Pointless pills – I like

I like to take pictures, but I’m not a photographer

I like to create stories, but I’m not a writer

I like to ride bikes, but I’m not a cyclist

I like to drink beers, but I’m not a taster

I like walking in the mountains, but I’m not a hiker

I like to tell jokes, but I’m not so funny

 

I’d like to be good, but I’m very flawed

I’d like to be whole, but I’m just shattered

 

Opossum

La felicità è un costrutto ligure

Ed era di Genova, Italia, e abitava a Genoa, Nevada. Questo, dal suo punto di vista, riassumeva buona parte della sua esistenza. A Genova ci era nato -col nome di Edoardo- e a Genoa ci era finito un quarto di secolo abbondante dopo quel prodigioso evento. Nel trasloco aveva rinunciato, sebbene non legalmente, a cinque settimi del nome proprio. Gli americani lo chiamavano, appunto, Ed. Era un nome decisamente comodo.
A Genoa non c’era un cazzo. Mille anime scarse sul bordo sbrindellato del Nevada occidentale, dove il confine con la California faceva un angolo di 120 gradi (quelle frontiere surreali che solo i deserti sapevano generare). Tre ore di auto da Sacramento, dieci da quella Los Angeles da cui era fuggito dopo aver inseguito il vano sogno di diventare sceneggiatore, ottenendone solo pesci in faccia. A spingerlo sul bordo del lago Tahoe era stato il nome di quella città, che rievocava generiche nostalgie del mar Ligure, del quartiere Sturla, delle partite del Camogli. Di una vita precedente. Ma a Genoa non c’era un cazzo. Una Los Angeles in negativo. Non che gli piacesse poi molto, ma non aveva un altro posto dove andare.

Anche se ogni tanto tornava dagli Angeli e dai pochi amici che ci aveva lasciato. Una sera gli presentarono un’altra genovese: in quasi dieci anni di vita negli USA non aveva ancora mai incontrato una concittadina e si chiedeva spesso come fosse possibile. “Ed vive nella Flyover Country” le dissero presentandoli.
Il concetto le era sconosciuto. Glielo spiegò quella sera, mentre cenavano.
“Negli Stati Uniti vivono trecentoventi milioni di persone. Però la maggior parte degli statunitensi (Ed non diceva mai ‘americani’, notò lei. Lo considerava una barbarie lessicale, le disse) vive nell’area urbana di Los Angeles, nel sudovest, o di New York, nel nordest. Circa una persona su dieci abita lì, e in moltissimi vivono passando da LA a NY, o viceversa. La nazione in mezzo per loro non esiste, la vedono solo dai finestrini dell’aereo quando ci volano sopra per fare coast to coast. Dall’alto non appare altro che terra insignificante e disabitata, e io sono uno dei fantasmi che ci vive. Non è la fine del mondo, per carità. Ci sono grandi città anche all’interno, come Chicago o Dallas. Ma perlopiù è puro nulla e decidere di viverci è spesso un’idea coraggiosa.”
“Tu per esempio: sei finito nel Nevada. Perché quest’idea assurda?”
“Non avevo un altro posto dove andare.”
E riuscì a farla sorridere.

Opossum

Anime in Alba

audio: Rosetta – Hodoku/Compassion

Princes Street era vuota, nel gelo della notte; la luce dei lampioni la rischiarava a giorno, ma più o meno nessuno era in giro a goderne. Seduto sull’estremità di un marciapiede salvagente, davanti alla National Gallery, Mathias guardava nel vuoto in direzione di Calton Hill, con il suo corpo lì a Edimburgo e la mente chissà dove. Ed erano le quattro del mattino di un qualsiasi 10 gennaio. Aspettava.

Edimburgo non aveva una metropolitana: dopo quattro anni passati lì non aveva ancora accettato la cosa. Ok il suo status di capitale europea, la sua società multietnica, il suo sudare cultura da tutti i pori, ma in realtà per quel che gli pareva era uno sperduto buco bagnato e ventoso senza una fottuta metropolitana. Era così, coi treni della metro, che Tuane veniva da lui, in quei giorni passati giù a São Paulo: lei arrivava da Armênia sulla Linha Azul, e si incontravano in quel formicaio tremendo che era Estação Sé, dove lui già la aspettava. Si baciavano annegando nella fiumana paulista che scorreva loro attorno, e Mathias trovava che fosse comunque un bel modo di amarsi. L’amore arrivava coi treni della metro. Edimburgo la metro non ce l’aveva e lui non glielo poteva perdonare, perché così gli sembrava che ad Edimburgo non potesse più trovare l’amore.

A Edimburgo era arrivato correndo dietro a Tuane, dopo che lei aveva deciso di attraversare l’Atlantico un bel giorno e non era più tornata indietro. In Praça da Sé, davanti alla cattedrale, l’aveva aspettata per mesi che erano sembrati lustri, finché, non avendo più niente da fare, da sperare o da perdere, prese per l’oceano pure lui. La Scozia gli era piaciuta e continuava a piacergli, a dire il vero, finché non pensava alla mancanza della metro. Il tempo era folle un po’ come a São Paulo; e pazienza se era più freddo, perché del caldo era stufo. Non c’erano traffico e inquinamento. E c’era lavoro.

Ma non c’era più Tuane. L’aveva cercata dappertutto, ma quando Mathias era arrivato lei se ne era già andata chissà dove, tornata in Brasile o volata su Marte o Dio solo sapeva che altro. Non riuscì a trovare nessuna traccia concreta d lei in città né nei dintorni: solo qualche conoscenza che non aveva niente di utile da dire. Dopo qualche settimana di ricerca, svuotato, smise di correre dietro ai fantasmi. Si risolse comunque a fermarsi lì sul Forth: a quel punto qualsiasi posto era insensato quanto un altro.

Era tornata quell’estate, a settembre. Quella sera di gennaio, a un concerto, aveva cominciato a parlare con una ragazza appena conosciuta. L’aveva saputo così.
– Sei scozzese? – gli aveva chiesto quella.
– No, sono nato e cresciuto in Francia, per quel che può valere. Ho vissuto un’eternità in Brasile.
– Dove?
– A San Paolo.
– Ho conosciuto una ragazza proprio di lì qualche giorno fa. Magari la conosci.
– Mah, San Paolo è grande. C’è un sacco di gente.
– Più che a Edimburgo?
– Più che in tutta la Scozia.
Ma il nome e la descrizione che la ragazza gli dette erano giusti. Era stata lì anni, se ne era poi andata ed infine era tornata, ed anche questo corrispondeva. Quante brasiliane con quel nome e quell’aspetto potevano esserci in giro per Edimburgo? Quante brasiliane con quel nome e quell’aspetto potevano essere tornate ad Edimburgo due volte?
– Dove vive?
– Non lo so. L’ho incontrata un paio di volte a Leith. Ci porta a spasso i cani altrui. Per lavoro, credo.

La ragazza sconosciuta aveva incontrato Tuane vicino al porto. Tuane era a Edimburgo. Mathias scoprì che andare a dormire era diventato all’improvviso impossibile. Seduto in Princes Street per ore ascoltò turbamenti repressi per anni provenire da qualche parte dentro di lui. Quando non ne poté più si alzò e si diresse verso il Leith Walk. Le otto del mattino, Edimburgo riprendeva vita a attorno a lui. A latitudini più dolci avrebbe potuto forse godersi il sole, mentre lì di luce dal cielo non gliene arrivava granché. Pazienza.

Non aveva sperato di avere fortuna, ma forse quel giorno qualche divinità benevole trovò che i suoi anni di sofferenza avessero ben meritato una ricompensa. Tuane era là, nel Leith Links, mattiniera come era sempre stata, in quel gran freddo verde. A Edimburgo era arrivato l’amore anche senza la metro, seduto ad aspettarlo su una panchina in un prato gelido. Tuane guardava verso il cielo, forse contava le ultime stelle. Sentendo avvicinarsi i passi di Mathias, girò lo sguardo e guardò fisso l’uomo in avvicinamento. Si alzò sorridendo.
– Speravo fossi tu.

Si abbracciarono. Stavolta attorno a loro scorreva solo il vento. Ma andava bene anche così.

 

Opossum

Marginalia

E’ difficile descrivere lo sguardo di un uomo prossimo alla morte.

Marcus Maney, 42 anni, di professione veterinario, infelicemente sposato, senza figli, senza sogni, con pochi risparmi e ancor meno ricordi, non era mai morto e non aveva grandi esperienze in merito. Eppure, non avrebbe saputo in che altro modo interpretare l’espressione del barbone che in quel momento quasi appoggiava il proprio naso al suo, occupando la totalità del suo campo visivo.

Un’altra persona sarebbe indietreggiata all’istante; un’altra persona avrebbe almeno fatto una smorfia di disgusto, in risposta ai denti marci e al vivace fetore del senzatetto.
Marcus Maney invece rimase immobile, ammaliato da quegli occhi così consapevoli, così folli. Una sorta di panico mischiato a fascino morboso lo incatenava a quel particolare momento. Il sole della periferia era tramontato ormai da un pezzo, ma la strada era ancora avvolta in una luce pallida e pigra, che sembrava essersi dimenticata dei suoi impegni altrove.

“Rispondi. Ti ho forse chiesto dei soldi?”

La voce del clochard era roca e piena di sincera indignazione. Il suo sguardo finalmente si abbassò per un secondo, e Marcus lasciò libero il respiro che stava trattenendo senza nemmeno rendersene conto. Ai loro piedi, la moneta da 50 pence li osservava con fare indifferente. In fondo alla strada stava passando un uomo a cui una volta una tigre del Sumatra aveva strappato anulare e mignolo, ma nessuno ci fece caso.

“Non ti ho chiesto dei soldi. Non ci sono cartelli. Stavo seduto a terra a pensare. Non hai nemmeno rallentato, lasciando la moneta. L’hai gettata come fosse un fazzoletto nei rifiuti. Perchè? “

Ancora, Marcus Maney non rispose. Il pensiero di protestare, di dire che lo stava facendo per semplice cortesia, per abitudine metropolitana magari, non lo sfiorò nemmeno. Si sentiva, inspiegabilmente, come se il mondo stesso avesse deciso di voltarsi dall’altra parte. Le schiene silenziose di ogni punto di riferimento conosciuto lo squadravano perplesse, come se dubitassero della sua stessa esistenza. Lo assalì l’assurdo impulso di gridare, e con gli occhi lo fece, spalancandoli fino a far scricchiolare le palbebre, il suo sguardo lanciato verso il vagabondo come una folle auto in corsa senza freni.

“Mi ascolti? Sei drogato?”

“Ti ascolto. Non so cosa dire. Non capisco cosa mi succede. E’ come se fino a poco fa fossi stato impegnatissimo a fare qualcosa, ma non ricordo cosa. Non volevo offenderti. Credo di essermi appena ricordato di essere infelice.”

Diede la risposta tutto d’un fiato, come se spaventato dalla prospettiva di non averne poi molto ancora. Il finto senzatetto gli lanciò un’ultima occhiata sospettosa, poi sembrò rilassarsi un poco.

“E’ facile dimenticarsene. E’ un po’ il motivo per cui me ne stavo a pensare. Vieni, parliamo. Ma non qui, sei già il terzo che mi lancia addosso monete oggi. Seguimi.”

L’uomo rovinato iniziò a camminare, infilandosi in una laterale vicino senza controllare se Marcus lo stesse seguendo. Mentra si spostavano, quasi fluttuando nel sottobosco di vicoli del porto, il veterinario si rese conto che pur vivendo in quel quartiere da sette anni non aveva mai messo piede sopra quei ciottoli. Non si era mai preso la briga di sbirciare oltre ai margini della sua quotidianità, dando per scontato di aver qualcos’altro di meglio da fare. Il tempo era passato come sua abitudine, lento e veloce allo stesso tempo, come un aereo di linea appena oltre il layout dell’orizzonte. E ora si stavano fermando in uno stretto pontile isolato che si affacciava sul porto, il mare del nord che sembrava accucciarsi dietro il brutto profilo delle navi mercantili.

“Eccoci. Non proprio spettacolare, ma è la cosa più vicina ad un panorama, nei paraggi. Siediti.”

“Mi chiamo…”

“Non mi interessa il tuo nome. Parlami di quello che hai dimenticato.”

A Marcus non servì tempo per pensare ad una risposta. Le parole uscirono naturali, semplicemente, come se fossero state create solamente per essere usate in quel preciso momento.

“Quando ero piccolo, sedevo nel giardino fuori la casa dei miei nonni, Osservavo la luce del sole che filtrava tra le foglie della grande quercia, e mi chiedevo come funzionasse. Il sole, intendo. Non lo sapevo, ma avevo la rassicurante certezza che un giorno l’avrei imparato. Non è mai successo. Non mi sono mai spostato da sotto quella quercia, e non ho idea di cosa sia importante e cosa no. Credo di essere spaventato.”

Rimasero alcuni minuti in silenzio. Se l’altro uomo l’aveva capito, anche solo ascoltato, non ne diede traccia. Poi iniziò a parlare, rivolto più al buio che a Marcus.

“Per gli ultimi 14 anni, fino a questa mattina, sono stato constantemente dipendente dall’eroina. Un fantasma completo, il cui corpo si divorava da solo. La mia famiglia mi ha ripudiato. Tutti i miei amici, quelli della mia adolescenza, perchè poi non sono più riuscito a farmene di nuovi, sono morti, o in galera, o semplicemente non vogliono avere più nulla a che fare con me. La mia vita è una pozzanghera che non si asciuga mai, che nessuno calpesta. Questa mattina presto ho preso una dose e ho deciso che sarebbe stata l’ultima. Fra non molto cominceranno i brividi, ma non è quello che mi spaventa. Mi spaventa cosa farò dopo, una volta passate le crisi. Non ho idea di cosa, e come, cominciare. Ho buttato via talmente tanto tempo che l’idea di decidere come usarlo mi risulta aliena. Non so come si vive. Ma credo di volerlo fare.”

Prima che l’ultima parola avesse il tempo di posarsi sull’acqua, il vagabondo si alzò e si incamminò senza lasciare nient’altro dietro di sé oltre all’eco di una distorta speranza. Marcus lo seguì con lo sguardo fino a quando non sparì dietro ad un capannone. Non lo rivide mai più, e non seppe mai se riuscì a raggiungere il suo obiettivo.

Quanto a lui, non lo sapeva. Forse ora sarebbe cambiato tutto, o niente. L’unica cosa di cui era certo, una determinazione mai provata prima, la voglia di capire come funzionasse il sole. E se non l’avesse capito, avrebbe cercato oltre i bordi delle pagine, in cerca di una nota lasciata da altri lettori. E avrebbe capito, se non il perchè, almeno il come.

O almeno, così sperava. E sperare era già molto di più di tutto quello che avesse fatto fino a quel momento.

Kire

Belzebù

C’era una volta Belzebù, sul suo trono di bambù, al suo fianco Re Artù, gonfio di virtù.
Belzebù, malefico e cattivo, stava preparando un aperitivo, quando Artù, noioso e ripetitivo, disse:
“Qui c’è da fare un preventivo”.
“Di Cosa?” disse il satanasso, già ubriaco come un tasso,
“Per la ristrutturazione del castello”, rispose Artù, “ci potremmo fare un bel bordello”,
“Ma mi costerà un salasso, e farà un gran fracasso” esclamò il diavolone, bevendo un gran sorsone. “E sti cazzi non ce lo metti?” replicò Artù, “Sei imbottito di soldi, se permetti, e nessuno si lamenterà del rumore, se non vuole che io l’affetti”.
“E va bene” disse il demone “ma a una condizione: che tu ti scopi un montone”,
“Ma che dite Belzebù, i montoni l’ho già scopati, ora gradirei scoparmi uno gnù”,
“Temerario siete, mio cavaliere, non sapete che lo gnù, feroce ed assassino, vi incula a sangue e poi vi impala sopra a un pino?”
“Correrò il rischio, mio signore, d’altra parte nell’amore, c’è la gioia e c’è il dolore”
“Allora che comincino i lavori, ai plebei la fatica, a noi gli onori!”
“Bene bene, satanasso, ma bisogna chiamare il catasto, altrimenti il risultato potrà essere nefasto”, Artù, saggio e consigliere, disse grattandosi il sedere.
“Ma quale catasto, io sono il principe del male, io faccio tutto in nero, sono un gran maiale”
“Come volete, mio signore, ma poi non dite che io non vi ho avvertito, secondo me qualcuno qui, ci rimetterà il dito”
“Meglio il dito del pisello, che le cortigiane del castello, voglion solo fare quello”.

Alex Kerouac

Nel buio

– Scendiamo qui – mormorò Elias.

Brian, che si era fissato le scarpe in silenzio per tutto il tragitto, sollevò lo sguardo e guardò fuori dai finestrini della metro. Erano in un tratto di superficie, in aperta periferia; la sagoma del muro di casermoni che avevano appena oltrepassato si distingueva a malapena a poche centinaia di metri da loro, nel buio della notte. Il convoglio rallentava.
Elias guardava in piedi il buio fuori dai finestrini con espressione indifferente, come fino a poco prima aveva guardato le pareti del tunnel. Era rimasto in piedi, appoggiato a un sostegno per tutta la corsa. Sembrava perso in distanze siderali, e quelle due parole erano le prime da quando erano saliti nel vagone.
Andy, che era seduto accanto ad Brian, a quell’invito alzò finalmente gli occhi dalla console; non aveva fatto altro che videogiocare per l’intero tragitto. Brian si disse che non avrebbe potuto pensare per i due compagni due modi più diversi di comportarsi allo stesso modo. Quanto a lui, fino a lì aveva a malapena respirato. Aveva i suoi motivi.
Passando sulla banchina furono investiti dall’autunno. Era da poco passata l’una e faceva freddissimo, ma il cielo terso e la luna piena rendevano debole l’oscurità. Andy bestemmiò contro il clima, poi si rivolse ad Brian.
-È la tua prima messa nera?-
Elias cominciò ad allontanarsi dalla fermata, lasciandosi i palazzi alle spalle. Nella direzione in cui si avviava c’erano campi, sterpaglie e cantieri, come se la città si fosse presa una pausa. “25 ettari di nulla”, gli aveva spiegato Elias.
-No, è la terza. Ma è la prima da quando sono qui in città. Le altre le avevo viste dove vivevo prima.-
-Qui abbiamo un bel gruppo- proseguì Andy. Si incamminò anche lui, seguendo Elias con Brian al fianco. -È raro celebrare in città, è pericoloso. Ma questa zona per ora è abbastanza sicura, ci sono solo cantieri e campi. Quando sei in mezzo, sei sicuro di non avere nessuno intorno nel raggio di oltre quattrocento metri. Mi piace questo posto, ci vengo spesso per i fatti miei. Qualche volta, quando ero più piccolo, ci ho giocato a cricket con qualche amico, dove vivevo era pieno di famiglie pakistane e i loro bambini ci andavano pazzi. È meglio qui che nei parchi. Meno rompiscatole.-
– Lo trovo appropriato.-
– Sì? –
– C’è qualcosa di satanico nel cricket. Pensa solo all’importanza del numero sei in quello sport. Sei lanci nell’over, sei punti per il fuoricampo, sei stump nel terreno, sei ore di gioco al giorno. Strano che le partite durino solo cinque giorni, uno meno di quanto sarebbe lecito.-
Andy sogghignò. Elias disse qualcosa a mezza voce che ad Brian suonò come un “Quante stronzate”… ed in effetti lui stesso concordava. Diceva stronzate perché era nervoso, non poteva evitarlo.
– Dai, Elias, non essere crudele. È un’idea tutto sommato simpatica, se ci pensi.-
Elias non rispose.

Scesero in un piano interrato di uno degli edifici in costruzione. Un futuro garage. In qualche modo appropriato per una messa nera, pensò Brian. Vide che erano stati preceduti: tre ragazzi e due ragazze si aggiravano attorno ad un basso tavolo coperto da un telo nero: un improvvisato altare. Ma non c’erano suppellettili di alcun tipo, e -nonostante si aspettasse qualcosa del genere- il particolare colpì Brian come una rasoiata.

Nelle campagne da cui veniva aveva frequentato brevemente gruppi satanisti. Da quando si era trasferito in città aveva cercato in tutti i modi di pendere contatto con altri occultisti come lui. C’era riuscito facilmente, aveva stretto nuove amicizie, e aveva scoperto come l’ambiente lì fosse molto diverso, più duro e complicato d quello a cui era abituato. Gli parlarono di sacrifici umani.

-Seriamente?- aveva chiesto ad Elias.
-Sì. Succede; deve succedere. Non spesso. Più o meno una volta ogni paio d’anni. Ma deve succedere.

Non aveva approfondito l’argomento, nonostante tutte le domande sulle possibili conseguenze che gli si accalcavano in testa. Dopo la rivelazione, e nonostante le conferme, aveva preferito proseguire a considerarlo come una sorta di scherzo.
Ma l’altare ora era davanti a lui. E che fosse basso e sgombro rendeva difficilmente equivocabile il suo scopo: doveva esserci spazio per depositarvi la vittima, e basso abbastanza perché il corpo fosse comodamente maneggiabile. Per Brian era la definitiva conferma, più valida di qualsiasi parola pronunciata gravemente a bassa voce, di quel che sarebbe successo.
A quel punto erano quindi in otto. Erano tutti ragazzi sui venti, forse ventidue anni, tranne un uomo alto e imponente, forse sui quarant’anni, che si diresse verso di loro appena dopo il loro ingresso. Era Daniel, il celebrante. Brian lo incontrava per la prima volta, ma la fama di figura carismatica del gruppo lo aveva preceduto. Daniel gli tese la mano.
– Quindi tu sei Brian.-
– E lei è Daniel,immagino.-
– Dammi del tu. Sei stato coraggioso a venire. Diversi si sono tirati indietro, sapendo cosa dovevano… aspettarsi di vedere. E anche per paura di conseguenze spiacevoli per loro.-
– Di quelle ho paura anch’io, però. Un omicidio è un omicidio.-
– Non devi preoccuparti. Tu sei nuovo e non hai responsabilità verso nulla di ciò che succederà; noi, per ciò che riguarda, sappiamo come muoverci per evitare rischi. Le nostre vittime quasi sempre sono balordi, vagabondi, reietti che nessuno reclamerà mai. E comunque – Daniel si permise di sorridere – lui ci protegge.-
Brian non riuscì a replicare. Una vaga tranquillità si faceva largo dentro di lui.
– Quando arriverà quello di stasera? –
– Presto. Lo porteremo sull’altare al termine della funzione.
La cerimonia cominciò poco dopo. Era diversa da quelle che Brian aveva seguito in precedenza, ma non se ne stupì, sapeva che ogni gruppo aveva i suoi riti personali. Erano tutti inginocchiati in semicerchio a qualche metro dall’altare, eccetto Daniel che officiava in piedi dando loro le spalle; Brian aveva Elias alla sua sinistra e Andy alla sua destra, ancora come sulla metro. L’”arredo sacro” era minimo: oltre all’altare ancora sgombro c’erano solo teli con disegni esoterici appesi alle pareti, e nient’altro. Daniel pronunciava formule con voce grave, e i suoi confratelli a tratti cantilenavano lugubremente. Era tutto molto scarno e nel complesso molto tetro. Il salmodiare proseguì per venti minuti, poi Daniel si interruppe all’improvviso.
Si girò verso Brian e tese verso di lui una mano. – È nostro desiderio che sia tu a condurre qui la vittima dell’olocausto. Avvicinati.-
Brian impietrì. Non gli riuscì più nemmeno di deglutire. Per qualche secondo non si mosse, poi sentì una fitta nel fianco destro: era stata una gomitata di Andy a provocarla. Brian lo guardò e vide che Andy -l’eterno mezzo sorriso sulle labbra- gli faceva cenno con la testa di andare. Brian finalmente si mosse verso Daniel e gli prese la mano. Daniel la afferrò con forza e tirò verso di sé Brian, che per la sorpresa quasi perse l’equilibrio. Al di sopra dell’altare Daniel incollò quasi il viso al suo, gli occhi a pochissimi centimetri; la voce con cui parlò era poco più di un mormorio.
– Sei nuovo, sì, e ovviamente ci sono cose che non sai. Da oltre dieci anni celebriamo col sangue per ingraziarci il favore del nostro signore. È un’immensa gioia per lui, e ovviamente anche per noi. Non avere paura. Assapora la sua gloria, e vivila, come la viviamo noi, e vedrai come diventerà grandiosa la tua esistenza…-
Ad ogni parola Brian diveniva sempre più terrorizzato. Gli sembrava di essere precipitato in un abisso. Ma la presa salda e un qualcosa di ipnotico nella voce di Daniel gli impedivano di fuggire come una parte di lui gli diceva di fare. Lentamente il terrore si trasformò una sorta di intorpidimento. Daniel continuò a glorificare il demonio alzando progressivamente la voce, arrivando infine ad urlare, finché non si azzittì di colpo. Nell’immediato silenzio Brian tornò improvvisamente padrone di sé. Si aspettava, e temeva, che Daniel gli lasciasse la mano e gli indicasse dove si trovava la vittima. Ma la mano libera del celebrante saettò all’improvviso e gli piantò un pugnale in pieno cuore.

Brian non riuscì a percepire la gloria del loro signore al di sopra del dolore squassante nel petto e della delusione per essere caduto in un’insulsa trappola. Ma la vita se ne stava andando rapidamente, Alzò gli occhi e notò che il celebrante ora sorrideva. Fu l’ultima cosa che vide.

 

Opossum

L’immobile

No one told you when to run / you missed the starting gun.

Time

La condensa copriva i vetri, ne tirò via una larga linea per osservare la strada.
Seduto al piano superiore dell’autobus aveva una buona visuale di un ambiente grigio e noioso. Un’ischemia urbana, file di auto ferme all’incrocio, pedoni che zizzaggavano tra le auto bloccate per raggiungere i lati opposti della strada e altri che camminavano frettolosi sul marciapiede sotto una pioggia battente. Qualcuno aveva anche avuto il coraggio di prendere la bici quel giorno.

L’autobus avanzò di qualche metro prima di fermarsi al semaforo.
Impegnando entrambe le mani, un predicatore copriva le pubblicazioni esposte con un ombrello e con un altro copriva il suo collega, che era impossibilitato nell’atto di tenere un ombrello dato che teneva ben saldo con due mani un cartello che chiedeva se la Bibbia e Gesù Cristo sono ancora importanti oggi.
Entrambi mostravano un forte fervore e la salda credenza che i gruppi di persone in attesa al semaforo sotto la pioggia sono zeppissimissimi di gente che anela a smettere di essere ansiosa per le cose quotidiane e trovare Gesù.
Pochi secondi prima che l’autobus ripartisse, il predicatore girò il cartello mostrando il lato opposto e una nuova domanda: Chi sono i veri Cristiani ?
Qualcuno duemila anni fa avrebbe dovuto avere il buon senso di registrare il marchio, così oggi non ci sarebbe tutta questa confusione su cosa è canon e su cosa non lo è.

La ragazza seduta di fronte a lui mosse il suo cellulare in alto e scattò una foto alle goccia d’acqua che scivolavano sul vetro, la condivise con commento che enfatizzava la loro somiglianza a lacrime.
Osservò, quasi con ansia, lo schermo per due minuti e sorrise felice quando il primo Like apparve e sbuffò con una saccenza esagerata quando vide di chi era quel Like.
Chiamò la sua fermata, si alzò si voltò verso di lui e non troppo velatamente osservò più a lungo del necessario il pass con foto, nome e cognome che portava al collo, preferì guardare la sua faccia su quell’orpello che aveva con se dal lavoro, non guardarlo direttamente negli occhi.

Fu grato che fosse andata così.

Quando lei fu andata, prese il pass e lo mise in tasca.
Ora lei conosceva il suo nome e il suo volto, se avesse voluto avrebbe potuto guardare il suo profilo online, scoprire dettagli a proposito di lui, dettagli che una normale conversazione non mostrava.
Se lei avesse cercato, non avrebbe trovato niente, la persona che aveva attirato la sua attenzione su quell’autobus semplicemente non esisteva.
Non aveva un profilo.

Uno dei lati più curiosi della social era è la facilità con cui puoi diventare invisibile.

La sua categoria era difficilmente catalogabile. Di sicuro aveva caretteristiche degli asociali, non mancavano aspetti da depresso cronico ingrato del benessere occidentale e da queste due derivavano anche punte di paranoia.
A differenze degli altri non aveva velleità, ne aveva avute ma a differenze di tanti era arrivato quel giorno in cui le aveva riconosciute per quello che erano. Velleità, appunto.

La consapevolezza è una condanna, l’aveva letto da qualche parte.

Ed era vero, brutti giorni quando realizzi che non hai le qualità per diventare ciò che desideri.
Forse era solo scarsa stima di se stessi, le qualità c’erano ma erano inespresse… o non è l’autostima stessa una qualità determinante ? Il mondo è pieno di autostima, le altre qualità latitano. Sono forse io un caso inverso dalla maggioranza ? Potrei ottenere di più se credessi in me? E di sicuro per questo che ho perso delle occasioni.

Mentre farfugliava nella mente l’autobus arrivò alla sua fermata, schiacciò il rosso bottone con scritto stop, il segnale acustico suonò e lui concluse che era una cosa troppo stupida assumere un motivatore. Non solo nel suo caso, in generale.

E’ inutile aspettare che qualcuno venga e ti dica cosa fare, non arriverà e se arriverà ti chiederà cosa può fare Gesù per te al giorno d’oggi.

La pioggia si era affievolita, camminò verso il suo appartamento concludendo il giorno tre, che era stato l’identica copia del giorno uno e del giorno due e i giorni quattro e cinque non sarebbero stati diversi. Meno due al fine settimana, dove avrebbe potuto dormire fino alle due del pomeriggio, la prospettiva più intrigante davanti a lui.
Forse qualche volta i suoi colleghi l’avrebbero invitato ad una serata fuori se fosse stato in grado di sostenere una conversazione. Forse il punto di saper sostenere una conversazione era un buon punto di inizio per migliorarsi e prima o poi avrebbe cominciato a lavorarci.

Per ora non gli sembrava più tanto stupida la prospettiva di far foto a gocce d’acqua, e condividerle sui social con un rigo scritto piatto e banale, aspettare con impazienza una qualsiasi risposta e sbuffare quando questa arrivava, per convincerti che non necessiti di questo per vivere.

Era pur sempre meglio di quello che era.

Slon

Lo Scrittore

Era surreale, avevano sentito del deserto che avanza ma era difficile crederci prima di averlo visto. Solo ora camminando tra la tempesta di polvere riuscivano a realizzare.
I cavalli erano indisposti, granelli di sabbia in ogni orifizio, il solo soffio del vento come unico suono, radi alberi spogli e morti e niente acqua per miglia e miglia. E pensare che solo due anni prima il verde era il colore dominante in quei luoghi.
Non c’erano dubbi che questa fosse la fine del mondo.
E nell’attesa di morire i sei cavalieri avevano rifiutato la sedentarietà, come altri del resto.
Arrivavano voci di atti inqualificabili da ogni parte del Regno, dal disgustoso all’orribile.
A Saint Peter era ormai pratica comune il cannibalismo, il Borgomastro una volta perso ogni sostegno dalla terra aveva trovato un’altra fonte di sostentamento. Non si limitava solo ai cadaveri, si diceva che ci fossero dei veri e propri macelli dove uomini venivano “allevati”. Questo non aveva fatto altro che favorire il diffondersi dell’Epidemia, non solo tra la gente comune ma anche nella piccola corte dei nobili.
Dal sud provenivano voci della Milizia, una volta che il potere centrale decadde abbondarono i loro doveri ma non le loro armi e si diedero al saccheggio e ad ogni tipo di violenza, dove c’era ancora qualcosa da saccheggiare e violentare.

Come prevedibile, sull’orlo della fine, ogni uomo aveva abbandonato la civiltà per regredire ad uno stato che solo una morte certa e vicina può portare.
Ma non per I Sei.
Sebbene non ci fosse più alcuna motivazione per continuare a sostenere i loro giuramenti, loro avevano sellato i loro cavalli ed erano partiti alla ricerca di un mito, un’unica speranza.

Le voci sullo Scrittore erano affascinanti.
Si diceva che questo uomo, vecchio e sudicio, vagasse per il Regno di città in città, di villaggio in villaggio. Si diceva che fosse immune al Morbo, sul suo corpo non apparivano macchie, non si aprivano squarci sulla sua pelle, non vomitava o espelleva schifezze dal suo corpo.
Nel suo vagare aveva toccato migliaia di malati morenti e alcuni di questi si erano alzati dal letto di morte e avevano cominciato a seguirlo.
Alcuni dicevano che fosse un uomo di Dio. Alcuni dicevano che fosse Dio.
E in tempi disperati bastavano voci del genere per spingere I Sei in questa missione.
Nessuno di loro credeva che ci fosse realmente uno Scrittore, un uomo miracoloso che camminava nel bel mezzo della fine del mondo ma come tutti gli altri, tra cannibalismo e violenza, nell’attesa della morte loro avevano scelto qualcosa di nobile: salvare il Regno.
Seguendo chiacchiere popolane.

All’entrata di Chester vennero accolti da sei corpi impiccati, disposti tre per tre ai lati dei cancelli.
Erano lì da molto, il collo del secondo dal lato destro aveva ceduto, il corpo era a terra in una innaturale posa e la testa per qualche divertente ragione era ancora lì in alto abbracciata dal cappio.
UNTORI, diceva il cartello posto davanti ai morti.
Il fetore era insopportabile, quei corpi esposti al sole erano gonfi, pronti ad esplodere.
Gli animali erano spariti, nessun spazzino naturale tentava di ripulire quel putrido disastro organico. Conseguenze come queste erano comuni, un corpo avrebbe potuto stare tranquillamente a marcire al sole finché la terra stessa non l’avesse inghiottito.
Il fetore venne ben preso coperto da qualcosa di peggiore una volta che I Sei entrano in città.
Il Morbo era presente, quel nauseabondo odore aleggiava in ogni strada e vicolo, i cadaveri dei sei all’entrata erano solo una magra anticipazione del mare di morti che inondava ogni angolo di Chester.
Copritevi il volto. Disse il più anziano dei sei.
I cavalli diventavano più inquieti ad ogni passo, anche loro sentivano la presenza della morte e anche loro ne erano spaventati.

Un filo di fumo si alzava in direzione est, si diressero lì.

Uno smilzo prete con una unta tonaca, inginocchiato guardava la sua chiesa bruciare.
Gli occhi fissi sulle fiamma crescenti che divoravano ogni angolo del sacro luogo; non badò ai sei nemmeno quando lo circondarono.

Cosa è successo alla tua chiesa, Prete ? Chiese il più anziano dei Sei.
L’ho consegnata alle fiamme.
Tu hai fatto questo ?
Sì ?
Perché ?
Perché non c’è un Dio misericordioso, non c’è mai stato un Dio misericordioso.
Come puoi parlare così e indossare ancora quell’abito ?
L’ho visto, con i miei occhi… non c’è amore in Dio.
Blateri. Tu avresti visto Dio ?
Sì, Lui era qui per deriderci nell’ora della nostra morte.
E come era questo Dio ?
Non molto diverso da voi, signore. Di sicuro più anziano e molto meno curato nell’apparenza. Ha detto di avere un nome, lo Scrittore.

Ognuno dei Sei ebbe un sussulto, il fantasma, l’illusione, l’ultimo senso della loro esistenza non era forse solo una cosa astratta ma reale ?

Sei un pazzo. Girano voci di questo Scrittore in ogni dove del Regno ma nessuno ha mai fornito una prova della sua esistenza.
Non sono pazzo, lo sono stato per tutta la mia vita ma ora non più. Vi giuro… su niente, non posso giurare su niente di caro perché non ho nulla di ciò ma vi giuro che Lui era qui e ho visto la sua opera e posso giurarvi che quello non è un uomo.
E cosa sarebbe ?
Un Dio e un Diavolo in uno. Prima del suo arrivo l’epidemia non aveva nemmeno sfiorato questa città ma dopo oh… è bastata solo una settimana per dimezzare la popolazione.
Parlava con carisma, indicava colpevoli e noi ubbidivamo. Ha giocato con noi, prima ci ha infettati e dopo ha giocato con noi. Ogni sorta di violenza è avvenuta in questa città solo per il suo divertimento. E sei giorni fa Lui venne da me, con una strana richiesta: cinque cadaveri, bambini, maschi, non più giovani di quattro non più vecchi di otto. Ho obbedito come ho sempre fatto e lui l’ha fatto davanti ai miei occhi.
Cosa ?
Gli ha ridato la vita. Ma non una vita vera e propria, gli ha ridato il respiro, la forza per muovere le loro membra ma loro non erano tanto diversi dai vostri cavalli che vi seguirebbero in silenzio e senza fiatare perché è loro natura fare ciò. Succubi.
Succubi per cosa ?
Non lo so.
Dov’è ora ?
Andato, tre giorni fa diretto ad est con i bambini al suo seguito.
C’erano altre persone con lui ?
No, è arrivato da solo ed è andato via da solo, eccetto per quelle creature.

Il più vecchio dei sei si raccolse in pensiero per qualche secondo, squadrò la città da ogni punto cardinale e finalmente fece la domanda che pulsava nella mente dei suoi cinque compagni.

Dove sono tutti ?
Li avete davanti ai vostri occhi, i cadaveri sono gli abitanti di Chester.
Tu sei l’unico ancora in vita ?
Non per molto.

Il prete mosse la tonaca scoprendo le sua gambe, grosse piaghe nere avevano squarciato la sua pelle fino all’osso, un terribile odore si libero nell’aria.
I Sei indietreggiarono.

Non fare un passo, resta lì immobile. Disse con voce ferma il più vecchio.
Anche se volessi, non potrei.
Tre giorni fa ?
Tre giorni fa ha lasciato la città. L’ho supplicato di guarirmi, di guarire tutti, di ridarci indietro le nostre vita ma lui ha semplicemente detto “No”. Ed è andato.

Non era del tutto una buona notizia. La maggioranza dei Sei avrebbe preferito che quell’ipotesi di Dio a cui stavano dando la caccia fosse, appunto, solo un’ipotesi ma ora c’era qualcosa di concreto. E quel concreto malvagio e inquietante, diverso dalle loro fantasie, portò la paura.

Ma la curiosità nell’animo umano è ben più forte della paura.
Lasciarono il prete alla sua chiesa in fiamme e al morbo.
Diretti verso est.

Slon

La Schizofrenia nell’era degli Artisti

A controprova della massima che recita “I manicomi sono pieni di gente che crede di essere Napoleone” c’è il Signor Ottavio, il mio vicino di pianerottolo, il quale prova che gente che crede di essere Napoleone la si trova anche a piede libero.

Per una qualche congiunzione astrale ci incontriamo in media due volte al giorno, sempre in ascensore, costretto mio malgrado a condividere la sua poco piacevole compagnia in quei quaranta secondi che vanno dal piano terra al quarto piano.
Dal basso del suo metro e cinquantotto mi osserva lentamente e con fierezza militare come se stesse cavalcando un poni bianco, facendo avanti e indietro sul quiete e piovoso campo di battaglia puntando gli occhi sulla sua prima linea di carne da cannone.
Il suo sguardo mi percorre dalla punta dei piedi a quella dei capelli.
I miei di occhi sono fissi sui suoi pochi e unti capelli, schiacciati dal gel in un imbarazzante riporto. Un gel dall’atroce odore di mandorle, talmente forte da impestare l’ascensore e i miei sensi.
L’elegante completo e le scarpe nere lucide lo fanno sembrare un Joe Pesci più basso e meno divertente.

Ricordati, mi dice, mai iniziare una guerra di terra in Russia.
Me ne ricorderò.
Bene.

Arrivati al quarto piano, resta in ascensore, con posizione fiera, il braccio destro piegato dietro la schiena e il sinistro tenuto rigido in giù con mano chiusa a pugno. La porta si chiude e l’ascensore lo rispedisce al piano terra.

Il mio insegnante di scrittura creativa suggerisce di ispirarsi alle persone che incontriamo tutti i giorni per creare i nostri personaggi, usare doti di deduzioni come Sherlock Holmes, ma non per risolvere crimini bensì per capire e creare un profilo di chi ci circonda. Dopodiché gli do i quarantacinque euro per l’ora di lezione.
Il signor Ottavio sarebbe un buon personaggio per un romanzo ambientato in ascensore, dove un vecchio rincoglionito consiglia tattiche militari ai condomini.
Il mio insegnate di scrittura creativa suggerisce di scrivere utilizzando il seguente schema: Introduzione, avvenimento che da il via alla trama, soluzione e finale. Dopodiché mi chiede i quarantacinque euro per l’ora di lezione.

Introduzione:

Vecchio demente disturba i condomini occupando per ore l’ascensore.

Avvenimento:

Le corde dell’ascensore si spezzano quando l’ascensore si trova casualmente all’ultimo piano, l’ascensore va giù fracassandosi con un tonfo trionfale e uccidendo il vecchio.

Soluzione:

I condomini chiamano qualcuno per ripulire il casino e costruire un nuovo ascensore.

Finale:

I condomini ora felici usano il nuovo ascensore senza qualcuno che li molesti.

Cercando di non essere troppo prolisso, dovrei essere sulle tre pagine e mezzo.
Il mio insegnante di scrittura creativa, su Facebook mi dice che tre pagine sono un buon inizio e che il grande G.G. Martin afferma che ogni grande racconto inizia in un piccolo ambiente, come una minuscola stanza o, per l’appunto, un ascensore. Dopodiché mi manda in link del suo ultimo ebook, un fantasy che si rifà alla mitologia africana, un campo ben poco esplorato. Solo solo 4.99, dovresti leggerlo, ti sarà molto utile.

Posto le mie tre pagine e mezza su un forum di aspiranti scrittori, l’admin mi chiede perché il mio protagonista non usa le scale. Gli faccio usare le scale. Un altro mi critica per l’irrispettosa figura delle persone anziane nel mio racconto e io ci vivo con le persone anziane, i miei due nonni, brutto figlio di puttana. Elimino il Signor Ottavio.
Ora ho solo mezza pagina.
Mezza pagina di un tizio che usa le scale.

Il mio coinquilino mi chiama dal salotto.
Guarda questo video, face sitting, uno stronzo steso sul letto e una troia senza pantaloni e mutande siede sulla sua faccia. Seicentomila-trecentoventisette visualizzazioni. Quindici minuti di camera fissa e il fuoco e pure sbagliato, per non parlare dell’apertura. Intanto il mio corto su YouTube è ancora fermo a ventotto visualizzazioni. Dopodiché mi chiede se, a proposito, gli ho lasciato un Mi Piace.
Tutta una Mafia, aggiunge, anche il Sundance Film Festival. Mafia.

Una delle mie caratteristiche è il soffrire di un certo tipo di schizofrenia, la mia testa è abitata da un buon numero di gente che vive le loro vite e queste sono di molto più interessanti della mia.
Il mio insegnante di scrittura creativa dice che questa è un’ottima cosa e che dovrei usarla, scrivere di questa gente quando non trovo ispirazione nella realtà. Dopodiché mi chiede se ho comprato il suo ebook, 4.99 sono un prezzo abbordabile dopotutto.

Il personaggio che abita nella mia testa e che preferisco sopra ogni altro è Burke, irlandese emigrato a New York negli anni venti. Tutto d’un pezzo Burke, si è creato un nome in poco tempo e la sua capacità di risolvere ogni problema l’ha portato nel libro paga di ogni alta personalità newyorchese che può permettersi di avere a libro paga un risolvi problemi.
Ci sono da far sparire tre italiani nel Queens, chiamate Burke.
C’è da ripulire un casino giù a Staten Island, chiamate Burke.
Ehi Burke! Due stronzetti hanno ripulito la casa di Battaglia, il mio barbiere, un brav’uomo. Vedi un po’ cosa fare.

Burke non parla mai, annuisce e tre ore dopo tutto e risolto. Indistruttibile e immortale Burke.

Il mio coinquilino mi fa notare come Burke somiglia al Mr Wolf di Tarantino, quindi non è che sia chissà quale originalità. E parlando di Tarantino, la sua fortuna sta nel suo nome, Quentin Tarantino, un nome mezzo francese e mezzo italiano, facilmente vendibile. Parliamoci chiaro, Eccetto Jackye Brown ha fatto mai qualcosa di decente ? Dopodiché mi chiede se gli ho lasciato il fottuto mi piace, eccheccazzo devo pregarti ?

Nella mia testa Burke viene trovato morto dalla NYPD nei pressi di Forest Hill, tre coltellate al petto.

Scoraggiato chiudo Open Office, vado su un sito random di news, in primo piano c’è un video di una tizia finita in ospedale per aver avuto un orgasmo di due ore, il video è stato girato e caricato su YouTube dal marito col cellulare, diventando virale in manco mezz’ora.
Dove essere un ottimo smartphone, dice il mio coinquilino, nota la disposizione dei colori.

Rifletto su quanto s’impenni la stupidità quando hai a disposizione un dispositivo che filma tua moglie avere un orgasmo di due ore in una stanza privata d’ospedale e condivide all’istante il video col resto del mondo che dovrebbe stare dietro la porta di quella stanza.

Sarebbe un buon tema su cui scriverci qualcosa. Potrei chiedere consigli al mio insegnante di scrittura creativa.
Dopodiché lui mi direbbe Diocristo mandami subito il link LOL! Devo passarlo a mio cugino.
Ehi coz! Guarda un po’ ‘sta troia!

Slon

Il senso del sacro.

Belarmino andava a messa due volte l’anno: a Pasqua e a Natale. Riconosceva come non ci fosse nulla di particolarmente originale nella cosa, ma la consapevolezza di essere in numerosa compagnia lo confortava. La banalità degli eventi non si fermava qui: in conformità agli usi e costumi della maggioranza dei suoi civili correligionari (correligionari?) sbuffava di noia al pensiero del rito già dalla sera precedente, si alzava tardi al mattino, sbuffava nuovamente, si vestiva con la più elegante sobrietà possibile e si recava in chiesa in tempo per la più affollata delle due funzioni mattutine – che, per sua fortuna, era quella più tarda. O forse non si trattava di fortuna. Forse la maggioranza dei suoi civili correligionari amava dormire fino a tardi.
“Senza forse. Ricordati di santificare le feste, ma solo quando il sole è già ben alto. Se è vero che il sole è l’occhio di Dio, non vale la pena di cominciare a darci da fare quando ancora è troppo basso per vederci bene.”
L’edificante sofisma non proveniva dalla sua coscienza, come si sarebbe potuto supporre, ma era un’elaborazione di un suo ciarliero compare di bevute dei tempi del liceo, ormai impolverata da qualche quinquennio. Belarmino accettò la spiegazione come valida, per quel tanto che poteva fregargli.
“A catechismo dovevi essere una specie di primo della classe.”
“Mah, in genere frequentavo poco. In curiosa coincidenza con le lezioni mi capitava spesso di soffrire di inspiegabili ed abbondanti epistassi. La maestra divenne sospettosa e alla fine fui costretto a confessarle che avevo le stimmate nei seni paranasali. Non fu particolarmente colpita.”

Pasqua era in genere meglio di Natale per una valida, anzi decisiva ragione: il clima. Perché non c’era nessuna lontana parvenza di profondità spirituale nei cento minuti annuali che Belarmino dedicava a nostro Signore: a lui, che era in fondo un uomo semplice, interessava unicamente la figa. Da tempo aveva intuito come le chiese, nei due giorni di punta, ne celassero un quantitativo non indifferente. Folgorato ancor giovane sulla via di Damasco, si dedicava ormai da anni a quella piacevole caccia, che tanta soddisfazione gli dava.
Pasqua era il periodo migliore. La primavera era tiepida, qualche volta -se la festa cadeva alta- addirittura calda. Le gonne si accorciavano, le giacche si aprivano. Belarmino si infilava in un altare laterale e con gli occhi accarezzava, col massimo della discrezione possibile, i volti le gambe i culi le tette più invitanti. Il popolo di Dio faceva del suo meglio per non mostrarsi economicamente pezzente al resto del branco, e le femmine -specie le più giovani, Iddio le benedica- si inguainavano volentieri in tacchi alti e magliette chiare.
Belarmino non aveva fretta: soppesava con calma i pro e i contro di ogni capo di bestiame, godendo del sottile senso di blasfemia che emergeva ogni volta. Statisticamente in genere era durante la predica, mentre tentava di indovinare quale fosse la faccia più annoiata (ardua impresa), che trovava la sua Beatrice di turno. Allora si rilassava e attendeva in grazia la fine della funzione. Fra poco, sul sagrato, avrebbe avvicinato la vittima e cominciato a prepararla per consentirgli di entrare al più presto in comunione con la sua personale divinità triangolare.
Era un vero devoto, lui.

Opossum