Pointless Pills #11

There was a time when he couldn’t wear anything white, otherwise the blood would have showed up everywhere. At that time he didn’t know what was going on in his life. But he liked to dress in black anyway, and that kept him going.

Another time, for a while, he really believed he was like everyone else. What he thought was normal. A job he didn’t like, a car he didn’t need, a woman he didn’t love. At that time he didn’t ask himself too many questions, and that kept him going.

Then, the time when time disappeared. He was living in the desert then, although he couldn’t remember its name. Nothing was wrong, nothing was right. He tried to learn the language of the stars. He failed, but trying kept him going.

And so many others. Plus the forgotten ones. So many moments, whispering from nowhere.

And what, now. They say the present is the most important moment. Does he agree?

He stops what he is doing. His eyes fly through the restaurant’s window. Outside there is Spring, deep, hard spring. Almost 10pm and everything is shining in Renaissance oil colors. His shift is almost done and he’ll have to run to his second job, the real one. The one that keep him awake at night. And keep him going.

The supervisor pops up over his shoulder, ehy mate, you alive?

And maybe he’s smiling, but he doesn’t know that.

“I’ll be in five minutes.”

 

Kire

 

Moleskifi [Pillole LDCDS]

Poi non ho scritto più niente perché non mi veniva più in mente un argomento su cui scrivere. Una storia, dei personaggi. Una cazzo di ambientazione. Niente, vuoto. Stavo lì alla finestra ad aspettare l’ispirazione ed era dura perché abito praticamente sottoterra – avessi avuto almeno un bel finestrone che dava sul Monte Baldo. Non avrei scritto niente lo stesso, anzi, forse meno, ma almeno mi sarei goduto un bel panorama col Baldo innevato (se inverno) o il Garda luccicante nella brezza (se estate). Il mio panorama erano i piedi dei parenti che passavano nel cortile. Non lo potevo neanche chiamare “blocco dello scrittore” perché avrebbe automaticamente sottinteso un paradosso, ovvero una mia presunta condizione di “scrittore”, cosa che non si poteva dare in alcun universo conosciuto. Allora si dava che fosse la molto più adatta sindrome del foglio bianco, che dopo il tardissimo Novecento è diventata sindrome del New Document nel Word Processor, che è la stessa cosa nonostante consumi più corrente e sia marginalmente positiva per gli alberi non più costretti a morire per dare sfogo ai pensieri impuri dei segaioli dalla prosa d’accatto. Dopo parecchio lambiccarmi e disperarmi ero arrivato ad insultarmi perché le mie idee facevano pietà, e quando non ne ho avute proprio più quasi quasi rivolevo le idee pietose. Non potevo farmi un discorso di carica allo specchio perché non ci tenevo tanto a guardarmi, erano molto meglio i piedi dei miei parenti. Ero rimasto senza alternative. Ed era in fondo un’opportunità. Avrei potuto raccontare la storia di un autore rimasto senza alternative, no? Una vicenda a suo modo epica vicina in spirito all’uomo comune che balbetta poesiole sulla sua moleskine. Ma poi non ho scritto più niente.

 

Opossum

PointlessPills #9

“That’s really all this is. That’s how things work for me. I go from this place, this person to that place or person. And, you know, it doesn’t really make that much difference. I’ve known all different kinds of people. Hung out with them, lived with them, watched them act things out in their own little ways. And to me… To me, those people I’ve known are like a series of rooms, just like all the places where I’ve spent time. You walk in for the first time curious about this new room — the lamp, TV, whatever. And then, after a while, the newness is gone, completely. And then there’s this kind of dread, kind of creeping dread. You probably don’t even know what I’m talking about. But anyway I guess the point of all this is that after a while, something tells you, some voice speaks to you, and that’s it. Time to split. Go someplace else. People are going to be basically the same. Maybe use some different kind of refrigerator or toilet or something. But this thing tells you, and you have to start to drift.”

Jim Jarmush, Permanent vacation, 1980

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#PILLOLELDCDS 7

Suppongo e auspico che in futuro verranno tempi felici in cui una civiltà progredita condurrà studi archeologici e antropologici sui fossili delle nostre generazioni ed arriverà a stabilire con buona approssimazione quali sono le cause che hanno portato a inesprimibili livelli di delirio la pratica e l’osservazione di uno sport che in condizioni normali sarebbe stato tutto sommato incruento e gradevole.

Opossum

#PILLOLELDCDS 6

L’argomento del vento è stato trattato nella precedente pillola dal socio.
Ma il vento non è il problema, è solo una parte del problema.

La tipica giornata in Gran Bretagna comincia alle 7:30 quando il ruggito del vento ti sveglia mezz’ora prima della sveglia. Visto che quel giorno hai delle inderogabili commissioni da svolgere alzi il culo dal letto.
Non guardi fuori dalla finestra, sai già cosa sta succedendo ma non ne vuoi saperne, vai dritto in doccia, punti la freccetta della temperatura su 9 e non esci finché non hai ustioni di terzo grado.
Dopo esserti vestito metti il naso fuori e ti ritrovi a tre numeri civici più in là del giorno prima.

Aspetti che il vento si calmi e lui si calma. Due minuti dopo dal cielo arrivano secchiate d’acqua, quindi aspetti che passi anche questa. Questa passa solo per lasciare il posto a una bufera di neve che si mischia col vento tornato più stronzo di prima.
Verso le due appare il sole, il cielo diventa azzurro a tratti e forse finalmente puoi uscire.
Peccato che alle tre e mezza fa già buio (sì, tre e mezza non scherzo).

La Gran Bretagna uccide la tua produttività e ti deprime perché fuori piove e devi stare chiuso in casa.
Non è una sorpresa che abbiano invaso tutto il mondo alla ricerca di un clima migliore.
Oh shit weather! Fuck this…oha John, take your bloody gun let’s go to the India.
Il Colonialismo non è stato un orrendo crimine, è stato un’impellente necessità dettata dalla sopravvivenza.
Immaginate il povero cristo di Birmingham che si trova di fronte i Boeri, i Zulu o i Moghul, la scelta era caricare i figli di puttana o ritornare nel tepore grigio e umido della vecchia patria.
Cosa avreste fatto ?

E per finire ecco una rarità:

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Arrivederci al prossimo allineamento di pianeti compagno Sole.

Slon

#PILLOLELDCDS 5

Carnival Cunt, il suo nickname.
Simpatici i siti d’incontri, un catalogo di facce, puoi sfogliarlo come quello dell’IKEA e scegliere il Lack fatto apposta per il tuo soggiorno.
E come per il Lack non leggi la descrizione, niente altezza, larghezza, lunghezza, peso o colore. Decidi solo con la foto se cliccare o no “compra”.
Carnival Cunt aveva scelto un autoscatto ben riuscito, mostrava il suo viso rotondo, pelle color perla, un ferro nel naso, diversi nelle orecchie, Ray Ban davanti occhioni azzurri, capelli tinti rosso forte.
E Carnival Cunt è un nickname dannatamente divertente.

Mi scrive che i suoi occhiali non sono da vista ma da ornamento.
Mike McCready è il più grande chitarrista di sempre.
Si incazza perché non ho la minima idea di chi sia.
Linka una decina di canzoni, fanno cagare tutte.
Sì domani sera sarebbe bello prendere un caffè.

Il culone era ben nascosto nella foto, i capelli hanno una ricrescita nera. Due dettagli che apprezzo.

Fondamentalmente è solo lei a tenere vivo il discorso.

Apatia. Apatia. Apatia.

L’emisfero destro si fa pesante, il fischio sordo che penetra le mie orecchie zittisce la sua voce, entra in testa prende i miei pensieri portandoli lontano, tipo quella volta che nel 96 quando spaccai col pallone lo specchietto destro di un’auto, un senso di colpevolezza, paura e vergogna mi stringe il collo, qui, diciassette anni dopo come allora.
La ragione alza la voce, fa notare il ridicolo della situazione, il fischio la zittisce immediatamente. Le ricorda quando odio mio padre.
Le ricorda ogni momento vissuto nel terrore di deluderlo, ogni decisione sbagliata o rimandata all’infinito solo per non deludere lui.
La ragione ora urla che è colpa di mio padre se questa è la prima e l’ultima volta che vedo Carnival Cunt, è colpa sua se la vita non è facile, è colpa sua se non ho mai avuto una motivazione qualsiasi che mi spingesse a migliorarmi, è colpa sua se prima di fare qualsiasi cosa affogo nell’ansia.

Odiare le persone è più facile che amarle o semplicemente sopportarle.

E non sopporto più Carnival Cunt, non sopporto il suo continuo tentativo di trascinarmi nella conversazione.
L’orgoglio fa squadra col fischio e con la ragione, urlando che non ho bisogno della sua compassione. Cercare di farmi parlare non è una cura per la sua noia ma compassione per me.
Cosa curiosa l’orgoglio.

Anche lei è stanca e gentilmente si congeda. Finalmente.

Niente stronzate nichiliste e altra roba da lauree fruttuose, semplicemente accade questo quando hai tre cose che urlano nella tua testa.

Slon