Dentro.

C’è questo posto. Questa specie di palazzo. E’ curioso.

E’ grande grande grande. Nonostante l’abbia in gran parte costruito io, ci sono ancora un sacco di stanze in cui non sono mai entrato. Stanze grandi, disordinate, in cui non ho ancora allacciato la luce, e in cui mi devo muovere a tentoni, accarezzando scatoloni chiusi pieni di cose bellissime.

O terribili.

Quello che conosco invece, mi piace come è arredato. Una stanza a tema per ogni stato d’animo.
All’interno, o forse dietro non so, c’è un giardino molto grande: di solito ci vado all’alba, a passeggiare quando mi sento bene. Alcune parti sono molto ben curate: sentierini, aiuole, simmetria. Ci sono siepi e sculture d’erba, piccoli animali di siepe, costellazioni, strani oggetti.
Ma la parte che preferisco è quella in fondo, selvaggia, con l’erba bagnata di rugiada che arriva alle ginocchia, e un filo di nebbia perenne che sfuoca l’orizzonte.
C’è una terrazza capovolta, dove vado a pensare quando sono confuso: da lì guardo il mondo al contrario e cerco i immaginarmelo con la stessa mia gravità. Ma non è facile, e il più delle volte me ne torno in casa con un mal di testa biblico.
C’è una stanza che contiene l’oceano, tanto quanto posso percepirlo.
Comincia da una spiaggia totalmente bianca e immacolata. Qui è dove vengo quando sono davvero al limite, incazzato o frustrato. Non molto spesso, devo ammettere. Qui è dove vengo quando i miei problemi, le mie paranoie, i miei incubi raggiungono l’apice, e non sono più gestibili o rimandabili.
Qua è dove li combatto: faccia a faccia occhi negli occhi e denti nella carne se sono problemi veri, o mettendoli in ginocchio e finendoli con un colpo alla nuca, se sono solo seghe mentali.
In un grande salone ho allestito un cineforum d’essai, in cui posso sedermi tranquillo e visionare con calma ogni idea o viaggio mentale mi stia galleggiando grezzo nella mente. Lavoro sul montaggio mano a mano che il film scorre, aggiungo tolgo e modifico, mi emoziono applaudo o critico come se fosse sempre la prima ufficiale.
C’è una cantina, da qualche parte, sopra o sotto. Ci si arriva tramite un complesso sistema di scale male illuminate. Ospita una specie di antica fornace che lavora costantemente e riempie l’ambiente di quello che può andare dal gradevole calore al caminetto dell’inferno. Qui ci vengo di nascosto stando attento che nessuno mi segua quando ho freddo, quel tipo di freddo emotivo che mi rende insofferente e nervoso a qualsiasi tipo di vento esterno. Qui mi accoccolo tra vecchi sacchi di yuta, rabbrividendo di calore puro e ancestrale, completamente indifferente alla temperatura del Mondo di Fuori.
Ed è qui che mi fermo un po’ a riscaldarmi, ora.

Kiree

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