La logica della finzione

La sento rientrare.

So che è lei prima ancora di vederla, riconosco i passi calmi e scanzonati, quel suo modo particolare di sbattere le porta, ma senza fare troppo rumore. Quasi due settimane da quando è uscita, nella norma, capita resti via molto più a lungo. Azzero il volume del portatile, i personaggi della stupida commedia cinese che non stavo guardando si ammutoliscono all’istante. Una volta un coinquilino mi chiese con genuina curiosità perchè passassi così tanto tempo a vedere certa immondizia.

E’ che sto cacciando, fu la risposta. A guardare e assimilare solo capolavori si diventa arroganti senza volerlo, si perde la logica della finzione. L’ispirazione sa nascondersi nei posti peggiori.

Bisogna sempre cercare nuovi modi per essere banali.”

Come?”

Con un singolo, soprannaturale movimento lei si scioglie i capelli e lancia via le scarpe, poi sposta i miei vestiti accartocciati dalla poltrona e ci si lascia sprofondare dentro. Mi sorride, non ricambio. C’è una sensazione strana nell’aria, come se un milione di invisibili piccole stelle di plastica si preparassero ad esplodere contemporaneamente. Lascia perdere, sussurro, quasi senza fiato. Sono malato, non so cosa dico.

Non sei malato. Stai solo male.”

E’ lo stesso.”

No, non lo è. Come crescono i tuoi progetti?”

Non crescono. Invecchiano.”

Senti, se vuoi parlare, parliamo. Se vuoi giocare a chi dice la battuta più pirotecnica, ho di meglio da fare.”

E’ incredibile il numero di arie che ha preso a darsi, attraverso il tempo. Si comporta davvero come se fosse una persona reale, e non solo un’allucinazione evocata dalla mia mente spossata, con le mutevoli sembianze e personalità di tutte le donne che mi hanno lasciato nuotare dentro di loro. Come Frankestein emotivo ha indubbiamente il suo fascino, il problema è quando si convince di essere qualcosa di più, qualcosa con il diritto di curiosare nelle mie pagine nascoste. Guardarla è come guardare una manciata di fotografie sbiadite mosse dal vento. Mi accarezza senza nemmeno sfiorarmi. E questo benessere che mi invade? Non so da dove arrivi, non so nemmeno se è reale.

Posso fidarmi, o sto semplicemente impazzendo? Chi delinea il confine tra fervida immaginazione e ospedale psichiatrico?

Le fotografie non parlano.”

E’ questo che vuoi che sia? Una fotografia?”

Ecco, brava. Siediti sopra un comodino, sorridi e stai zitta.”

Ma piantala. Se non mi vuoi attorno perchè mi hai creato?”

Ti ho…creato per aiutarmi a ricordare cosa significa amare. Ti ho creato perchè mi piaceva l’idea di una faccia amica che mi consigliasse, che mi salvasse, dato che salvarmi sempre da solo cominciava a sembrarmi triste. Tu vai, sparisci per mesi, torni, ficchi il naso, mi fai la morale. Giudichi la mia apatia senza interessarti delle sue cause. Ou! Mangiati una merda.”

Senti un po’…”

Ma senti un cazzo! Sparisci!”

E’ qui che, senza molta originalità, le stelle di plastica esplodono. Lo fanno silenziosamente, come se non volessero disturbare le stelle vere, quelle che in questo esatto momento stanno esplodendo per davvero chissà dove, dando un senso all’universo. Cominciamo ad alzarci nello stesso momento, ma in mezzo secondo lei è di fronte a me e mi risbatte a sedere sul divano. Mi sale sopra mentre un’ondata di morsi elettrici mi paralizzano la schiena. Appoggia le labbra sulle mie orecchie, i suoi capelli di odori e colori diversi creano un meraviglioso groviglio di brividi, e io non riesco, non voglio muovermi.

Senti un po’. Mi avrai anche creato, ma io non sono te. E non mi interessa capire il dolore come fai tu. Non mi interessa farti da balia, portarti a passeggio tra i ricordi. I tuoi dubbi, le tue ansie, a me fanno schifo. Capisci? Mi hai creato per impedirti di affogare nella tua confusione, perchè rappresento tutto quello che hai perso a causa sua. Datti una cazzo di svegliata.”

Mi lascia e si alza di scatto, lasciandomi stordito. Cammina un po’ in tondo nella stanza e la sua rabbia adesso sembra completamente svanita, ora è come se fosse imbarazzata, è buffa, ed è bella.

Ora prendi il telefono e rispondi a quella troietta che stai schivando da due settimane, fatti una scopata come cristo comanda. Quando sarai tornato un essere umano…forse parleremo ancora.”

Esce sbattendo la porta, ma senza fare rumore. Sullo schermo, Chow Yun Fat rincorre silenziosamente un nanetto cinese nudo che molesta le donne nel parco.

Mi asciugo i brividi, prendo il telefono, e fanculo tutto.

Kirez

Confini

Dragon Ball. Hai presente? Da piccolo mi piaceva un sacco. I fumetti, non il cartone animato. Il cartone è venuto poi, era una merda semplificata per cerebrolesi. Che cazzo c’era da semplificare, poi? Il fumetto era già di una semplicità perfetta. Hanno sputtanato tutto: ritmo narrativo, ritmo dell’azione, dialoghi, colori schifosi, tutto. Era proprio una…”

“Una merda, ho capito. I fumetti invece erano la sborra di Budda. Allora?”

“Allora il fumetto mi piaceva, da piccolo. Mi piace anche ora, in un certo senso. Aveva dei combattimenti fighissimi, ma erano inutili se non seguivi i personaggi e la storia. E la storia portava diverse morali per niente scontate, per un bambino. Ad esempio…hai presente Goku?”

“Sì…credo. Era quello con i capelli sparati ovunque, no?”

“Lui. Un figo di Dio. Nella sua apparente ingenuità, cagava saggezza a carriole. Quando gli chiedevano: -Perchè combatti? Per salvare il mondo?-, lui rispondeva: -No…combatto per trovare il mio limite.- Il limite, capisci? A lui non fregava un cazzo del resto. Cioè si, era buono, gli amici, la giustizia…ma l’unica cosa che gli interessava davvero era combattere, e diventare più forte. Quando arrivava un supermostrofuck e tutti si sporcavano le mutande, lui faceva la verticale dalla gioia, anche se già sapeva che sarebbe stato sconfitto. Era capace di distruggere interi pianeti, solo per provare una nuova tecnica, o confrontarsi al massimo col villano di turno. Il suo unico scopo era trovare il limite. Il suo limite, cristo.”

“Il limite.”

“Sì. Sono affascinato dai limiti.”

“Ma non sono una cosa brutta, i limiti?”

“Non necessariamente, dipende da come li vedi. Ma qui, ora, il punto non è tanto il limite in sè. E’ tutto quello che c’è prima. A me piacciono le emozioni, ad esempio. Il sentire, in tutte le sue forme. Ci sono dei limiti anche in questo, e io voglio trovarli.”

“Ti è mai capitato?”

“Qualche volta. Mi è capitato di attraversarli pure, perchè non mi ero reso conto di cosa stavo facendo. Cosa poco furba. L’abuso in generale non fa mai bene, soprattutto quello di emozioni. Ti puoi fare veramente male.”

“E come fai a capire quando ci arrivi?”

“Beh quello dipende da te, da quanto conosci te stesso. All’inizio non li vedi. Poi cominci a vedere dei piccoli segni, come una linea tracciata sulla sabbia, per dire. Più avanti vai dentro te stesso, più riesci a vederli.”

“E tu ora ce la fai?”

“Meno di quanto vorrei, ma a volte si, dai. Di recente ho trovato il mio limite nell’amare. E non parlo di un cancelletto di filo di ferro, messo su dalla delusione o dal buon senso. Parlo di una cazzo di porta blindata in titanio senza serratura, sorvegliata da un plotone di preti nazisti zombi.”

“Impossibile attraversarla, insomma.”

“Al contrario, facilissimo. Bastava chiedere: la porta si sarebbe aperta, e sarei andato avanti, avrei amato sempre di più. Ma c’era un prezzo da pagare. Avrei dovuto annullare me stesso.”

“Beh..si fa, no? In amore, dico. Si fa di tutto per l’altro, compreso annullarsi o sminuirsi.”

“Si fa, certo, ma è sbagliato. E’ una truffa romantica-secolare che ha rotto i coglioni. Se io ti amo, voglio darti tutto me stesso: i miei pregi, i miei sogni, i miei difetti. Se mi annullo, o mi deformo, resta poco o nulla da dare, non sono più io. Diventi uno zerbino, qualcosa di piatto e ruvido su cui l’altro si pulisce l’ego sporco di merda. Non fa per me. Non dovrebbe fare per nessuno.”

“Quindi non l’hai passato, il limite. Sei tornato indietro.”

“Sì. Stavolta si.”

“E hai smesso di amare.”

“Per nulla, amo come prima. Amo il giusto, restando lucido, senza esagerare e stare male di conseguenza. Resta una cosa mia, che non riguarda nessun altro, nemmeno la persona oggetto del sentimento. Cazzi miei, trallallà.”

“Capisco. Ma allora, a cosa ti è servito trovarlo, questo limite?”

“Ho imparato un sacco di cose su di me. Mi sono ubriacato di emozioni intense, ed è stato bello. Mi sono vomitato addosso, ed è stato meno bello. Ma non sono andato in coma etilico, non ho fatto cazzate irrisolvibili. E alla fine della fiera, sono diventato più forte, senza trucchi o truffe emotive, e ora il limite si è spostato più in là. Sono pronto per il prossimo supermostrofuck. Non ti pare che basti?”

“Direi di si. Cioè, è molto soggettivo, ma sì. La passi quella canna o cosa?”

“Cribbio, scusa. A volte la dialettica mi fa dimenticare l’educazione. Di che stavamo parlando?”

“Di Goku.”

“Giusto. Allora, un’altra figata biblica è la stanza dello spirito e del tempo. Praticamente lì dentro….”

Kire

A Conti Fatti

Nove Strade

11 Novembre

Primo Anno

Ti ho pensato tutta la notte, e ora ti lascio qui, adagiata in questo angolino d’alba.
Dopo tutto questo tempo le mie labbra profumano ancora della tua dolce incoerenza, e i miei pensieri sono servi infedeli, si rifugiano in te non appena mi distraggo un attimo. Brindiamo assieme, il DIN! dei nostri brividi risuona nell’aria ruvida, il rumore del fiume che scorre abbandona il suo corso e ci viene in grembo, fa le fusa come un gatto viziato.

E’ bello averti qui.

Ma dove sto andando ora, tu non puoi venire. Dove sto andando ora avrò bisogno di tutta la mia forza e tutta la mia disperazione, e se vieni con me soffrirai, e non devi.

I ricordi iniziano già a perdere la loro classica linea temporale, si fondono tra loro, si sovrappongono, scambiandosi i vestiti, le maschere, le voci.

Ma l’inizio, l’inizio lo ricordo ancora bene. Ero al porto, la notte prima di salpare per Bisanzio. Passeggiavo sui pontili, osservando affascinato le luci dei fari corteggiarsi sulla superficie calma dell’acqua. Le Voci cantavano, come sempre, ma ancora io non sapevo cosa dicessero, e il loro suono non era poi diverso da quello del tempo. Una parte di me chiedeva “perchè parti?”, le altre parti invece non ci pensavano, nonostante non lo sapessero.

Poi fu Bisanzio. Fu la magia, fu la pioggia, furono le strade strette e acciottolate che risaltavano di un bianco e nero perfetto, un contrasto distorto e sublime, inquinato solo dai brevissimi lampi elettrici e blu dei tram, intenti a trasportare i sogni verso il mattino.

Guardavo quei tram dissolversi piano all’orizzonte, chiedendomi quando ci sarei salito. Non l’ho mai fatto.

Poi, fu la follia. Furono le notti negli scantinati di legno, fu il jazz oscuro e suadente che beveva a canna le mie sicurezze lasciandomi spaesato e tremante per il freddo. La notte finì, e il mattino portò il frastuono, un’orgia di suoni simboli e luci nere e rosse a forma di lacrima, fu la realtà che si radeva in fretta, riempendosi di piccoli tagli che bruciavano, furono mille libri scritti in una lingua incomprensibile, fu una sola parola nitida e chiara in mezzo a loro.

E poi un’altra. E un’altra. Le Voci cantavano, come sempre, ma ora riuscivo a cogliere qualcosa qua e là, frasi sconnesse, di una Bellezza arrogante e commovente.

Quando tornai a Nove Strade tutto era uguale, eppure tutto era diverso. I sentieri, i profumi, le persone: tutto era come sempre, ma ora tutto cantava, e nel canto ogni forma e guisa e schema si deformava ammiccando, promettendo distratta viaggi sensazionali in un altro mondo, in due, in infiniti altri.

Studiai, per la prima volta nella mia vita con passione. Ogni nuova nozione portava centinaia di dubbi nuovi, stimolandomi invece di demoralizzarmi. Muovevo piccoli passi timidi in altre assurde Realtà, toccando con soggezione e rispetto e infinita curiosità la nuova  materia delle cose. I Sogni ora non scomparivano più al mattino, ma mi restavano accanto, a volte gentili e pacati, a volte litigando furiosamente tra loro, per farsi ascoltare.

Nella vecchia realtà, avrei semplicemente concluso che avevo smesso di sentirmi in colpa per ciò che sono. Nelle realtà nuove, le conclusioni perdono di senso.

Sono ancora prigioniero, come tutti. Ma ora so di esserlo, vedo le sbarre, e ogni giorno che passa riesco a sporgermi qualche metro in più fuori da esse.

Amare, tradurre, sognare: tutti concetti che prima avevano un solo significato ben preciso, e sbagliato. Ora non c’è nessuna spiegazione, e queste cose mi travolgono. Presto lascerò Nove Strade, e senza saperlo, so esattamente cosa succederà.

La fine dell’inizio. Il fine dell’inizio.

Grazie di tutto.

 

 

Post it

Che poi il problema non è il ricordo, chi l’ha mai detto.
Il Ricordo è un alleato strano e potente.
A volte è un simpatico vecchio con una lanterna, che ti fa cenni dal bordo di una strada spazzata via dalla nebbia, e poi ti porta in osteria.
A volte è una bella donna che ti accarezza il collo e ti sussurra nelle orecchie cose che ti fanno tremare le ginocchia..
A volte è un beduino barbuto, che ti violenta e ti tortura nella stiva di una nave di schiavi.

Ci sono ricordi che sono semplicemente ragni in un angolo, pronti a farsi schiacciare non appena escono alla luce.
Altri vanno messi via con cura, arrotolati nella seta e riposti in un cassetto di vetro.

I ricordi sono tante e tante cose, ma non sono il problema. Il problema è immaginare che siano ancora.
Sei portato di tuo ad immaginare? Peccato.
Tu sai che non devi farlo, ma è un casino. E’ come smettere di respirare, stare continuamente in apnea. Come si fa a non immaginare? A non respirare?
Ma è quella la stronzata, toc toc. Cazzo respiri, se l’aria è è tossica. Trattieni il fiato, e rompi una finestra, così entra aria fresca. Ce ne son tante, di finestre da rompere, hai voglia. O hai paura di graffiarti le nocche?
E’ prendere la pelle di una realtà e tentare di trapiantarla in un’altra, e via di rigetti.
Dottore? Ma il dottore è un pupazzo di stracci. Sembrava più realistico, al provino.
E’ come giocare a carte con un mazzo di scacchi in mano. E ti incazzi pure, se perdi.
Ma sarai deficiente.

Ed hai poco da cercare di trovare uno scorcio di luna nelle fogne in cui metterti a giocare al poeta.
Non hai Dei da pregare, anche se ti piace pensare di averli.

La smettessi di scrivere sui muri con le unghie, sanguinando dappertutto, te ne accorgeresti.

La malinconia non è quello che pensi. Non è la causa del tuo sentire. E’ solo un abito che qualcuno ti ha messo, quando eri ancora troppo piccolo per vestirti, e che a volte ti sta stretto, ma è solo tuo.

La malinconia ha un sacco di cose da dirti, in quelle serate in cui il sonno se ne va a farsi nuovi amici.

E se la inviti con il sorriso giusto, scoprirai che è un’ottima danzatrice.

K

Un Giorno ogni tanto

Calcinacci.

C’è un rumore sgradevole, come se un demente dai radi capelli stopposi si stesse mangiando di gusto uno xilofono. Le palpebre, sono come due vecchie saracinesche chiuse. Provo ad aprirle ma sono bloccate, si alzano giusto un soffio, tutto quello che ottengo sono due sottili orizzonti tascabili di luce conturbante. Riprovo di nuovo, stavolta con più forza, e le saracinesche si alzano di botto con gran gemito metallico e turbinio di polvere assonnata, da garage di periferia. La luce mi sbrana vivo, e poi si attenua.

Veloce.

Talmente veloce che non è che capisca tanto bene che succede. Mi guardo attorno, cercando d’istinto di dare un nome, un odore, un link familiare a quello che mi circonda. Sapete no, tanto per stare tranquilli. Ma appena giro la testa, seppur mi muova normalmente, la realtà scarrella folle da destra a sinistra, gli angoli delle cose nuotano nell’aria, le cose stesse ancheggiano e volteggiano come danzatrici orientali possedute dal dio mambojambo. Lo xilofono zombi continua.

Chiudo gli occhi. Respiro a fondo, aspetto un po’, poi li riapro.

Ora vedo meglio e sopratutto fermo, una specie di palude selvaggia fatta di ombre, i rami intricati creano un fitto grigionero, l’acqua verdastra gorgoglia, e finalmente vedo una cosa definita, un cellulare da due soldi grande come un uomo adulto che risale lentamente dalla superficie, con rimasugli melmosi che gli restano appesi addosso. Mi sa che comincio a rendermi conto di che succede.

Chiudo gli occhi di nuovo (li ho mai aperti?), premo forte i palmi delle mani su palpebre e tempie. Inarco il collo e mi lascio trasportare verso su, su, su, verso la vita, quella vera.

La realtà, vista da sotto, è sempre tremolante.

Poi, finalmente, sono sveglio del tutto. Aria, check. Letto, check. Testa, check. Mal di testa, check.

Il cellulare sul comodino squilla e vibra tutto pimpante. La suoneria, una di quelle midi di default, è qualcosa di orribile. Non rispondo, chiunque sia si beccherebbe solo gorgoglii. Prendo la rincorsa e mi metto a sedere. Dov’ero ieri sera? Boh. In ogni caso, giuro a me stesso che non berrò mai più.

Un’ora dopo, comincio ad assomigliare di nuovo vagamente ad un essere umano. Tempo di iniziare di nuovo a bere.

Tanto. Oggi è festa. Tutta la vita è una gran festa, ma ora come ora non mi ricordo se mi hanno invitato.

Esco di casa e mi tuffo nelle strade, lasciandomi trasportare a peso morto. Non galleggio troppo lontano, prima che la corrente mi porti da te.

Chi sei?

Non ti conosco, ma vorrei parlarti. Ti parlo. Devo usare l’approccio completamene sincero o la versione censurata e corretta? A me piace il primo, ma l’esperienza insegna che la sincerità totale fa strano a molta gente. Spesso le fa paura, anche se in fin dei conti stai dicendo cose belle. Spesso, troppo, il peso e il valore di quello che esprimi è direttamente proporzionale all’idea che gli altri hanno di te.

Devo lasciarti il tempo di farti un’idea di me? Ma ti devo guidare timidamente verso i miei lati migliori, o devo lasciarti rovistare a piacimento nei cassetti? E’ un rischio in ogni caso.

Lascio stare, che seghe.

Decido di guardarti e basta, per ora.

La tua espressività è un teatro di provincia, con pochi spettatori. La coreografia è spartana, il palco è male illuminato. I muscoli del tuo viso non sono grandi attori, ma sono pieni di passione per quello che fanno. Non c’è traccia di finzione o compiacimento nelle emozioni che ti saltano in grembo. Il taglio dei tuoi occhi e la pelle appena sotto sussurrano quanto hai sofferto per qualcosa. Mi sembri umile, insicura, intelligente e semplicemente bella.

Mi sto inventando tutto, o sei davvero così?

Cos’hai dentro?

Vorrei fare un gran respiro e tuffarmi, sgambettare sul fondo, accarezzare le perle nascoste e le alghe marce della tua personalità, vedere a quali pensieri solitari affitti la tua mente.

Il tuo profilo visto dal basso è sottile e sinuoso, rilassato ma attento. Ho voglia di fare l’amore con te, qui nell’erba, ora, lentamente, scoprire che odore hanno il tuo collo e le tue labbra.

Ho voglia di innamorarmi di te, solo per stasera, e poi andarmene. Non vederti mai più.

Stiamo poco insieme. Non ci diciamo nulla di memorabile, non succede nulla di memorabile, e neanche mi ricordo il tuo nome. Ma respirarti mi ha fatto bene.

Boh, grazie.

Ti saluto mentre tutto cambia. I colori diventano caldi, mentre l’aria si raffredda. La grande signora Notte comincia ad incipriarsi per il suo show eterno.

Ma stanotte non ho voglia di stare ad ascoltare i suoi rumori, stanotte me ne vado a letto rilassato e tranquillo, un pianoforte a farmi da faro e un po’ di pace a farmi da remo.

Tanta roba.

 

K

Non possiamo aiutarvi

Storiella, dai.

Me ne stavo con un’amica, un po’ di sere fa. Belli comodi intimi, l’atmosfera c’è, si sta bene.
Questa ragazza vuole usare il preservativo. Io li odio, quei cosi. Cerco di spiegarle che sono un maestro nell’arte del coito interrotto, nel sesso come nella vita: in qualsiasi situazione o sensazione, so che c’è sempre la fregatura, da qualche parte. Sono bravo io, a evitare le fregature.
Non è che la convinco molto. Usiamo il preservativo.
Fatto sta che, non so se per sfiga cosmica o per bassa qualità del prodotto, il giocattolo si rompe. Nel momento clou.

Diciamo che all’amica mia sta cosa non fa molto piacere. Beh neanch’io non è che stappi spumanti, a dire il vero. Cerco di tranquillizzarla come posso: domani mattina appena ci svegliamo ci fiondiamo al pronto soccorso, e ci facciamo dare la pillola del giorno dopo. Cinque minuti, vedrai.

Cinque minuti.

La mattina dopo si piglia e si va. Il prontocura sta pure vicino a casa. Meglio di così!
Dopo qualche scala e corridoio, ci ritroviamo in accettazione. Al bancone c’è una donna.
Non sembra una stronza, non sembra nemmeno gentile. A dire il vero non sembra neanche viva. Ah ok, sì, parla. Però ha uno strano timbro metallico nella voce, lo sguardo perso nel vuoto verso il basso. Sarà mica un nexus 6 difettoso? Sono le note di Vangelis, quelle che sento arrivare dal fondo del corridoio?
Decido di lasciar perdere, spiego la situazione.
“Mi dispiace, ma il nostro dottore specializzato in questo riceve solo il giovedì”
Oggi non è giovedì, inutile dirlo.
“Capisco signorina, ma a noi non serve la pillola del giovedì. A noi serve la pillola del giorno dopo”
“Non possiamo aiutarvi. Provate all’ospedale qui di fianco.”

Eh. Proviamo.
L’ospedale accanto è bello imponente. Piastrellone e scalinate eleganti, sembra la hall di un teatro.
C’è una minuscola guardiola con scritto informazioni. Dentro non c’è nessuno. Aspettiamo un quarto d’ora, finchè nel tugurio si materializzano due vecchiette. Sembrano due siamesi uscite da un bocciodromo di periferia. Stanno vicinevicine quasi attaccate, prima di parlare si interrogano a vicenda con lo sguardo, forse per decidere il ritmo e non parlare contemporaneamente.
Mi guardo attorno, forse c’è Cronenberg che sta girando qualcosa. Non c’è.
Spiego la situazione, fanno una faccia esterrefatta, come se non sapessero di cosa parlo.
Cristo, non sto chiedendo un vaccino contro il veleno del ragno Kim Dum delle isole Galapagos. Vogliamo solo una cazzo di pillolina bianca.
“Non siamo attrezzati per questo”. 5 piani di ospedale, ma non sono attrezzati a prescrivere un confetto.
“Non possiamo aiutarvi. Provate in quest’altro ospedale, il blabla. Lì hanno un reparto di ginecologia”.

Ah beh, allora. Prendiamo l’autobus e ci fiondiamo dall’altra parte della città.

Subito in accettazione, di corsa. Stavolta la tipa al banco sembra davvero una stronza. Spieghiamo tutto.
“A cosa vi serve la pillola?”
Le colleziono, guarda. C’ho un album intero a casa. Ne ho anche una autografata dal dottor House.
Meglio di no dai. Ingoio il mio sarcasmo, e spiego tutto, stavolta nel dettaglio. La tipa sembra schifata. Chissà da quanto non prende un cazzo, questa.
“Lo sa vero, che dovete usare altri metodi?”
Visualizzo distintamente la mia pazienza mettersi sciarpa e soprabito, pronta ad andare al bistrot a bere un caffè amaro.
La prendo per la collottola e la faccio sedere di nuovo. La imploro in lacrime di restare.
“Sì signora. Ha ragione signora. Ora, potrebbe aiutarci? Per favore”
“Primo piano, reparto D”.

Ringrazio qualche santo a caso. Andiamo.
Driiin, campanello. Aspettiamo. Esce un’infermiera.
Una tipetta bassa e bionda, sui 40 anni. La sua faccia è una tazza bollente di astio vivace, con qualche goccia ben dosata di supponenza gratuita. Spieghiamo tutto. Ancora.
“Aspettate qui.”
Aspettiamo. Alla mia amica sta ragionevolmente salendo un po’ di ansia. Cerco di calmarla, anche se non sono tanto bravo in queste cose. Dopo un po’ l’infermiera torna.
Si siede sullo sgabello di plastica, di fianco alla mia amica. Le prende le mani. A me, non mi caga nemmeno. Sembra una scena da telenovela della bassa Brianza.
Anzi no, perchè nonostante quello che sta per dire, l’infermiera ha un sorrisetto cattivo e compiaciuto. Ora sembra di più twin peaks.
“Mi dispiace, ma il medico di turno in questo momento è obiettore.”
Buon per lui. Ma a noi serve la pillola, mica una confessione.
“Essendo obiettore, non le può prescrivere il farmaco.”
NON PUO’? Perchè io ci vedo invece un NON VUOLE?
Prendo la parola, cerco di capire il senso.
“Mi sta dicendo che un medico specializzato, in servizio, sottostante al giuramento di Ippocrate, si sta rifiutando di aiutare una ragazza in lacrime a causa di credenze puramente personali?
“Mi dispiace. E’ un problema COMPLESSO e FILOSOFICO.”
“Ma dove cazzo siamo, in un OSPEDALE o in un TEATRO GRECO?”
“Non possiamo aiutarvi.”
E’ troppo. Ora sì che inizia a salirmi lo schifo, nonostante il mio ottimismo. Comincio a immaginarmi katane insanguinate e servizi su studio aperto. Per l’ultima volta riesco a calmarmi, e cerco di elemosinare altre informazioni.
“Ci sarebbe un consultorio, dalle parti di blabla…”
Dove, strega puttana. DOVE.
“Non saprei esattamente…”
Certo, che non lo sai. Certo, che non hai un indirizzo da qualche parte, o almeno un pc collegato a internet per controllare. Certo.
Ce ne andiamo.
Altro autobus, altra zona. Chiediamo informazioni per strada, troviamo il posto.
Un posto piccolo e tranquillo. Niente accettazione, qui. Niente scalinate, niente teatri, niente campanelli da suonare e aspettare.
Un ufficio con un po’ di ragazze giovani che parlottano. La porta è aperta, ma bussiamo lo stesso.
“Permesso..”
Spieghiamo tutto, e stavolta una tizia sorridente e gentilissima ci ascolta in silenzio, annuendo.
Ci porta da parte, fa le domande di rito, ci prescrive la pillola. Una cosa di dodici secondi in tutto.
Vorrei abbracciarla, quasi lo faccio. Spero si sia accontentata del mio sguardo colmo di speranza verso la specie umana.
Da qui in poi è facile. Ultimo autobus verso la farmacia, un pranzo veloce, la mia amica ora è tranquilla. Io pure.
Penso alle divinità del mio pantheon personale, penso a Pachamama, penso al Karma.
Penso che se cerchi bene, puoi ancora evitare di odiare tutti.
Brindo con la mia amica, io con una birra, lei con il bicchiere d’acqua con cui ha ingoiato la pillola.
Stiamo tranquilli.

Non sono ancora padre.
Fino a qui tutto bene.

Kiree

Fool man walking

Pure qui.

Dunque. Ieri mi trovo in treno diretto verso casa, dopo una settimana di flebile baldoria in giro per la regione. Devo essere più stanco del previsto, dato che ad un certo punto mi becco davanti LUI, l’incubo di tutti i viaggiatori mentecatti, il cerbero CONTROLLORE delle fs dal berretto verde e dallo sguardo spento.

Dopo averlo informato della mia mancanza di biglietto e della mia infanzia difficile, vengo più o meno gentilmente costretto a scendere.

Nella fermata più brutta e desolata d’Italia. Barbabecco qualcosa, cazzo ne so. Lascio andare lo sguardo al villaggio-quartiere dietro la stazione. Un misto tra Da Nang e il parcheggio di un ikea. L’attrazione principale è un ferramenta chiuso.

Non una sala d’attesa, un bar, nemmeno una panchina in cui dissolversi una mezz’oretta, il cappello sugli occhi, la mano in tasca chiusa sul coltellino svizzero, in caso qualcuno volesse rubarmi i sogni.

Mi avvicino alla bacheca degli orari. Con molta difficoltà, scrutando attraverso peni stilizzati, citazioni ricercate del tipo “chiKKo tvkbmamo si 4ever kk tt 32925252 mangio caZZI sl groSSI” e macchie e incrostazioni di dubbia origine, scopro che il successivo mezzo di locomozione sarebbe arrivato dopo due ore.

DUE ore.

Tutto il mio equipaggiamento consiste in uno zaino pieno di vestiti sporchi, un cellulare scarico, una sterlina e un sacco di sorrisi.

Mi guardo attorno in slow-motion, giro su me stesso a braccia spalancate tra i binari, datemi il giusto accompagnamento e una voce in falsetto e vi divento la nuova stella mestruopop delle classifiche.

Guardo l’orizzonte.

All’improvviso mi sale una voglia irrefrenabile di un’infanzia di frontiera americana alla HUCKLBERRY FINN, e decido di incamminarmi a piedi seguendo la confortante linea delle rotaie. Una quindicina di km mi dico, che cazzo perchè no? C’è gente di 25 anni che fa scoperte scientifiche, vince motomondiali, va in tv in prima serata, perchè io non dovrei riuscire a farmi 15 chilometri sotto il sole?

Mi incammino.

Dopo il primo km la simpatica temperatura mi convince a continuare a torso nudo come i veri LORENZI LAMAS.

Dopo il secondo, le zanzare mi fanno omaggio di un nuovo tatuaggio sul petto, un’originale scritta “MORIRAI” in latino, con tanto di ombre, sfumature, e un piccolo bafometto che spunta da dietro una colonna in stile bisanzio antico.

I treni mi passano accanto e mi suonano come se fossi una battona sul marciapiede, l’orizzonte si fa sempre più monotono e sfuocato: più o meno al quinto km, decido di uscire dal percorso e tagliare in mezzo ai campi. Tanto. Se taglio di qua, poi giro di là, esco da cip e passo per ciop. Facile.

Mi perdo.

Vigneti, rovi e prati fioriti, rumoracci nell’erba sicuramente provocate da anaconde assassine, piccoli oceani di fango da guadare che non si capisce nemmeno da dove arriva sto cazzo di fango, che non piove da sei mesi. Beh insomma mezzo apocalypto e poi arrivo in un piccolo centro abitato a me sconosciuto. Vorrei chiedere informazioni, ma non c’è NESSUNO.

Voglio dire, sarà l’una di pomeriggio. Un bambino in bicicletta. Una mamma che sbatte una tovaglia. Un contadino ottantacinquenne analfabeta. NIENTE. Imposte chiuse, nessun rumore. Mi sembra di trovarmi nei titoli di testa di un film di Romero. Rimetto la mano in tasca sul coltellino. Continuo a vagare a cazzo.

DEUS EX MACHINA: una vecchietta su una polo si avvicina. Sembra un miraggio, ma io mi butto davanti e lei si ferma. Ci metto almeno due minuti a convincerla ad aprire il finestrino; finalmente, balbettando, mi spiega dove sono, ovvero nell’ESATTA direzione opposta rispetto a dove devo andare. Faccio per ringraziare, ma alla seconda i di “gentilissima..”la vecchietta è già sparita all’orizzonte.

Mollo una sessantina di bestemmie, così, tanto per requilibrare il karma, e mi invio nella giusta direzione. La la la, cammina cammina, trovo una tangenziale. Non ricordo di aver mai provato sollievo alla vista di una tangenziale, prima d’ora. Decido di tornarci in un futuro tramonto con la mia prossima ragazza, staremo abbracciati sul ciglio a vedere gli scania passare, e proveremo un senso di pace con l’universo. Provo a fare un pò di autostop ma appena la gente mi scorge scattano delle risate registrate alla Bill Cosby, loro sgommano di gusto e si allontanano leprotti.

Nell’avvicinarmi di nuovo alla realtà conosciuta, non so perchè, ripenso al manuale delle giovani marmotte che avevo da piccolo. Inizio a vedere paperi in casacca morti con la coda dell’occhio.

Infine dai, basta. Arrivo in un paesello conosciuto dove un’amica ha un negozio: mi accascio fuori e aspetto per una mezz’oretta l’apertura. La tipa arriva, mi trascina dentro, mi lancia un bicchiere d’acqua in faccia e mi presta il suo telefono. Chiamo il fratellame strappandolo ad un pomeriggio di sole e sorrisi e lo costringo a venire a prendermi con la motoretta. Breem brem, da dove cazzo arrivi, guarda lascia stare

Arrivo a casa, scrivo sta roba, e mi addormento sul tappeto.

Ciao.

Kiree