Il terzo appuntamento

La prima volta concordarono di incontrarsi in un oscuro jazz bar del centro, uno dei tanti che si nascondono tra i seminterrati di Nicholson street. Lui arrivò leggermente in ritardo ma rimediò riconoscendola all’istante, seduta a uno dei mille tavolini circolari che galleggiavano tra le ombre. Si lasciò guidare dalle luci intermittenti rosse e blu che provenivano dal palco vuoto e la raggiunse sorridendo. Si scambiarono due baci veloci e cominciarono a parlare di futilità.

Lui era arrivato a piedi e ancora tremava vistosamente per il freddo intenso che regnava all’esterno. Si scusò di questo tra l’imbarazzato e il divertito, mentre metteva le mani a coppa sopra la piccola candela che si consumava al centro del tavolino. Non mi abituerò mai a questo freddo, disse.

Finchè continui a riscaldarti così ci credo, disse lei.

Non sottovalutare le storie che può raccontare una fiamma.

Lui le prese le mani e le congiunse alle sue sopra il timido calore. Si riscaldarono insieme così, sentendosi a loro agio. Continuarono a esprimersi mentre si guardavano attraverso le luci mobili della candela e del palco, che ora ospitava un solitario trombettista che spargeva con gentilezza note nell’aria. Lei non provava minimamente il nervosismo o l’impaccio che di solito accompagnavano i suoi primi appuntamenti e la cosa aveva un vago sapore di eccezionale. Chet Baker era una garanzia e l’atmosfera fece il resto. Smisero di parlare di futilità e si baciarono.

La seconda volta fecero una lunga passeggiata nel parco, scherzando e scambiandosi frammenti di informazioni sulle rispettive vite e cominciando a percepire inconsciamente che qualcosa non andava.

Non riesco a vederla, pensava lui. E’ gentile e carina e perfettamente normale e quando la guardo non vedo niente. E’ colpa mia. Ho fretta di innamorarmi e non le sto lasciando spazio e sto rovinando tutto.

Non riesco a toccarlo, pensava lei. E’ carino e divertente e mi fa sentire tranquilla eppure è come se non fosse davvero qui. Mi ascolta e mi guarda come non ha mai fatto nessuno, eppure è come se fosse distante mille miglia. Ho sbagliato qualcosa e sto rovinando tutto.

Dopo la passeggiata si fermarono in un bistrot affollato per una bevanda calda. Lui teneva viva la conversazione senza sforzi ma era evidente che le sue emozioni erano altrove. Lei si sentì improvvisavente e stupidamente spaventata dalla prospettiva di perdere qualcosa che non aveva ancora nemmeno trovato. Cominciò a sentirsi nervosa e si sforzò di discutere di qualcosa di interessante. Parlami dei tuoi difetti, sono curiosa.

Lui stava guardando fuori dalla finestra e la domanda sembrò colpirlo come uno schiaffo.

Ne ho tanti, rispose. Uno è che per quanto mi sforzi, tendo ad essere brutalmente sincero.

Non mi sembra poi un gran difetto, anzi.

Se lo pensi davvero sei un’ingenua.

La risposta aveva perfettamente senso e non c’era traccia di astio o scherno nella sua voce, ma lei non potè fare a meno di sentirsi umiliata. Finirono le rispettive tisane in silenzio. Vedi? Spero di non averti offeso. Ma no, figurati, però ora è meglio che vada, è stato un piacere, ciao.

Decisero di incontrarsi una terza volta, nonostante nessuno dei due ne avesse troppa voglia. La scintilla che sognavano non c’era stata, succede, ma entrambi si sentivano soli e avevano paura di sprecare un’occasione tutto sommato invitante sulla base di poche sensazioni fondate sul nulla. Quando hai più di trent’anni in fondo non puoi fare tanto l’incontentabile. Le notti sono lunghe e fredde e insignificanti. Vale la pena di sforzarsi per un po’ d’affetto. Un rapporto richiede compromessi. La panchina sulla riva del fiume era dura, e la neve che stava iniziando a cadere in quell’esatto momento non aveva nulla di romantico. Lui stava guardando la superficie dell’acqua e parlò.

Pensi che l’amore sia una cosa semplice?

Lei si strinse nelle sue stesse braccia, improvvisamente paralizzata da un gelo che forse veniva da fuori o forse veniva da dentro. Appoggiò la testa alla spalla di lui e rispose che non lo sapeva.

Kire

Il terzo appuntamento - by Anna (thannuz@gmail.com)

Il terzo appuntamento – by Anna ([email protected])

Ora d’aria

“Allora, manca ancora molto?”

La Razionalità parlava con tono sprezzante, deciso, e pure un po’ seccato. Sebbene fosse una giornata tranquilla senza grossi impegni, la sua scrivania su su al terzultimo piano restava più che ricoperta di scartoffie arretrate da sbrigare. Umori e sentimenti le facevano sempre perdere un sacco di tempo, e la cosa peggiore è che non c’era modo di liberarsene.

“No?”

rispose il Dubbio con la sua voce antica e galleggiante.

“Dovremmo essere quasi arrivati…ma qui sotto non si sa mai con certezza, giusto?”

Lo stretto corridoio costringeva le due figure a camminare in fila, il Dubbio in testa, con il solo naso raggrinzito che spuntava dalla tonaca e fendeva la luce fredda e pigra emanata dai neon sul soffitto. Le pareti ospitavano due file di porte bianche a intervalli irregolari, tutte ben chiuse e silenziose, come la Razionalità si compiaque di osservare. Si sforzò di non pensare alla cacofonia di pianti, risa, urla, canzoni e maledizioni che in realtà si stava svolgendo dietro quelle porte. L’insonorizzazione funzionava alla grande, e tanto bastava.

“Eccoci, sorella.”

Quasi andò a sbattere contro la schiena del Dubbio che si era fermato improvvisamente di fronte a una delle porte, spalancata verso l’interno: solo una piccola stanza completamente vuota, le superfici in ceramica bianca ricoperte da innumerevoli schizzi di sangue, sia casuali sia organizzati in complesse immagini e frasi.

(per stillicidia emittere animam)

La Razionalità le osservò una per una, mentre il Dubbio cominciava il suo monologo di risposte a domande che galleggiavano nell’aria.

“Ambizione. Qui da qualche anno…sette? Forse dieci. Malata. Instabile. Pericolosa? Si è provato a contenerla con guinzagli e ammonimenti, ma è diventata solo più aggressiva. Dopo un violento alterco con un compagno, venne deciso di rinchiuderla qui. Se questo è un qui. Questo posto in fondo nemmeno esiste, no?”

(chi domanda timorosamente insegna a rifiutare)

“Quale alterco?”

“Futili motivi. Il Buonsenso la stava canzonando. Disse -se dovevi farcela ce l’avresti già fatta-, o qualcosa di simile”

“E lei?”

” Gli strappò via la gola e poi cercò di violentarlo. Non si è mai ripreso del tutto, poveraccio.”

(Se attacchi un Re, poi devi ucciderlo)

“Come può essere fuggita?”

“Non si sa? Non lo so. Tua è la caccia a risposte e prigionieri. Mio è il compito di sorvegliarti. Odio il mio lavoro.”

“Sorvegliare ME? Avresti potuto_”

La prima scossa li sorprese con una violenza che andava oltre il fisico vacillare e l’appoggiarsi alle pareti per non cadere. Era una violenza concettuale, l’assistere a qualcosa che non poteva succedere. Una sottile sensazione di movimento cominciò a mordere i contorni della realtà.

“Ci stiamo spostando”, squittì il Dubbio, “L’Omni passeggia! Non è possibile, eppure è. Eccezionale!”

“Silenzio, mangiasonno!” tuonò la Razionalità. “Non so come, ma qualcuno ha profanato il tempio. Dobbiamo salire all’ultimo piano, subito! Dobbiamo correre più veloce della realtà per restare fermi!”

La seconda scossa ruggì la sua soddisfazione mentre correvano a ritroso nel corridoio. Altre porte vennero strappate dai loro cardini mentre i più temerari e disperati tra i prigionieri cominciavano a uscire dalle loro celle. Il ricordo di un amore perduto ballava cieco e nudo bloccando il passaggio: la Razionalità lo colpì allo stomaco, con violenza, togliendolo di mezzo ma senza ucciderlo. Tozzi rimorsi barbuti strisciavano fuori, le unghie sporche e lunghissime bramose di conficcarsi negli occhi di qualche giovane speranza; da dietro, splendide paure e orribili consapevolezze di ogni tipo avanzavano veloci e affamate verso un’indifferente libertà. Il Dubbio e la Razionalità lottarono insieme con ferocia, riuscendo a malapena a uscire incolumi dal dedalo dei sussurri notturni, e salirono su su lungo le scale dipinte che portavano all’ultimo piano, mentre le scosse si facevano sempre più potenti e ritmiche.

La trovarono lì, in punta di piedi sullo strapiombo, immobile, lo sguardo rivolto verso dove prima c’erano le porte del tempio, ora spalancate per la prima volta da tempo immemore. Fuori, l’incomprensibile vorticare del Mare esterno divorava sè stesso mentre urlava le sue domande all’eternità, senza curarsi di eventuali risposte.

“Guarda chi c’è. Il figlio bastardo della Conoscenza e la regina zitella truffatrice dei sensi. Benvenuti, figuranti! Un bel venticello oggi, non trovate? Ottimo per fare due passi!”

Calma e sinuosa, così suonava la voce dell’Ambizione. E per un attimo, un intenso lungo attimo carico di eventualità sembrò che le cose si potessero davvero incastrare con eleganza in un finale soddisfacente.

L’Ambizione non fece due passi, non saltò fuori. La sua esile figura non scomparve tra le maree dell’entropia sottostante, trascinando con sè l’intero tempio. Le porte maestose cominciarono a richiudersi lentamente, mentre le scosse diminuivano di numero e intensità. Si voltò e si diresse verso dove era venuta, passando in mezzo al Dubbio e alla Razionalità senza degnarli di uno sguardo.

“Volevo solo un po’ d’aria fresca”, disse. “Ora torno giù a sanguinare. Se vi servo, sapete dove trovarmi.”

Tutto era immobile, di nuovo, com’era giusto che fosse.

 

Kire

 

 

Ora d'Aria - by Anna (theannuz@gmail.com)

Ora d’Aria – by Anna ([email protected])

Anamnesi (Il Lento Risveglio della Memoria)

“Il punto è che non ti abitui a questo posto.

Vedi, tu sembri un tipo sveglio. Hai una mentalità aperta e quindi sei sorpreso e non spaventato. Ma non basta. Il tuo problema è che ti comporti come se ti fossi appena trasferito in un luogo nuovo. Pensi che con pazienza e tempo ti ambienterai: imparerai la lingua, le strade, usi e costumi, meccanismi. Non è così. Non c’è nulla da imparare. Qui tutto scorre in te nel momento in cui accade, anche se non è mai accaduto. Lo smarrimento che senti si attenuerà, ma non arriverai mai a capire come vanno le cose qui, anche perchè le hai già capite. Mi segui?”

“No.”

“Naturalmente. In ogni caso io stesso non ti sto insegnando nulla, cerco solo di alleviare la tua confusione usando parole a cui sei abituato. E’ il mio lavoro. La parola stessa è una delle prigioni più sofisticate. Ma sono cose che già sai, cose che hai sempre saputo, anche prima di arrivare qui. Insomma, pensa a cose semplici, un ragno che tesse una tela, una vespa che costruisce un nido di terra. Sono forse andate a scuola per fare queste cose? Pensi ci fosse nonno Tarantola a spiegare ai cuccioli cos’è il bene e cos’è il male? Andiamo. Tutto quello che siamo è eternamente con noi fin da quando prendiamo forma, e forse anche da prima. Di tutte le razze, le specie, le concezioni, noi siamo quella che più si è impantanata su questo. Filosofia, la chiamiamo. Dimentica il concetto di capire come lo conosci: è solo una soluzione ad un problema che nessuno ha mai posto. Ricorda, invece di capire. Ma prima devi dimenticare: i tuoi sensi sono sporchi.”

“Per essere uno che nega l’uso della filosofia, mi pare che ci sguazzi dentro piuttosto bene.”

“Cerco solo di venirti incontro, tesoro. E questo è un altro tuo problema; qui ci sono molte cose che non conosci, ma molte altre ti sembrano familiari. Pensi che sia un vantaggio, una base in comune da cui partire. No. Qui è dove le cose sono quelle che sono, non quelle che pensi che siano. L’uno diventa il sette. Il respiro diventa pensiero. Il dolore è una stanza, una strada è un movimento. Tutte queste parole sono molecole di polvere che si agitano sopra una tela. Tieni, bevi qualcosa.”

Il bicchiere è vecchio e sporco, il liquore solo sporco. Il sapore è di whisky mischiato a fango. La gola si incendia, mentre un treno di calore mi scende cieco nelle budella. Il fumo della sigaretta di Anton si raggruppa fluttuando. Forma l’immagine di una scalinata. Man mano che salgo i gradini con lo sguardo l’immagine di fumo cambia, introducendo nuovi dettagli e lasciando intravedere l’entrata di una stanza enorme, di cui scorgo solo un sontuoso lampadario prima che Anton sbuffi stizzito, cancellando la scena.

“Non distrarti. Avrai tempo per fare amicizia con il vuoto. Come ti senti? Non mi stai impazzendo vero?”

“No..non lo so. Hai parlato del tuo lavoro. Che cosa fai di preciso?”

“Più o meno quello che sto facendo ora, solo che scelgo meglio le parole e vengo pagato. C’è ancora molto della vecchia concezione in me, quindi mi viene facile trattare con i forestieri. Molti arrivano quasi per caso, come te. Alcuni smattano e vanno calmati, o soppressi. Altri usano strani rituali e investono molta ricchezza per venire qui solo temporaneamente. Come fossero in gita, ci credi? Io faccio loro da guida e li proteggo. Questo faccio. Hai avuto fortuna ad incontrarmi”

“Avrebbe una qualche utilità chiederti dove siamo?”

“Siamo dove tutte le anime vengono quando non sanno più dove altro andare. Lo scoglio dove tutti i mondi si infrangono. Basta parlare, sei esausto. Tornerò fra qualche anno, quando avrai dimenticato abbastanza. Forse avrò del lavoro per te.”

Anton si alza, ed esce dalla locanda senza voltarsi. Tocco il bicchiere vuoto, saggio la sua fisicità per convincermi per l’ennesima volta che non sto sognando. Il bicchiere è sicuramente li, ma per qualche motivo questo non mi rassicura. Fuori è l’alba, per la seconda volta in poche ore. Esco a fare due passi.

Kire

 

Anamnesi - by l'Arlequin fou (db4power@gmail.com)

Anamnesi – by l’Arlequin fou ([email protected])

L’ora prima

Improvvisamente alzò la testa: il problema era ancora irrisolto e c’era nell’aria quella sensazione tipica dell’ora prima dell’alba che è così terribile per chi conduce una vita dubbiosa”

(B. Stoker)

Se ne stava lì tranquillo, la testa appoggiata dolcemente al vetro della finestra aperta, e guardava fuori, ascoltava soprattutto, piccoli rumori della notte, i vagiti dell’anno appena nato. Non un grande spettacolo. La strada di periferia dormiva tranquilla e senza sogni, e andava benissimo così: bastava lui da solo, per popolarla di carnevali, di rivoluzioni, di assalti alle diligenze, di artisti di strada, di ricettatori di speranza, di venditori di fumo, di criminali famosi, di presidenti sconosciuti, di candele immobili, di paesaggi che tremano al vento, di esploratori del tutto, di cartografi del niente, di Re disoccupati,

di

Smisurati porti notturni, di sale da gioco orientali, di enormi treni a forma di bara, di binari fatti di sogni, di torri, di carri, di lettere da luoghi distanti, di maniglie che galleggiano negli specchi d’acqua, di lucchetti troppo complicati, di vie d’uscita troppo semplici, di profumi nascosti nelle parole, di parole nascoste nel silenzio, di casalinghe che lucidano lavandini, di fogne che straripano, di gente che bussa, di gente che prega, di Dei sospettosi, di inquilini sordi,

di

Risate sguaiate, di sguardi calmi, di denti che battono, di bicchieri che si toccano, di poesie dimenticate nell’erba alta, di note attutite dal cigolare dei motori, di sorrisi fotografati per sbaglio, di quadri di pelle impolverata, di colori strappati, di voci rotte dall’emozione, di emozioni rotte dalle voci, di incontri, di carezze, di guerre, di certezze, di aghi conficcati sotto le unghie, di addii.

Sospirò. La strada era ancora vuota e silenziosa. Lontano, nei punti più timidi dell’orizzonte, scorse i fari dell’alba, che rincasava guidando piano.

Decise che non aveva voglia di vederla. Spense la sigaretta e andò a dormire.

Kire

L'ora prima - by Anna (theannuz@gmail.com)

L’ora prima – by Anna ([email protected])


Dell’inganno del tempo

In Europa c’è l’Inghilterra. In Inghilterra c’è Londra. A Londra c’è una “piccola” località (pari ad un trentatreesimo di Londra, ed estesa poco meno del doppio della mia non certo immensa Manerba) che si chiama Greenwich.
Greenwich è famosa perchè ci passa il meridiano zero, ed è l’origine del Tempo Terrestre. Greenwich è al centro di uno spicchio di Terra che si estende uniformemente al suo est e al suo ovest per sette gradi e mezzo in ciascuna direzione. Gradi, non chilometri: più si scende verso l’equatore più lo spicchio si allarga. I metri cambiano, ma i gradi no.
Questo spicchio di pianeta contiene il GMT, il tempo di Greenwich, il Tempo Zero; sull’equatore cade in mare, da qualche parte ad ovest di São Tomè: è qui che (nominalmente) la GMT ha la massima estensione destra-sinistra. La minima estensione è invece ai poli: 0 metri. Qui lo spicchio di GMT e il suo meridiano centrale nascono e muoiono. Se nascano a nord e muoiano a sud o viceversa, decidetelo voi.
Al di là di questo spazio di quindici gradi cominciano il passato e il futuro.

Il meridiano zero ha un dopplegänger. Un gemello cattivo che nasce e muore negli stessi luoghi, ma che passa esattamente sull’altra faccia del mondo. Il meridiano centoottanta taglia a metà lo spicchio del ventiquattresimo fuso orario, distribuendo il futuro alla sua destra e il passato alla sua sinistra: dodici ore avanti o dodici ore indietro rispetto all’ora della perfida Albione. Il centoottantesimo meridiano è la Linea del Cambiamento di Data. A Greenwich il tempo nasce. Sul suo gemello muore.

A onor del vero, la LCD e il 180° meridiano non coincidono perfettamente. Come per tutti i fusi orari le geografie politiche e fisiche hanno fatto sentire il loro peso. Se una notte d’autunno un viaggiatore scendesse dal Polo Nord lungo l’antipodo del meridiano zero, camminando su profonde lastre di ghiaccio, calpesterebbe a un dato momento un brandello di terra della grande madre Russia. Si tratterebbe di un’isola, Wrangel, scoperta ufficialmente da statunitensi nel 1867 e raggiunta per la prima volta nel 1881 (in una spedizione di cui faceva parte il naturalista John Muir, videoludicamente eternato in Sam & Max hit the road). Wrangel è abitata da orsi, lemmings e uccelli; su di essa c’è una città, Ušakovskoe, la cui popolazione è però composta unicamente dagli animali di cui sopra. Pare che nessun pazzo voglia viverci, dopotutto. Nonostante ciò, la Linea la scansa piegando verso est, -che sarebbe poi l’estremo occidente del pianeta, a ben vedere- fino ad un punto in cui evita anche la terra dei čukči, quella che anni di Risiko ci hanno più o meno erroneamente educato a chiamare Kamchatka. Tutti amiamo la Kamchatka, e non vorremmo mai che vivesse un intero giorno indietro rispetto agli altri figli di Stalin.
Il viaggiatore d’autunno passerebbe quindi nello stretto di Bering, in mezzo a un arcipelago che -se me lo consentite- mi piacerebbe chiamare oligopelago. Sono infatti due sole isolette, le Diomede, che sono separate da distanze siderali ben superiori a quelle rappresentate dai soli tre chilometri di Pacifico in mezzo a loro. La Diomede più grande fu sovietica, ed ora è russa, ed era un luogo di confino per militari. Come la Siberia. Oggi è dichiarata disabitata (ma Giorgio Fornoni c’è stato e dice che ci sono ancora dei disperati). La Diomede più piccola è statunitense, appartiene all’Alaska, e ci abitano un centinaio e mezzo di anime. L’arcipelago è stato quindi il punto di maggior vicinanza tra le due superpotenze ai tempi della guerra fredda, con le due isole tanto vicine da potersi vedere. La LCD passa in mezzo a loro e se il nostro ipotetico viaggiatore si gettasse dalla piccola Inaliq per farsi una nuotata fino alla grande Imaqliq scoprirebbe di essere arrivato 21 ore prima di partire. Certo, se non fosse morto assiderato nel frattempo.

Dopo Diomede la LCD torna sui suoi passi per evitare St. Lawrence e addirittura sorpassa il centoottantesimo per schivare le Aleutine più occidentali, poi torna sul meridiano. L’acqua si scalda, il viaggiatore lascia le Hawaii alla sua sinistra, le Marshall alla sua destra e procede verso l’Oceania. Che è un continente fatto d’acqua marina e poco altro, dove la terra e la roccia risaltano come punti neri sulla superficie del viso del Pacifico australe. Qui tra le isole c’è solo il nulla liquido e salato, e per la Linea si approssima il problema Kiribati.
Kiribati (che si pronuncia Kiribas, se proprio volete) è, geograficamente, la nazione più surreale del mondo. Composta da 35 atolli e un’isola divisi in tre arcipelaghi, ha meno abitanti (gilbertesi) di un qualsiasi grosso comune italiano e una superficie totale pari a un quattrocentesimo di quella italiana (ed appena 12 volte superiore a quella di San Marino). Ciononostante è dispersa su un’area talmente vasta che le isole più occidentali distano quasi 3500 chilometri da quelle più orientali. E’ circa il doppio dello sviluppo latitudinale dell’Italia (Sicilia compresa). Se, tenendo gli occhi chiusi, provate a puntare uno spillo su una cartina di Kiribati, avete ben poca speranza di non pungere acqua. Anche perchè, essendo tutte atolli tranne una, un’isola gilbertese è praticamente sempre una pozza d’acqua salata con un po’ di sabbia attorno.
Kiribati “contiene” il punto d’incontro dell’equatore e del meridiano 180. Parte delle isole è quindi nell’emisfero nord, parte nell’emisfero sud. Altrettanto, le stesse isole sono in parte nell’occidente e in parte nell’oriente. La LCD taglierebbe Kiribati in due, e per molto tempo l’ha effettivamente fatto. Ma se russi e statunitensi possono spostare la Linea, i gilbertesi pure, per quanto piccoli (così piccoli che ad esempio a nessuno importa se sono fra i (pochi) governi che riconoscono Taiwan e non la Cina), possono farlo a piacer loro. L’hanno quindi fatto. Il nostro viaggiator d’autunno -che durante l’attraversamento di Kiribas diventa primavera, sapete come funziona- passa quindi su acqua gilbertese ed approda su uno degli undici atolli delle Sporadi equatoriali, l’isola Caroline.
L’isola Caroline è un posto strano. Se la Linea fosse un muro, guardando a est si vedrebbe questo muro, che separa oggi da ieri (e lo si vedrebbe, stante la strana forma della linea in questi luoghi, anche guardando verso sud e verso nord). Caroline è l’estremo lembo del Tempo futuro sulla terra. Il centoottantesimo meridiano è incalcolabilmente lontano nel suo occidente, tredici volte la distanza che la separa dalla Linea e dal giorno prima. L’oriente di Caroline non contiene solo acqua (e, a distanze quasi siderali, le isole Marchesi e poi il Perù) ma anche e soprattutto il nuovo giorno che arriva. Una visione abbacinante. Il fuso orario qua è -per un bislacco gioco cronometrico- di 14 ore avanti sull’ormai dimenticato Greenwich. Howard e Baker, due minuscoli atolli statunitensi molto più a nord e molto più a ovest che sono gli unici punti al mondo con un fuso di -12 (e quindi più sepolti nel passato), hanno ventisei ore di ritardo su Caroline e le altre Sporadi. Quando per Caroline la domenica è finita, per Howard deve ancora cominciare. Tale è la bizzarra magia di Kiribati.

Dopo le Sporadi la Linea torna verso ovest (che in realtà sarebbe l’est), poi riprende a scendere. La remota Polinesia sfila qua e là: Tuvalu, Tonga e Samoa, e isolette francesi che forse oltralpe hanno anche dimenticato di possedere. Passando a rispettosa distanza dalla Nuova Zelanda, la Linea e il viaggiatore di mezza stagione si ricongiungono all’antimeridiano di Greenwich a sud dell’isola Chatam per non più lasciarlo. Ormai è tornato a far freddo. La Linea si addentra nel mare Antartico, “sfiora” l’isola Scott e penetra nel mare di Ross.
Infine il viaggiatore sbarca sull’Antartide, dove finalmente la Linea poggia su terra solida. Potrebbe divertirsi a camminare lasciando impronte nella neve a destra e sinistra del meridiano, orme impresse simultaneamente in due giorni diversi. Se ne avesse le forze potrebbe farlo per circa 800 chilometri, fino a quel particolare punto in cui la Linea si interrompe e i due gemelli Zero e Centoottanta si incontrano per morire, e nascere, e trasformarsi.

E’ il Polo Sud. E qui il tempo scompare. Perchè ai ghiacci nulla importa.

Opossum

Dell'inganno del tempo

Dell’inganno del tempo – by Cammello (cammelloput.tumblr.com)