di un pirata, decine di medici l’avrebbero esaminato, luminari provenieni da tutto il paese, e forse pure da fuori, dall’America! L’avrebbero messo sulla copertina di qualche rivista medica o, come minimo, in un trafiletto di Metro con scritte solo le iniziali e tutti i suoi dati personali, di modo che la gente possa dire di conoscerlo.
Rabbrividì al pensiero, ringraziando che il portinaio fosse un lavoro morto con la carriera di Jerry Calà e che nessuno avrebbe mai sospettato che lui, con quei modi formali ed eleganti, lanciasse palle di merda dalla finestra, la colpa sarebbe di certo andata a Claudio Rosi, il dodicenne asmatico e mezzo scemo che viveva al piano di sopra, oddio che fosse mezzo scemo lo sospettava lui, non è che ci fossero prove tangibili, ma una volta l’aveva visto urlare qualcosa e fingere di sparare fulmini dalle dita e tanto gli bastava.
Stavolta Luigi non si chiuse nella contemplazione muta, partì diretto a pulire ogni singolo angolo della camera e del bagno (non sollevò però la tavoletta) e, all’alba, si concesse una doccia.
L’orrore pareva finito, stava meglio e sentiva il suo intestino borbottare felice per lo spazio conquistato con il terrore e col sangue, guardò un per un po’ la televisione finchè alla terza replica di uno spot di coperte con le maniche, crollò distrutto sul divano.
La fase REM si manifesto al Melloni in tutta la sua grazia elefantina, treni a vapore entravano e uscivano dal suo ano martoriato, fiumi di cacca macchiavano ogni cosa con croste dure come la pietra. Il trillo odioso del citofono fu per una volta gradito e lo strappò da quella tortura.
Con la testa che girava, come fosse avvitata poco stretta, sollevò la cornetta a muro.
– Prant, disse, ma come era ovvio pronto non lo era.
– Luigi?
– Siiii?
– Luigi sono io, ma che cazzo di fine hai fatto? , era Carmela la sua ragazza, -perchè non rispondi al cellulare? Ci hai fatto preoccupare tutti.
– Tutti chi?
– Come tutti chi? Me, i tuoi genitori, al lavoro, Fabio mi ha detto che il Dottor Nanni è incazzatissimo, gli potevi fare almeno una telefonata!
– Fabio? E chi è Fabio? , chiese ragionevolmente sorpreso, non conosceva nessuno che si chiamasse così.
– Ma stai male davvero, Fabio Cima!
Fabio Cima, noto ai più come “Il Cimone”, era il collega in assoluto più odiato da Luigi, una creatura subumana con mani pelose come ascelle e una mascella che sembrava scolpita da uno che non aveva voglia di lavorare. Frase preferita: “Questa me la scopo”.
– epperchecazzocimahailtuonumero
– Ehhh? Ma come parli? Dai fammi salire che hai bisogno di aiuto.
Luigi fu in grado di rispondere solo con un – Mh e alzò l’indice per schiacciare il pulsante d’apertura, a pochi millimetri dalla pressione gli tornò in mente cosa nascondeva la tazza.
Chissà quanto vale quel coso.
– Noo senti non puoi salire, e poi qui è un macello, sono contagioso e… , la frase gli morì in bocca Dio…
– Luigi ma che hai? Mi stai spaventando.
Attaccò la cornetta tremando, se quello della notte prima era stato il trailer che anticipa il film, ora sentiva avvicinarsi il grande slam, lo strizzone che avrebbe messo fine a tutti gli strizzoni, una cacofonia di mugolii interni ed esterni lo avvolse, si inginocchiò reggendosi lo stomaco e appena il citofono suono ancora, il suo intestino esplose.
Il getto, spaventosamente potente, attraversò il piccolo appartamento e si schiantò contro la porta a vetri oscurando parzialmente l’ambiente, la merda però non accennava a finire e Luigi poteva sentirla scorrere, calda come lo Stige.
Morirò, morirò qui nella mia merda e tutti penseranno che mi sono intasato l’intestino ficcandomi roba nel culo finchè non è esploso, tutti sapranno che quel lenzuolo l’ho tirato io.
Qualcosa d’incredibile e spaventoso interruppe il torrente di paranoie di Luigi, sentiva qualcosa muoversi dentro di lui, qualcosa che spingeva per uscire, qualcosa di vivo.
Immediatamente si girò sulla schiena e cercò di opporre resistenza a quella forza dirompente: serrò le gambe, strinse le chiappe e addirittura arrivò a tapparsi l’uscita con le mani, ma tutto fu vano.
Le sue difese si infransero con un tremito quando un fascio di luce blu elettrico scaturì dal suo ano allargandosi in un cono e una figura umana ne uscì urlando.
– IT’S A MEEERDA! disse sorpresa.
– Claudio ma che hai combinato? Guarda qua che schifo! E che puzza!
Luigi era impietrito, non sapeva cosa dire o che fare. Lo biasimate?
Quando racconto questa storia c’è sempre qualcuno che avrebbe saputo perfettamente come comportarsi. Se fossi stato io. Bhe al suo posto io.
Stronzate, avreste detto la stessa cosa che disse Luigi.
– Ma io non mi chiamo Claudio.
– Cosa? -la figura lo fissò sorpresa.
Scesa l’adrenalina e abituati gli occhi alla semi oscurità marroncina, riuscì a metterlo a fuoco.
Era un tipo grassoccio e basso, con dei grossi baffi neri, un cappello ridicolo, grossi guanti da clown e un’orribile salopette di jeans con sotto una maglietta rossa, sembrava del sud e lo fissava con un’espressione severa ed i pugni piantati sui fianchi.
– Come sarebbe a dire non ti chiami Claudio? E come ti chiami?
– Luigi, Luigi Melloni. rispose.
– LUIGI! E che hai hai combinato ragazzo? Sarei dovuto uscire dalla console di un bambino disilluso, te mi sembri un po’ grandicello per essere un bambino.
– Io cosa ho combinato? Hai idea di cosa ho passato per questa COSA, perchè diamine sei usciti dal mio culo?
– Non saprei giovanotto ma se è andata così ci deve esse certamente una ragione, sei stato scelto per riportare l’armonia nel Regno di…
– No, no, guarda, ti fermo qui che ho già capito, voglio che tu e qualsiasi altra cosa sia rimasta dentro di me ve ne andiate da casa mia in particolare e dalla mia vita in generale, non ho idea di chi tu sia ma che sei un accollo l’ho capito dal momento che mi sei uscito dal culo, a dire il vero l’ho sentito quando eri ancora dentro, deve essere quello che chiamano istinto materno.
– Ma come fai a non sapere chi sono? Lo sanno tutti! E poi non sei curioso di sentire cosa ho da dire?
Luigi cominciò a spazientirsi, si alzò in piedi e prese a camminare verso l’invasore che lo guardò come si guarda solo qualcuno che è coperto di merda.
– Sono curioso di sapere se ho ancora un lavoro, sono curioso di sapere se la mia ragazza si fa uno che potrebbe riempire una piscina con il suo testosterone e sono curioso di sentire se il mio culo farà ancora un suono quando scureggio. Del resto non m’importa.
Finito di parlare afferrò la maniglia della porta e la spinse verso il basso, i cardini cigolarono e la luce delle scale illuminò il soggiorno.
– Fuori, sillabò con tono perentorio.
Lo sconosciuto si mosse come per parlare ma si rese conto subito che non era quello il caso che si poteva risolvere con un sorriso e una stretta di mano, mogio mogio uscì dalla porta e si avviò verso le scale.
– Posso riavere la mia moneta?
Luigi chiuse la porta senza rispondere, attese il tempo necessario per essere certi di non incontrare quel tizio per le scale e iniziò a prepararsi per il lavoro.
Tazzona di cappuccino, ennesima doccia, sbarbata ed era pronto.
Scese le scale di corsa con una fetta biscottata tra i denti, controllando continuamente l’orologio.
Uscito dal portone si gettò nella fredda mattina autunnale, schivando le sue lenzuola al centro del vialetto, si accese una sigaretta e guardò il cielo plumbeo e minaccioso, il vento gli scompigliava la cravatta annodata male e i palazzi intorno sembravano le gambe di giganti nascosti tra le nubi, pronti a pisciargli in testa.
Tirò una lunga boccata e si chiese se nel mondo su cui aveva sputato sarebbe stato caldo e al sicuro.

Mr. Black

Come quattro anni fa (ldcds ospita)

Metto su l’acqua, dallo stesso identico pentolino sottile, che lascia scaldarsi velocissimo. Giusto la misura di una tazza.
Prendo il tè, lo zucchero, il limone, tagliandone una fettina minuscola. Giusto per dare un po’ di sapore.
Troppe volte ho dovuto buttare via tutto per colpa del limone.
Anche questa volta trovo un limone vecchio, mezzo nero, arrotolato malissimo in un sacchetto di nylon bianco, forse della farmacia all’angolo.
Ci sono due pezzi.
Uno molto piccolo. Una fetta mezza schiacciata.
La prendo con due dita e faccio che pestare il pedale del bidoncino nero.
Bum.
Qualcosa mi ferma.
No.
Potrebbe ancora servire.

Conservo proprio tutto?
E’ più forte di me…

Sono nella stessa cucina di quattro anni fa.
Non sembra cambiato niente, eccetto che all’epoca a quest’ora stavo in pigiama, mentre ora anche in casa passo le ore completamente vestito.
Chissà perché, poi.
Stessa cucina, stesso pentolino. Tazza diversa.
All’epoca usavo bere tazzoni di tè grossi come terrine.
Schifo.
Un tè annacquato con una grossa fetta di limone tonda a rimbalzare a gioco del mio stesso mulinello.

Quattro anni fa…

Non avrei mai immaginato di rivedermi qui, ora, fare la stessa identica schifosissima cosa.
Quattro anni fa passavo le giornate aspettando. E così ora.
Passo la vita ad aspettare. Ora l’acqua per il tè come quattro anni fa.
Nessuna voglia di fare merenda con pane e prosciutto, mai stato quel tipo di persona. Ma nemmeno spendere soldi inutili per merendine della Ferrero partorite da bambine angolesi.

Voglia di ricordi…

Sto tornando indietro? Si può? Anche solo per un attimo…

Sto al gioco.
Decido di metter su le canzoni che ascoltavo all’epoca, come per convincermi.
Penso solo per un secondo a cosa ascoltassi quattro anni fa.
E’ facile.
Sorrido.
Beck.
Metto su quella che mi piaceva di più. Che anche il ricordo scaldi velocissimo.

your sorry eyes
they cut through bone
they make it hard
to leave you alone

Penso che stronzo com’ero scaricavo ancora le canzoni, mentre ora mi basta trovare il video.
Non voglio trovarle tutte, altrimenti l’incantesimo si spezza.
Decido di ascoltare solo questa a ripetizione.
Copio e incollo l’indirizzo su un altro sito e alzo il volume delle casse fino a livello Cucina.

Torno di là, verso l’acqua, il filtro e aspetto.

Intanto vado a pisciare, lasciando la porta aperta a far accomodare Beck. Se vuole anche ciucciarmelo è benvoluto.

there’s too many people you used to know
they see you coming they see you go

Piscio di traverso per non coprirlo.

this town is crazy
nobody cares

Vedo nel cesso della roba marrone. Sembra che qualcuno si sia dato da fare, poi capisco. E’ terra. Giorno di spinaci. La tirò giù con l’ultimo schizzetto come un bambino che colpisce il deodorante per il water. Mai capiti quei cosi.

baby you are lost
baby you are lost
baby you are lost cause

Torno in cucina.
Cazzo, non mi sono lavato le mani.
Prendo il detersivo dei piatti e do una leggera strofinata sulle dita ancora impregnate d’uccello, che si trasforma velocemente in un uccello all’arancia niente male. Ci devo pensare quando tornerò a puttane la prossima volta.

Cinque minuti passati.

Tolgo il filtro e schiaccio l’acceleratore.
Bum.
Il talloncino rimane fuori.
Peggio per lui.
Bum.
Ghigliottinato!

Vado a controllare la stanza di mio padre.
Dorme.
La macchina sibila un bip rassicurante, una ninna nanna che finisce dritta dritta nei polmoni.
Aspetta pure lui.

there’s a place where you are going
you ain’t never been before

Ho voglia di sputare. Faccio per terra, a insultare la casa che per tutti questi anni mi ha tenuto con sè, come un bambino che piscia nel piatto dove ha mangiato. O una roba del genere.
Non sono tanto buono con le metafore.

Quattro anni fa non l’avrei mai fatto, penso, mentre intingo il primo biscotto di una lunga serie..

Quattro anni fa…

Che poi era Febbraio.

E adesso siamo a Dicembre…

Cazzo sono già cinque.

M.D.Vis.

Ero un pezzo grosso (ldcds ospita)

Chiariamo subito una cosa: io non sono certo uno stronzo qualsiasi. Ne ho sentite un fracco di storie, pretese e balle fantasiose sull’uguaglianza. Tutte cazzate. Non usciamo tutti dallo stesso dannato buco, se non in senso lato, perdiana!
Mentre la corrente gorgoglia gelida e trasporta il mio corpo verso un ineluttabile destino, questa convinzione si fa sempre più chiara ed innegabile. Io me lo ricordo quando sono stato scodellato, a me non la fate mica. Non ho le noccioline in testa, io. Accadde in una stanza di uno di quegli hotel di lusso, uno di quelli che il popolino guarda da fuori con superstizione, ben sapendo che non ci metterà mai piede se non per pulire il pavimento. Quanti di voi sono venuti al mondo in albergo? Ben pochi, forse nessuno: ci doveva essere un futuro per me, io avrei dovuto brillare.
Chi mi ha concepito era un fottuto pezzo grosso, e di conseguenza io sono un pezzo grosso, miei cari. Uno deve essere auto-consapevole, o finisce che ti mancano di rispetto. Chi mi ha messo al mondo lo ha fatto a costo di uno sforzo notevole. Era una sera di primavera, tiepida, di quelle che straziano i poveracci con troppi ricordi infelici aggrappati al cuore. Rammento una conversazione piacevole su di un terrazzo, una voce femminile calda e sensuale, e un cocktail dolce e forte, forse con troppo ghiaccio. Poi d’un tratto mi feci sotto di prepotenza e spinsi per venire al mondo, perche io mi sono sempre fatto rispettare signori miei, fin da subito: non aspetto i comodi di nessuno, io.
Ricordo un sforzo quasi inumano, un corpo che si contorceva intorno al mio per spremermi fuori: non sono certo un peso piuma, ho una bella struttura. Ricordo sofferenza, sudore e che il diavolo mi porti se non c’era pure sangue. Non ci furono grida, ma gemiti sì: non è da tutti serrare la sofferenza tra i denti e morderla perché stia zitta. Io discendo da qualcuno in grado di farlo. Non so quanto sia durato il tutto, ma d’altro canto quando vieni al mondo non hai mica un cazzo di orologio al polso, no?
Non ridete: tranne quello, ho perfettamente inciso tutto nella memoria, dannazione a voi. Ve l’ho detto che non sono uno qualsiasi. Quando venni adagiato in un bacile bianco ad un palmo dall’acqua, ci fu un suono di soffocato sollievo, un grugnito smozzicato, un sospiro inghiottito. Poi due occhi increduli si soffermarono dall’alto a guardarmi con sorpresa. Si sgranarono alla mia vista ed il sollievo e l’orgoglio erano palpabili: li avresti potuti stringere tra le dita e schiacciarli sadicamente. In quello sguardo però non vidi amore, nossignore. Era forse disgusto?
Cosa poi io abbia sbagliato non ve lo so dire: la mia parte credo di averla fatta tutta: non mi si chiedeva che di venire al mondo, e il diavolo mi porti se non l’ho fatto mettendocela tutta. Ero da solo. Nessuno venne al mondo con me, e visto com’è andata non posso che esserne felice.
Immaginate ora il mio sconcerto quando mi resi conto che stavo iniziando a scivolare verso il basso. Ve l’ho detto che ero adagiato vicino a dell’acqua, no? Poco a poco, il gelido flusso iniziò ad inghiottirmi. Cercai disperatamente un appiglio strappando pezzi di me stesso nella discesa, ma guardatemi bene: come avrei mai potuto farcela?
Gettai uno sguardo speranzoso agli occhi che mi fissavano dall’alto, ma in quelli vidi riflesso ineluttabile il mio destino. Persi la speranza quando fui coperto per tutta la lunghezza con un lenzuolo bianco, gettato in basso, come a nascondermi. Compresi che nessuna mano si sarebbe allungata a salvarmi: quelli erano occhi da spettatore, non da salvatore. Quello sguardo mi seguì fino alla fine, quando venni inghiottito del tutto e scivolai verso un fondale che si apriva a sua volta su chissà quali abissi. Poi ci fu un boato, il mondo si capovolse un milione di volte, e persi i sensi.
Mi svegliai galleggiando placidamente, al suono di uno sciabordio che echeggiava all’infinito nel buio senza fine che mi inghiottiva. Assieme a me, decine di miei simili, tutti con la stessa orrenda storia alle spalle. Silenziosi come anime sullo Stige, navigammo verso un qualche inferno che in mancanza di luce poteva essere anche un paradiso. Quale che fosse il luogo in cui eravamo finiti, non mi volli mescolare ai miei compagni di viaggio ed il perché ben lo sapete. Perché signori, io ormai l’ho capito: uno sciacquone mi ha sparato in una fogna, ed è quello il destino di un pezzo di merda quale io sono. Ma mi resta la consapevolezza di non essere uno stronzo qualunque.

Maicol

Binario morto (ldcds ospita)

Dietro la curva, nel punto che offre la peggiore visibilità al macchinista. Sdraiato col capo verso la motrice, che non mi salti in mente di sbirciare all’ultimo e farmela sotto, diventare uno di quei mortacci grotteschi e striati dai loro stessi bisogni corporali, l’espressione basita, ebete. Bastano e avanzano le trenta tonnellate della bestia in arrivo a strapparmi quel barlume di estetica rimastomi addosso. Tutto qui. I piani migliori sono sempre quelli semplici. Dritto verso un gesto condannato da tutti: educatori, religioni, istituzioni.
Se esiste una forma di pubblicità in grado di fare sempre presa, quella è il divieto.
Non è il mio caso comunque, anche se non mi ci spinge nulla di eclatante. Siete davvero così sicuri che la farsa culla-scuola-ufficio-bara meriti motivazioni speciali per essere mandata a fare in culo? Per forza lo siete, altrimenti staremmo qui a spartirci il binario.
Nel silenzio assoluto l’antifurto del Suv cinguetta felice – almeno lui – mentre le frecce confermano la chiusura porte con un doppio lampeggio. Rifletto sul gesto e lascio sfuggire un sorriso prima di proseguire.
Vi dico solo questo, e fatevelo bastare: perfino scendendo dall’auto per venire qui a morire, sono riuscito a sfondare una cacca fresca, immerso fino alla caviglia, trecento euro di mocassini Fratelli Rossetti in cuoio buoni per la raccolta differenziata. Un escremento sorridente nel bel mezzo del nulla: quando sei un predestinato, prima ti annulli e meglio è. La vita mi ha dato parecchio solo per il gusto di potermelo togliere. Di beffarmi.
Ho sfogliato a lungo il catalogo delle Ferrovie Nazionali. Scegli comodamente a casa tua il treno, gli orari, la destinazione che ti si addice. Insomma hai una mezza preview di cosa ti ammazzerà e quando. La scelta è caduta sul top di gamma: alta velocità, solo prima classe, consegna poco dopo le ventuno.
Mi allungo sul ciottolame fra le traversine, roba da fachiri. E accendo una North Pole, la prima della mia vita senza rimorsi per la salute. Socchiudo gli occhi ogni volta che aspiro, li riapro quando sbuffo il fumo verso le stelle.
Lei appare nel mio rettangolo di cielo verso la terza boccata. Lo vedi già da capovolta, a centottanta, che una così non la metteresti mai a novanta, ma oggi è un giorno sui generis.
« Ciao » dico muovendo solo la bocca.
« Ciao » bela lei continuando a fissarmi. Sparisce dal campo visivo, però non mi faccio illusioni. Ascolto infastidito la ghiaia scrocchiare sotto il suo peso mentre si sdraia. E’ il mio treno, la mia sacrosanta rotaia. Se non lo provate non capite il livello di insofferenza. Ma Lei lo capisce benissimo, vista l’ora, il luogo e le comuni motivazioni.
« Nessuno mi ha desiderata, mai » si giustifica quasi. Parla senza fissarmi. Immagino ore di specchio inutile, a studiare se da una certa angolazione, almeno una, quel naso è accettabile, quel mento non fa la pancia. Prodotti cosmetici che ti dissanguano. Doppie punte. Pelle grassa.
« Io ho desiderato troppo » rispondo, e cazzo se le sono grato, perché in questo momento l’ho finalmente messo a fuoco.
Le prendo la mano, dita sgraziate, tozze. Sussulta, dopo un attimo stringe, stringe da forsennata e la sua fifa mi catapulta nel ruolo del forte, mio malgrado. Arriva il primo fischio lontano, pressoché impercettibile. Io ho già deciso, mi è bastato un istante. Dopo una vita sopra le righe, voglio morire sottotono, con una scopata poco attraente, le mie scarpe migliori infangate di merda. Le rotolo sopra senza incontrare resistenza, anzi: un fuoco, la voglia di anni che esplode – nonostante la situazione -lavandole via di dosso il timore.
Mi avvinghia. Ho un calcinculo negli slip. Quel suo maneggiare l’asta da inesperta, indescrivibile. Scopro nuovi feticci, troppo intensi e troppo tardi. Mordo le zinne grosse e sugnose. Ho il suo indice nel culo « Scusami, scusami » ma intanto non si ferma, né io voglio che smetta.
Le schiocco baci sulla passera, gustandola come se fosse l’ultima passera della mia vita poi realizzo che è l’ultima passera della mia vita e forse dovrei darci dentro con meno remore e maggiore ispirazione.
Lei rantola « Ho appena fatto pupù, prima, dietro la scarpata. Avevo tanta paura, si sente? »
Io rimugino.
Zoccola deficiente, amavo quei mocassini.
« Si sente sì » vorrei gridarle, anche se è falso. Resto ancora un po’ a fare lo struzzo tra quelle cosce grosse, avessi avuto mia mamma ad abbracciarmi anche solo la metà di così. Non so come veniamo, io, lei, di mano o di bocca, è travolgente. Ruzzolo sulla destra, stracciato dal piacere, pronto al gran finale; tre spanne separano il nostro affanno ritmato.
Il treno ci zooma addosso, metallo contro metallo, teso verso la frazione di secondo in cui sarà metallo su carne e poi più niente.
CLA-CLANG
Ripenso ai mocassini Fratelli Rossetti nella differenziata. Dove cavolo vanno? Tecnicamente sono catalogabili come secco, ma resta aperta l’opzione scarti organici.
CLA-CLANG
Adesso è veramente vicino, quasi vorace. Sbrana lo spazio, annulla il tempo,
Calmo, calmo, stai calmo. Non senti niente. Non la guardare, se frigna vai in crisi anche tu, non guardarla e resta tranquillo
Chissà quali stronzate si inventeranno su di noi i rotocalchi: l’amante, la storia torbida di provincia, anni di sotterfugi, chissà.
CLA-CLANG
Restiamo finalmente sereni, paralleli a un cielo di china, meraviglioso come quasi tutte le cose quando sei a un passo dal perderle.
Lei si schiarisce la voce per dirmi qualcosa. Non riesce. Il diretto ci è sopra. Un colpo inimmaginabile alla spalla.
Spavento.
Dolore.
Ti atterriscono i suoni: ossa friabili come biscotti, marmellata, unghie sulla lavagna, sassi giù per la tromba delle scale. L’anatomia umana si disintegra in un concerto.
E’ tuo il sangue che ti scalda la faccia?
Riapro gli occhi. La mano di Lei nella mia. Il resto di Lei srotolato lungo la linea ferroviaria in tutte le forme, tutti i colori che mai immagineresti. Inquadro l’orizzonte fra le punte dei piedi. Alla mia sinistra i binari.
Entrambi i binari.
Perché quando le sono rotolato via, l’ho fatto dal lato sbagliato.
E sento il conducente duecento metri più in là a maledire sé stesso, il mondo, il lavoro. Piange sopra i pugni bovini appoggiati al locomotore, senza guardare, piange. Singhiozza al limite del voltastomaco.
Barcollo verso di lui, con le mie tre mani, sfregando le scarpe nell’erba umida, mai vista così rigogliosa in questa stagione.
Bella.
Raggiungo il macchinista. Gli appoggio una carezza sulla nuca, taurina e scossa; ancora non so cosa dirgli, ma sono sicuro che qualcosa di sensato riuscirò a tirarlo fuori.

Cz

Un piccolo favore (ldcds ospita)

Nulla mi infastidisce più della cattiva musica. Rimbalza dentro ai timpani come una pallina in un campo da squash, con parabole imprevedibili sulle pareti del cattivo umore. Tocca nervi scoperti, riesuma ricordi accuratamente seppelliti, innesca dissonanze e cacofonie nei pensieri. Al ritmo di questo insopportabile suono, una selva di idioti vestiti con roba griffata o con plausibili contraffazioni, si dimena e si contorce, accaldata, al ritmo plastificato di un sintetizzatore, fingendo di divertirsi.
L’auricolare convoglia nei miei padiglioni un fastidioso ronzio che non riesco ad ignorare. Un cinquantenne sudato agita inutilmente le braccia dalla console, mettendo in mostra una coda di capelli ingrigiti ed uno sbuffo di pelo brizzolato dal colletto della camicia troppo slacciato. I suoi pettorali iniziano a cedere al tempo, e la vistosa lampadatura non riesce a nasconderlo: sarà una delle sue ultime stagioni, poi dovrà nascondersi dietro il microfono di una radio, sempre che lo streaming video non lo raggiunga pure là, impietoso.
Almeno la prassi non vuole che un buttafuori sorrida, perché oggi non lo potrei sopportare. Stanotte mi sarebbe spettato il turno al night giù in paese, ma all’ultimo minuto il proprietario dei due locali mi ha spostato qui. Non dovrò riaccompagnare le ragazze a casa all’alba, non mi verrà offerta né la colazione, né un paio di labbra piene di gratitudine. Non contento di questo, il bastardo mi ha piazzato fuori dal privè, dove entra solo la crema della sua clientela: crema di coglioni, una vera delizia se vi fidate.
Un ragazzino ubriaco mi rovescia mezzo mojito sui pantaloni e mi riporta alla realtà. Trattengo a stento la voglia di strangolarlo nell’incavo del gomito, mentre striscia via, ignaro di essere un animale senziente. Mi pulsano le tempie, gli occhi, la nuca: le luci sciabolano tra i miei neuroni tranciando dolorosamente sinapsi, pensieri e ricordi.
Chiudo un istante le palpebre, adocchiando l’orologio: manca talmente tanto tempo alla fine di questa nottata che slaccio il cinturino e me lo infilo in tasca alla cieca. Meglio non sapere, meglio ingoiare ogni secondo e deglutirlo in fretta per non sentirne il gusto.
Riapro gli occhi, e mi trovo di fronte due ragazze. Hanno l’espressione annoiata ed esasperata delle persone in fila dal medico di base il dieci di Agosto. Neanche i deliziosi brani di pelle nuda ed abbronzata che offrono alla vista altrui, attraverso impalpabili stoffe, riescono a schiodarmi dalla testa l’idea di loro due su un letto d’ospedale attaccate da un respiratore, tanta la sofferenza che trasudano.
Dietro di loro si fanno avanti tre bellimbusti, intenti a fissare il monitor di un telefono troppo grosso e luminoso per costare meno di uno stipendio. Nessuno di loro degna di uno sguardo i sederi delle due ragazze, indifesi, disarmati di fronte ai tre scalini dell’accesso al privè, e a gonne troppo corte per poter pensare di essere qualcosa più di una proforma.
La prima ragazza fa spuntare con discrezione dalla sua borsetta due tessere socio. Faccio un cenno col capo di entrare. Mi sfiora un braccio. Mi giro e mi ritrovo le sue labbra a qualche millimetro dal mio orecchio. Il dolore ed il fastidio interrompono un istante la loro danza, mentre la sua bocca mi sussurra poche parole. Una ciocca di capelli neri scivola lungo il mio braccio, facendo sgorgare fiotti di sangue nei miei corpi cavernosi.
“Dacci qualche secondo di respiro, che ci togliamo questi tre dai coglioni”
I tre tizi non si accorgono di nulla, ipnotizzati da un filmato di culi nudi che scorre sul monitor del telefono. Sghignazzano, ignorando i due culi veri a pochi passi dal loro naso. Con un cenno impercettibile rassicuro la ragazza. Lei sorride e pianta con delicatezza le unghie rosse sul mio braccio, graffiandomi leggermente al passaggio, con sensuale gratitudine. Lascia a galleggiare nell’aria un qualche profumo dolciastro di pesca. Non me ne verrà nulla. Conosco bene il tipo della profumaia, ma il principio di erezione che mi ha regalato merita un piccolo sforzo da parte mia, anche solo per ammazzare la noia.
Lascio svolazzare le due ragazze attraverso la porta, seguendone i corpi con la coda dell’occhio, mentre sposto con rapidità i miei centotredici chili un metro più a destra, mantenendo le braccia conserte e l’espressione neutra ma imbronciata d’ordinanza. Faccio spostare il tedio ed il fastidio con una spallata.
Il tizio che regge il telefono mi sbatte contro, guardando inorridito l’apparecchio rimbalzare per terra e finire un paio di metri dietro le mie spalle. Allunga inutilmente una mano verso l’oggetto, poi alza la testa verso di me. Dal colletto di una camicia bianca da trecento euro, spunta un viso spaesato e vacuo, incastonato in un ordinato esercito di corti capelli neri. “Tessera privè” dico meccanicamente, bloccandogli la strada.
Il tizio non capisce, o non ascolta: vuole il suo telefono. Cerca di spostarmi, come se fossi una tendina di velluto da un quintale e rotti. I suoi amici lo guardano allibiti. Quello più giovane sembra spaventato, l’altro ridacchia. Il tizio non sembra ubriaco né fatto: sembra solo un perfetto idiota.
Lentamente, con un braccio, lo sposto di fronte a me
“la tessera privè, per entrare” ripeto in tono neutro
Non gli passa neanche per la testa di chiedermi con educazione se gli posso raccogliere il telefono. I due ragazzi dietro lo fissano: con ogni probabilità ha le tessere di tutti e tre, e basterebbe che le estraesse per poter entrare. Invece annaspa con le mani e la testa verso il suo cellulare, che rischia ad ogni frazione di secondo di finire sotto qualche suola di una scarpa. Mi sguscia sotto un braccio con uno strattone: lo acciuffo per la camicia con un ringhio e delicatamente lo rimetto fuori dalla sala. Ci sarebbero gli estremi per farlo volare come un fantoccio fuori dalla porta d’entrata, ma ora mi sto divertendo. Mi limito ad appoggiarlo come un brutto vasetto di porcellana di fronte a me. Lo fisso.
Ad un certo punto, come se il Buddha in persona gli avesse tirato un ceffone, si accorge di aver di fronte un cristiano in carne ed ossa. Ma con ogni probabilità non realizza né la mia stazza, né tantomeno la mia professione. Arriccia il naso, aggrotta le sopracciglia e inscena una postura aggressiva tanto fallace quanto ridicola. Sta per sputarmi in faccia le sue ragioni, quando il meno scemo dei suoi amici sbotta.
“Fabio, e dagli quella cazzo di tessera, no?”
Per la seconda volta, il ragazzo viene preso a ceffoni da Buddha, in barba alla ruota karmika. Si rende conto della figura da idiota in corso, ed inizia a trafficare nelle tasche della giacca, estraendone un portafogli griffato, non meno costoso dell’apparecchio che sta cercando di recuperare a costo della sua incolumità. I suoi amici lo guardano con evidente sollievo. In sottofondo, parte un pessimo remix di “losing my religion”.
Il ragazzo srotola con evidente compiacimento il comparto delle carte di credito del suo portafogli, fissandomi con aria boriosa. Vuole farmi vedere che è benestante: mi fa quasi tenerezza. Individua la carta dorata del privè e me la mette sotto il naso con arroganza. Faccio finta di controllarla con attenzione, regalando alle due ragazze qualche secondo in più. Poi mi scosto, lasciandoli passare.
Mi sibila qualcosa che non capisco ed entra. I suoi amici lo seguono, guardandomi con sollievo il primo e con aria di complicità il secondo. Con la coda dell’occhio lo vedo cercare il telefono tra una selva di gambe. Ha il panico negli occhi, come se una carrozzina con suo figlio stesse attraversando di sbieco la Milano-Venezia. Alla fine lo trova, e lo esamina con scrupolo, in cerca di graffi o chissà cosa. Soddisfatto, lo intasca e torna a parlare con i suoi amici. Le ragazze sono andate, uscendo dalla saletta laterale.
L’auricolare gracchia.
“Max, qua in entrata ci sono due tizie che chiedono di uno della security che ha dato loro una mano. Chiedono a che ora stacchi.”
Non riesco a trattenere un sorriso. Il mal di testa svanisce in una scia vaporosa all’aroma di pesca mentre Losing my religion lascia il posto ad un insulso brano sudamericano da classifica.

Maicolino

Gesù in un guscio di noce (ldcds ospita)

Non mi è mai stata ben chiara la reazione di Luke Skywalker nel finale de L’Impero, voglio dire, ok
lo shock, ma perchè urlare no?
Tuo padre è lo schiavo cyborg dell’impero del male, tu lo credevi un eroe.
Ero convinto che mio padre viaggiasse attaccato alla coda degli aerei come agente segreto, quando ho scoperto che era un dattilografo all’INPS non ho avuto una reazione così esagerata, e avevo 8 anni.
Ma ti pare minimamente paragonabile?
Schiavo senza mente per l’Impero del male.
Mh?
Se è quello il motivo della reazione esagerata di Luke avrei dovuto averla anche io non trovi?
Si.
Bene, tornando alle urla, ridicole dicevo. Cosa dovrebbe cambiare un’informazione del genere?
Uccideresti tuo padre perchè è un bastardo?
Per mia fortuna ci ha pensato la TBC.
Il solito culo.
Dicevo, cosa cambia? Vader ha ucciso il tuo mentore, torturato tua sorella, distrutto un pianeta senza ragione, non pago, ti ha abbandonato per quanto ne sai, è un pezzo di merda, Luke avrebbe dovuto guardarlo negli occhi e sputare sul suo elmo favoloso, gracchiando, “Non cambia un cazzo figlio di puttana, non cambia un cazzo”. Per poi lanciarsi nel vuoto.
Parlando di deficit emozionali del protagonista.
Cosa?
Luke quando torna a casa e trova le ossa carbonizzate dei suoi zii.
Ah l’avevo scordato, l’Impero gli ha anche ucciso i tutori.
No, no, intendo, trova i corpi e che fa? Scappa, neanche li seppellisce o che so io, nessuna preghiera, o rito, quei poveri cristi sono morti li e gli stronzi che andranno a tirare su le loro ossa stai sicuro che frugheranno la casa. Quando muore qualcuno a cui vuoi bene la prima cosa da fare e far sparire porno, cazzi di gomma, droga e via dicendo
L’universo di Star Wars è una distopia nazista.
Di-sto-pi-a.
Nazista.
Na-zi-sta.
Perchè sillabi?
Mi piace, da valore alle parole.
Le parole sono importanti.
La lingua s’impoverisce.

(Ricevuto il segnale della vedetta, in silenzio, i due si alzano, il campo è libero. Davanti ai loro occhi si stende la distesa di vetro radioattivo che un tempo è stata Belluno. Camminano)

La mia ragazza mi diceva sempre che penso troppo a queste cose.
Quella ufficiosa o quella ufficiale?
Quella ufficiale, e per cose intendo Star Wars non le parole.
La Res Galactica
Delle parole non le è mai fregato un cazzo, era una di quelle che sostituiva le c con le k senza ragione, voglio dire, capisco il ch, ma le c?
Kasa, karne, carma.
E ora i mutanti le avranno mangiato il cervello.
Un tizio nudo con un tubo di metallo non è un mutante, è un tizio nudo.
Sei come lei, non sopportate il pensiero laterale, una cosa che detestava era la mia teoria sulla successiva razza dominante del pianete, gatti super intelligenti.
Credo tu me l’abbia accennata.
Sono i migliori candidati.
Considerata la quantità di gatto che mangiamo, credo che la tua teoria non troverà terreno fertile tra comunità scientifica.
È la comunità scientifica che rende il terreno fertile ora come ora, ho visto una ventina di ingegneri informatici litigarsi uno stronzo fuori dal campo di Riccione.
Grazie nonno per avermi insegnato a menare.
Era un pugile?
Mi picchiava selvaggiamente.
Lo sforzo più grande che abbiamo mai fatto i miei nonni, per permettermi di vivere senza agi elettronici dopo l’olocausto nucleare, è stato regalarmi la Polystation a natale, per due anni di seguito.
Mostri.
Quelle almeno le vendevo ai bambini poveri e disturbati come te, la mia nonna materna mi ha regalato 10.000 lire, ogni anno, fino al 2008.
E poi?
Poi niente, da li passava i cenoni a cacarsi sotto, seduta in salone con la badante che la ingozzava di purea di fegato e carote, una melmina deliziosa che mangiavo segretamente.
Vorrei potermi permettere di essere schifato.
Oh la troversti deliziosa, una specie di plasmon sotto steroidi.
Non ho mai mangiato il plasmon.
Non avevi fratelli?
Più grandi e mi mangiavano il plasmon.
Sfiga.
Te?
Figlio unico, sono un cocco di mamma.

(Bruscamente interrotto, il tale, avanza con gli occhi sbarrati, la scena lievemente spolverata dalla luce del mattino è invasa da un riflesso verdastro fosforescente, anche il suo compare si avvicina ad osservare, altrettanto sorpreso)

Giuro su dio, non ho fatto una piega quando mi mostrarono quel video del tipo a cui si spacca il barattolo di vetro nel culo, ero pronto, niente mi ha preparato a questo.
Secondo te che cos’è?
Già che ci sei mi potresti chiedere perchè la madonna piange.
Credo sia perchè ci tocchiamo, l’ho letto in un libro, ma non era la Bibbia.
Le tue fonti sono frazionarie e confuse.
La tua faccia è frazionaria e confusa.
È che mi disegnano così.
L’avresti mai detto che, nonostante tutto, il mondo sarebbe stato ancora un posto incredibile in cui nascere?
Si, quello che sappiamo è poca cosa.
La tua faccia è poca cosa.

(La luce fuori campo passa, da un lento lampeggio, a un veloce e ritmico pulsar, i due si coprono il volto con un braccio e vengono inghiottiti dal fascio di luce, che si spande sulla zona come venisse da un faro.
La scena è immersa dalla luce, il rumore, come una subwoofer che vibra in un armadio, è assordante.)

Mr. Black