Frequenze

Mi trovo a Praga, a casa mia, in un appartamento diverso da quello attuale, distante dal centro e differente negli interni. Un loft sobriamente arredato, così bianco in tutto da bruciare la retina.
Il tetto inclinato da mansarda con i suoi finestroni spioventi sembra volerci ricordare che può caderci in testa in ogni momento, ma non lo fa perchè gli stiamo simpatici.

3 cari amici mi sono venuti a trovare in auto dall’Italia. Mi trovo con loro nel soggiorno a bere e
chiaccherare, con noi ci sono anche la mia attuale coinquilina irlandese e un’altra tipa che conosco,
e che non so bene cosa ci faccia qui. Le due ragazze stanno tutte in tiro, ben truccate e vestite per la serata imminente: parlano con noi, seguono i discorsi e non dicono stronzate, ma hanno un modo così “gratuito” di fare le brillanti che dopo un po’ cominciano a venirmi a noia. Inizio a fare facce da mentecatto in codice ai miei amici, che capiscono al volo. Pochi minuti dopo siamo in macchina, diretti verso il centro.

Ora, il sistema stradale di Praga può essere un po’ disiorientante, soprattutto se non sai bene dove andare e c’è un traffico da esodo biblico, con Mosè alla guida di una skoda usata in testa alla colonna, che suona selvaggiamente il clacson e bestemmia nelle sue strane lingue da antico testamento.

Ma noi non abbiamo voglia di rimanere bloccati nel traffico. E poi siamo UBRIACHI.
Svoltiamo e entriamo con l’auto in un parco pubblico, parte una bizzarra sequenza alla die hard 3,
con noi che guidiamo sui sentierini di ciottolato e la gente che si scansa urlando.
C’è un senso di velocità tremendo, anche se in realtà andiamo abbastanza piano perchè non vogliamo ammazzare nessuno. Ben presto lasciamo il parco e ci infiliamo in vicoli strettissimi, sempre più minacciosi, finchè non restiamo praticamente incastrati tra due muri con gran stridio di lamiere e scintille, e dobbiamo uscire a stento attraverso il tettuccio. Continuiamo a piedi, siamo nei pressi del vecchio quartiere ebraico.

Per strane ragioni anche la camminata è difficile, ci sono ovunque cancelli e parti di inferriate antiche che non hanno realmente motivo di esistere, stanno lì solo per rompere i coglioni. Spesso dobbiamo abbassarci, contorcerci e addirittura strisciare per uscire da questa zona di ancestrali tentacoli arrugginiti, ma alla fine ci ritroviamo finalmente sull’argine del Vtlava, tutti graffiati e bestemmianti, ma ancora euforici.

C’è un ristorante in una grossa barca ormeggiata alla riva, decidiamo di entrarci, lo facciamo
da un’entrata secondaria, saltando dall’asfalto al retro dell’imbarcazione.

Curiosando all’interno, troviamo una scala a chiocciola, ma non la classica “rotonda”:
sono piccoli gradini rettangolari, 3 o 4 per lato, che salgono su loro stessi. Non c’è parapetto.
Se guardiamo su, possiamo vedere la fine al prossimo piano; se guardiamo giù, cristo santo.
La scala scende per decine e decine e decine di metri verso il centro della terra, ogni piano è illuminato così che possiamo gustare ben bene la profondità, anche se a furia di guardare la conformazione delle scale comincia a scherzare con le nostre percezioni, comincia a girare tutto, l’assenza di parapetto non aiuta.

Sono colto da uno svarione, ho paura di cadere: mi stacco di botto da quell’ipnotica visione e mi dirigo verso la sala principale del ristorante. E’ abbastanza piena, la gente cena tranquilla. Un cameriere di colore, rasato e ben vestito di nero ma con uno sguardo duro e inquisitorio, mi chiede se può aiutarmi, ma io voglio solo un po’ d’aria e mi dirigo fuori dalla sala verso la prua, dove c’è una terrazzina. C’è una passerella che corre sui due lati della nave, anche questa senza parapetto.
Mi metto sul bordo dal lato dell’argine, cercando di respirare con calma. Il cameriere mi raggiunge,
si mette al mio fianco, mi dice qualcosa che non ricordo. Improvvisamente la barca si INCLINA mostruosamente dal nostro lato, quasi si adagia completamente su un fianco, ricordo un frammento della faccia spaventata del cameriere.
Potrei semplicemente fare un piccolo salto dalla passerella alla terraferma, ci sarà sì e no un metro di distanza, ma per qualche folle motivo decido di sfidare morte e gravità, cercando di ritornare dentro la sala, aggrappandomi ad ogni cosa. Non so se per merito mio o per misericordia divina, fatto sta che la barca si risistema e torna alla sua posizione originale, alzando sbuffi di acqua schiumosa tutto intorno. Dentro la sala è un macello, tutto quanto è rovesciato, ma la gente sembra stranamente tranquilla. Il cameriere mi raggiunge e con aria mortificata, mi dice di portare pazienza, che ogni tanto succede. Lo mando affanculo e torno a camminare sulle strade, mi rendo improvvisamente conto che ho perso gli altri. Vago senza meta, e ormai l’alba si stiracchia, sbadigliando senza fretta.

Mi ritrovo davanti ad una strana costruzione grigia ferro di una ventina di metri di altezza, sembra un lampione gigante, ma senza il vetro e la luce alla sommità. La base è più grande, e via via che sale si assottiglia. C’è una porta chiusa, grande ma “mimetizzata”, dello stesso colore della facciata.
Di fianco alla porta, appeso ad altezza testa, c’è un blocco di post-it colorati, e sulla prima nota
c’è scritto qualcosa in una lingua che non capisco. Lo strappo via e me lo metto in tasca. Apro e osservo. L’interno, circolare, non ha nessun tipo di arredamento o oggetto, c’è solo paglia sparsa
per terra, odore di urina, e una persona raggomitolata in fondo. La scruto e mi rendo conto di conoscerla, è la ragazza di un mio amico. Appena entro la porta si chiude alle mie spalle, buio totale. Neanche tento di aprirla, so istintivamente che non funzionerà. Tento di parlare con la ragazza e chiedere spiegazioni, ma non risponde. Dopo un tempo di disagio relativamente breve, la porta si apre e la luce ci abbraccia vivace. All’entrata c’è A., il ragazzo della tizia. E’ vestito normalmente, ha una macchina fotografica appesa al collo con un laccio, e non ha per nulla un’aria stupita.
Fuori parliamo. Mi dice che si trovano lì in ferie, che mi aveva visto entrare da lontano,
e che quel bizzarro lampione è una sorta di antica tradizione, un posto dove la gente
entra volontariamente a riflettere, è l’unico modo per uscire è che qualcuno all’esterno
scriva la tue peggiori paure sul post-it, e che poi lo strappi. Non conosco A. così bene, quindi
è parecchio strano che sia al corrente delle mie paure più inconsce, ma nel sogno non gli chiedo nulla, sono solo riconoscente di essere fuori.

Nel frattempo la tizia ha ritrovato verve e buonumore, ciancia a raffica, e noi tre cerchiamo un bar
per fare colazione. Ne troviamo uno all’aperto sempre sulla riva del fiume, un grande tavolo con
una panca a u intorno e delle pareti di legno ricamate, con dell’edera rigogliosa che cresce
attraverso i l’interno dei rombi che costituiscono la trama. Ci sediamo e ordiniamo da bere,
alcool, arrivano 4 donne vestite in minigonna top e giacchetta. Una è giovane, le altre tre sulla cinquantina.
Non sono particolarmente belle o interessanti. Vogliono a tutti i costi sedersi con noi,
nonostante tutti gli altri tavoli siano liberi. Evabè, ci stringiamo e facciamo spazio.
Dopo un po’ cominciamo a essere tutti un po’ brilli, soprattutto la tizia del mio amico,
che comincia a darmi un po’ fastidio. Un poco per i discorsi senza senso che fa, nella foga
del vaniloquio insulta un po’ tutti. Senza neanche rendersene conto, mi butta la cenere della
sigaretta nella birra, scalcia, è petulante, rovescia dei bicchieri addosso a tutti e soprattutto a me.
Mi alzo in piedi fradicio, eccheccazzo, lei continua a ridere e nemmeno chiede scusa.
Mi guarda sprezzante e mi dice una cosa tipo: “embè? Il mio ragazzo ti ha salvato”.
Il mio amico mi sembra tranquillo e distante, pensa ai cazzi suoi, non partecipa al circo.
Le tipe sconosciute se la ridono. Insomma, colazione alcolica con circo di puttane arroganti,
io mi rompo. Saluto A. e me ne vado.

Cerco di ritrovare la direzione verso casa, ma dopo un po’ si alza improvvisamente
una nebbia fittissima, che abbraccia ogni cosa con una velocità assurda.
Non mi sento impaurito, anzi sono a mio agio. Comincio a sentire voci nella nebbia,
vicine e distanti, sussurri e toni alti, ma mai minacciosi. Alcune le capisco,
altre sono in lingue che non conosco. Non si rivolgono mai direttamente a me,
parlano tra loro, è come se stessi captando ogni dialogo in svolgimento nella città.

Continuo a camminare tranquillo in questo streaming mistico di voci sconosciute, e mi sento bene.

Kires

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