Geografia del Disagio

Qualcuno cantava, distante. Non distingueva le parole, sembrava più una voce femminile, un po’ ruvida, che scivolava e risaliva lungo una melodia di qualche tipo, forse orientale.
Si affacciò al balcone, tentando di capire meglio, ma il vento si alzò all’improvviso e portò via con sè le note, nascondendole nell’aria, come polvere sotto un tappeto. Lasciò perdere, e tornò nella stanza.

C’era puzza, lì dentro. Odore di decomposizione.

Camminò lentamente intorno alla grande tavola imbandita. Si affacciò sopra lo schienale di ogni sedia, afferrando spalle flaccide e tirando su ricordi putrefatti e vestiti a festa, rimettendoli seduti composti, come dovevano stare. Ma non fece in tempo a finire il giro che il primo ricordo si era già afflosciato nuovamente, diventando una grottesca caricatura di sè stesso, un arazzo dai colori resi sbiaditi dal fumo di troppi incensi offerti. Sbuffò. Quei ricordi non significavano più nulla. Era stanco di giocarci. Girò i tacchi e uscì dal salotto della memoria, deciso a fare due passi per schiarirsi l’umore.

Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò davanti a due enormi vetrate verdastre, sporche ed appannate, macchiate qua è là di grigio e di nero. Una discreta folla bisbigliante stazionava davanti alle due aperture. Si incuriosì, e si alzò sulle punte dei piedi, cercando di vedere quello che succedeva fuori.
Rimase così per qualche mese, in preda ad uno sconcerto crescente. C’era una sola parola che riusciva a riassumere l’intraducibile orgia di segnali che filtravano attraverso il vetro, e quella parola era Follia. In ogni colore, lettera, numero, gesto, idea, sfumatura, innocenza, pericolsità, risata, lacrima, bisbiglio, urlo, silenzio, la Follia regnava smandibolando su un trono invisibile di corpi incatenati, idee vaganti, sabbia e saliva, rossastra e secca.

Rabbrividendo, come svegliandosi di colpo da un lungo sonno agitato, cominciò ad indietreggiare, sforzandosi per comandare le gambe ormai addormentate che minacciavano di farlo cadere. Salì su un treno a caso, con il solo impulso di partire, fuggire, allontanarsi il più possibile da quella diometrica realtà cacofonica di agglomerati di vita, giganti meccanici e dementi, vestiti con pellicce puzzolenti e stracci di speranza e

Si addormentò, durante il viaggio. Forse sognò qualcosa di migliore, ma quando il trenò si fermò cigolando e svegliandolo, già non ricordava più nulla. Scese e capì di essere vicino al cuore: tirava un sottile vento freddo, e ogni tanto il suolo era colpito da profonde vibrazioni, costringendo il confuso viaggiatore ad aggrapparsi ad appigli casuali per non cadere. Non c’erano entrate, o almeno non le vedeva; appoggiando l’orecchio alle pareti scure, fu piacevolmente pervaso da un vago tepore, e grande fu il disappunto quando lo strapparono via da lì per poi spingerlo giù da un ciglio, chiudendogli la testa dentro un sacchetto di nylon, e più cadeva e più mancava l’aria e più si alzava la rabbia e

e più ti incazzi più sei calmo e quella pelle è così diversa e riesci a vedere le cose come non sono e l’oceano mangia sè stesso e l’esplosione ti annienta e i sensi si dilatano per contenere il passaggio dell’universo e il primo respiro che fai è il primo respiro della tua vita, e a quel punto non te ne frega più niente di chi sei tu chi sono gli altri, lasciatemi morire, non lo so, ci vediamo dopo.

Quando si riprese, era disteso per terra. L’erba corta gli solleticava il collo, e quando si mise a sedere non capì dov’era, non c’era niente, non era giorno, non era notte. Sentì di nuovo quella musica distante, quella un po’ ruvida forse orientale. Si incamminò in quella direzione, un po’ stralunato, un po’ incuriosito, e chissà che fine fece.

Ki

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