La conversazione

L’evento che ricordo maggiormente di quel periodo è un’inattesa conversazione.
C’ero io con l’ufficiale di Torino e i due Inglesi.

Mi aveva in simpatia, l’ufficiale, e quella sera mi disse andiamo a parlare con gli Inglesi.
Potevo chiedergli un po’ di cose, magari come avremmo fatto a parlarci con questi Inglesi ma ricordavo quello che era successo tre giorni prima; uno di Valenzano aveva chiesto perché questi due praticavano spesso da noi, dopo tre tentativi per farsi capire dall’ufficiale aveva avuto come risposta un volgare invito a farsi gli affari propri.
Memore di questo non chiesi nulla e lo seguii, ricordando che i due Inglesi avevano spesso della buona roba, magari del caffè.

Mentre camminavamo nello stretto della trincea l’ufficiale mi spiegò un paio di cose, disse che uno di loro era figlio di un Duca, una persona eminente a cui era concessa anche la compagnia di Re Giorgio. L’altro era il suo servo ma lo chiamò in altra maniera, non ricordo che termine usò.
Continuò dicendo che a discapito di quello che potrebbe sembrare il futuro Duca non era propriamente una persona fine e di buoni modi o che forse un tempo, prima della guerra, lo era.
Oggi era “uno come noi”, disse.

Erano accovacciati al coperto dentro uno scavo nella parete e grazie a Dio bevevano del caffè.
Disse qualcosa all’ufficiale che con mia sorpresa rispose nel loro idioma.
Ci invitano a sedere, mi informò.

Sedemmo e guardando le facce dei due e il fango dove erano accomodati capii cosa volesse significare quel “uno come noi” usato dall’ufficiale. Non avrei saputo dire chi dei due era il Duca e l’avrei capito solo diversi minuti dopo quando me lo indicò l’amico di Torino rendendomi finalmente partecipe di quella conversazione e ledendo il mio imbarazzo.
Da diversi minuti i tre ridevano e oltre a porgermi del caffè non mi avevano considerato, finché l’ufficiale mi disse che il Duca lì, indicando con il dito, stava raccontando di una sua cameriera.
Diceva che l’aveva sempre in mente da quando tutto era cominciato, ricordava con piacere le ore di clandestinità trascorse con lei.
È la donna migliore al mondo mai ne troverà una come lei.
Raccontò della sera dell’ultimo giorno della sua ultima licenza, aveva appena finito di lavorare di bocca e appena sputò nel suo fazzoletto lo guardò negli occhi e disse: Ne vuoi un altro ?
Il Duca sostiene che queste siano vere parole d’amore; mille strofe di poeti decantanti cuori, stelle, oceano e altro sono solo roba buona per l’editoria. Quelle della cameriera sono le vere parole d’amore. Mi informò l’Ufficiale.
Ora nessuno rideva più, sorrisi leggermente e guardai il Duca, fissava il terreno con occhi lucidi e chiunque l’avrebbe visto in quel momento mai avrebbe creduto che poco prima rideva a crepapelle.

Ricominciarono a parlare la loro lingua e dopo aver finito l’Ufficiale mi traduceva il succo. Cominciai a farci l’abitudine con quel nuovo modo di conversare e nelle pause mi ritrovai a pensare che spesso tra di noi stessi avremmo avuto bisogno di un interprete come con gli Inglesi ora.
E pensare che combattevamo sotto la stessa bandiera per gli interessi della nostra (presunta) nazione.

La conversazione si spostò sulla guerra, l’Ufficiale e gli Inglesi concordavano che questa di Vittorio era l’ultimo sforzo per noi e forse per tutti; restava da vedere dopo cosa sarebbe successo.
Gli Imperi sarebbero sopravvissuti ? O chi diceva che un’epoca sarebbe finita insieme alla guerra aveva ragione ? Di sicuro avremmo avuto tempi migliori ma era difficile fare peggio.
La vittoria avrebbe consolato le immense perdite a sentire l’Ufficiale e qui il Duca torno a ridere.
Non c’è una vittoria, disse, almeno per noi europei. Soltanto gli americani potranno guardare questa guerra come una vittoria. Non saremo più il centro del mondo.
Dei rozzi lo saranno.
L’ufficiale mi riportò il pensiero del Duca e condivise con me la risata che gli aveva concesso l’Inglese. I due vedendoci ridere incrociarono gli sguardi e sorrisero, non mi serviva un interprete per capire quel gesto. Ai loro occhi eravamo più rozzi di tre Americhe messe insieme.

I discorsi si spostarono su quel malanno che cominciava a diffondersi e da lì a non molto tutti lo conobbero meglio. L’ufficiale aveva sentito parlare di tifo ma non è che era consigliabile parlarne apertamente e rintristire ancor di più gli animi ma si diceva che dal lato austriaco questo tifo o chi per lui stesse uccidendo più gente di noi. Si chiedeva se fosse un segno divino.
Non credo che Dio ci tenga tanto in considerazione da mandarci dei segni, soprattutto dopo quello che abbiamo fatto negli ultimi anni. Rispose il Duca.

Un’ottima risposta, mi disse l’Ufficiale subito dopo aver tradotto.
Da lì a poco ci congedammo.

Nei giorni, mesi e anni seguenti pensai spesso a quell’oretta e di come per la prima e unica volta in vita mia conversai con un Conte e degli stranieri. Era singolare come quella conversazione non fosse tanto diversa da quelle fatte con i miei pari nei campi all’ombra di un albero quando una donna ci portava del vino o la sera quando la giornata era finita.

A livello sociale in quell’ora raggiunsi il mio apice, seppure nel fango mi ritrovai al cospetto e al pari di un Duca.

Slon

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