La genesi di un recupero [i]

Per quanto si potesse far viaggiare lo sguardo dal battiscopa al soffitto e attorno alle pareti, la stanza appariva grigia e ruvida quanto un rifugio partigiano. E umida quanto una trincea in un giorno di pioggia. Essenziali i mobili, poche le suppellettili; nudi e scabri i muri, che avevano visto il loro ultimo imbianchino in tempi dimenticati ed erano lievemente ammuffiti e percorsi da rade ma inquietanti tracce di sgocciolamenti, segni verticali di gocce che erano penetrate in giorni di forte pioggia ed avevano passeggiato indisturbate verso il pavimento in cerca di un bel posto asciutto dove morire. Era l’ultimo piano, sopra di lui solo il tetto. Poteva supporre fosse fatto di carta velina, e per quel che vedeva poteva pure essere vero.
Non c’era bagno. I servizi stavano fuori, in fondo al gelido corridoio sul quale la stanza si affacciava e dal quale era separato da una porta che, soprannaturalmente in quella trascuratezza, era il solo oggetto in sorprendente buona salute. La porta avrebbe ragionevolmente difeso ogni cosa contenuta nel locale. I muri davano meno affidamento.
Un albergo poco ospitale, senza dubbio. Ma era così che voleva.
Lui, sdraiato supino sul letto, completamente vestito -solo le scarpe giacevano accanto sul pavimento- fissava il grigio soffitto sopra di sè, gomiti in fuori e mani sotto la testa: la più classica delle fisionomie, per un uomo pensieroso sdraiato sulla schiena. Era lì già da qualche ora, e c’era tutta l’apparenza che qualcun’altra ne sarebbe trascorsa prima che qualcosa mutasse nella sua posizione. Finora solo l’irregolare battito delle palpebre e il costante lavoro del diaframma indicavano presenza di vita nel suo corpo.
Passò qualche tempo, ma non poi troppo, prima che lui girasse la testa verso sinistra: la prima iniziativa che avesse preso da quando si era gettato sul letto. A sinistra stava la finestra, da cui un chiarore da cielo lattescente penetrava a rischiarare quell’atmosfera beckettiana.
Dopo un respiro più forte si alzò. Il tempo del pensiero era finito e si mutava in quello dell’azione.
Si disinteressò delle scarpe, che peraltro stavano dall’altro lato del letto, e con severo sprezzo dell’incolumità dei propri piedi camminò sulle nude mattonelle fino alla finestra. La spalancò sul giorno nascente. La posizione era sopraelevata e la vista inaspettatamente dolce, in contrasto col luogo dal quale si affacciava: un vasto cortile pubblico, seguito da un fiume, seguito da una periferia qualunque di edifici rozzi e poveri ma a loro modo dignitosi.
Dopo aver guardato il panorama per qualche minuto, senza peraltro vederlo, abbassò gli occhi sul piazzale sterrato che si stendeva diversi metri più sotto. Il tempo del pensiero era finito, lo sapeva già. Abbassò le mani sul davanzale e scavalcò.

Pochi secondi, e fu dall’altra parte.

 

Opossum

4 thoughts on “La genesi di un recupero [i]

  1. Avrei potuto intitolarlo “Esempio del perchè è meglio non pubblicare roba pensata e buttata giù in cinque minuti mentre cadi dal sonno, e senza rileggersi”. Rileggendomi venti ore dopo il senso bene o male direi che c’è, ma stilisticamente c’è da mettersi le mani nei [sempre meno numerosi] capelli. Alas.

    Slonna: non dovrebbe essere la conclusione, insallah.

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