L’Aleph

Riteneva che Google Street View fosse una delle più grandi invenzioni nella storia recente dell’umanità; un software che consentiva di passeggiare per una riproduzione sostanzialmente fedele del mondo rappresentava il connubio ideale tra la sua bramosia di visitare posti remoti e la comodità di potersene tornare a dormire nel proprio letto e cagare nel proprio gabinetto. Era un surrogato piatto e tutto sommato insapore di ciò che il pianeta aveva da offrirgli, che non gli lasciava di toccare con mano le cose e il terreno, ma che d’altronde gli permetteva di non dover temere rapinatori, malaria e acquazzoni. E poteva andar bene anche così.
Gli piaceva in particolare perdersi per ore nelle labirintiche avenidas brasiliane, fossero quelle lungo le spiagge carioca o quelle nelle periferie di Campina Grande, disperse nell’entroterra paraibano. Paragonava la sua conoscenza diretta della quotidiana esperienza urbana, pienamente europea, con quella che gli restituivano le istantanee di quell’assurda nazione, troppo grande per immaginarsela interamente, piena di grattacieli coi muri scrostati e case fatiscenti costruite a metà, umide, oscurate dalle ringhiere più antiestetiche che i fabbri di turno fossero in grado di modellare. Riemergeva dal monitor a fatica, ancora invaso da un misto di repulsione latente e di torbida fascinazione, che gli restavano attaccate per parecchi minuti e che aveva ormai imparato ad apprezzare, in un qualche strano modo; dopo qualche ora ne avrebbe anzi sentito la mancanza, e sarebbe tornato sotto quell’illusorio sole elettronico a guardare le strade altrui dalla tranquilla sicurezza di una scrivania, confrontando la sua realtà con quella che scrutava dietro uno schermo, in mezzo alla polvere ma lontano da tutto, rapito, incolume, indifferente.

 

Opossum

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