Duyfken

C’è la periferia, e io ci cammino.

C’è qualcuno con me, che strani amici. Uno è una specie di nano, anzi no, è solo uno molto basso. Potrebbe essere anche un bambino, ma qualcosa nei suoi occhi è troppo vecchio. Ha i capelli rossi e corti e una maglietta arancione, e parla a manetta tutto contento, gesticolando. Cosa dica non ne ho idea, non capisco. Poi c’è un’altra figura bizzarra. E’ una specie di macchina fotografica, grande come un pallone da basket. E’ formata da una sacco di parti tecnologiche moderne, tasti, schermi, tanto quanto da ciarpame steampunk, vecchie molle arruginite, grossi ingranaggi di orologi che ticchettano. Come braccia e gambe ha dei sottilissimi steli di filo di ferro, che la fanno muovere lentamente e goffamente, in un modo che suscita simpatia. Anche lei parla, da una bocca che non vedo, e parla con le note di un pianoforte, una melodia veloce ed allegra, da saloon.

Questo posto sembra un po’ il mio paese, ma anche no. C’è questo bar piccolino che si chiama Riverside. Al suo fianco c’è davvero un fiume, anche se forse è più un rigagnolo di sputo rimescolato largo pochi metri. Entro nel bar, accompagnato da quei due strascichi del mio subconscio.

Dentro ci sono una barista e pochi clienti, tutta gente che conosco di vista ma con cui non ho nessun rapporto. Alcuni di loro li ricordo, mi bullavano a scuola da ragazzino. Ora è tutta gente che nella vita reale mi guarda e saluta con una sorta di curioso rispetto, nonostante non abbia mai sprecato più di un ciao annoiato per loro. Và a capire la gente.

Ho voglia di un caffè, scavalco il bancone e me lo faccio da solo. Il nanetto si arrampica sul frigo dei gelati e comincia ad abbuffarsi di cornetti e ghiaccioli. La fantareflex si mette a flirtare con il registratore di cassa, pianeggiando lenta una ballata d’amore. La fa aprire con un DIN!, e le sfila tutti i soldi. Se sia una metafora di qualcosa, non ne ho idea. Quando facciamo per uscire, la barista mormora qualcosa timidamente, forse a riguardo dei soldi e delle consumazioni da pagare. A questo punto piazzo una battuta che fa piegare tutti, barista e clienti. Ci danno dentro proprio di gusto, si sganasciano battendo le mani sulle coscie, ha ha, che sagoma. Dev’essere stata una battutaccia tosta. Per fortuna non la ricordo. Esco in strada.

Dopo pochi passi, incontro Slon. Sì proprio il farlocco che scrive qua su sto blog. E’ vestito a festa, elegantissimo, e questo mi fa rendere conto all’improvviso che anch’io sto tirato a figurino, belle scarpe, pantaloni neri gessati, camicia giacca e cravattone da serata di gala. Slon mi dice che passava di la in auto. Facciamo un giro? Ha una Diane due cavalli che è un pugno in faccia, nera e gialla canarino. Ha solo tre sedili, due davanti dove ci piazziamo noi, e uno dietro dove si sistema il rossonano con la fantareflex in braccio. Partiamo, il motore fa un casino boia e sembra avere le convulsioni, ma almeno cammina. Mentre usciamo dal parcheggio del bar, vediamo un cazzo di transatlantico navigare nello sputofiume, buttando fuori enormi sbuffi dalle ciminiere e suonando una specie di clacson potentissimo.

Lo seguiamo in auto per un po’, urlando e lanciando sogni dai finestrini, poi le strade si dividono. Ci fermiamo in un parco, vicino a delle panchine. Ci sono un po’ di sconociuti e una tizia che conosco, sta tracciando con le dita qualcosa nell’aria, piccoli simboli che restano fluttuando nello spazio giusto pochi secondi, e poi scompaiono. Ricordo una specie di triangolo, con con una spirale ondulata che parte salendo dall’angolo superiore. Penso al greco antico.

E poi, tutto cambia. Tutte le cose, tutti gli odori, le immagini, si fondono insieme per un attimo, e c’è un viso che sorride, ma è un sorriso teso, dispiaciuto.

E poi tutto si scompone ancora, in altri suoni, altre superfici, altri personaggi, altri pupazzi di parole.

Ma questa è un’altra storia.

K

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