Mobilitat mortis [ii]

Le scarpe erano rimaste in albergo, e ok. Così la strada la doveva fare tutta a diretto contatto col suolo, perchè si trattava di camminare -e anche tanto-, piante a terra e niente lamenti. Scoprì che la cosa era sorprendentemente facile. Le pietre squadrate su cui procedeva sin dall’inizio non erano il massimo della comodità, per i piedi, ma ancora non sentiva dolori o fastidi. Forse che essere morti facilitava le cose? Poteva solo supporlo.
Era sceso per una scala a chiocciola dai larghi gradini in pietra e dall’ampissimo raggio, nell’oscurità quasi completa, senza sapere come si fosse ritrovato lì. La scala saliva e scendeva nel buio. Prese per il basso e scese parecchio prima di toccare infine il suolo. Fu sorpreso di vedere che la scala aveva termine ma, si dise poi, doveva pur essere così.
Ancora nero tutto intorno e pietroni come terreno. Intuiva attorno a sè la vastità dello spazio, sebbene invisibile, ma con la strana sensazione di non trovarsi all’aperto. Un luogo chiuso con le pareti a giorni di distanza fra loro. Possibile?
E perchè mai avrebbe dovuto essere impossibile?
La marcia riprese, anche se non sapeva proprio da che parte dovesse andare. Semplicemente si allontanò dalla scala prendendo una direzione qualsiasi, per quello che gli parve qualche giorno di ininterrotto cammino su quella superficie piatta e tutta uguale, nell’oscurità quasi totale. Fu senza preavviso che ad un tratto la terra gli mancò sotto i piedi: al buio non aveva potuto vedere che il terreno finiva, e cadde in quella che aveva tutta l’apparenza di essere acqua, con un capitombolo da commedia del muto.
Si riarrampicò imprecando sull’asciutto – c’era un dislivello di trenta centimetri – e si distese. Non poteva vedere quasi nulla, ma lo specchio d’acqua non era un ostacolo da affrontare alla leggera, lo sapeva. Come sapeva che per ora non poteva più fare nulla.
Era di nuovo impotente, intrappolato nei meandri dell’attesa. Restò sdraiato e zuppo, senza muoversi. Se non altro, non sentiva freddo.

L’attesa si protrasse per parecchio, ma lui aveva già da un bel po’ rinunciato a farsi un’idea di come scorresse il tempo da quelle parti: senza riferimenti esterni doveva basarsi sulle sue sensazioni, che di certo erano completamente inattendibili. Era ancora sdraiato ma si era ormai asciugato, e cercava di cogliere qualche indizio di vita nel vuoto che lo circondava. Ne sarebbe ben dovuto arrivare uno, prima o poi. E infatti arrivò. Si rialzò a mezzo e fissò il nero davanti a sè.
Era un rumore vago e acquoso: qualcosa che si muoveva nel bacino di fronte a lui. Aspettò, e sentì il suono crescere. Ancora un po’, e un bagliore spezzò debolmente l’oscurità. E quando rumore e luce furono vicini potè finalmente vedere una zattera, una lanterna, un remo e, soprattutto, il proprietario di queste tre cose. Vecchio, pareva vecchio: e aveva ben ragione di esserlo. Era grigio, smunto, pallido, estremamente trascurato nell’aspetto. Ma gli occhi erano curiosi e vitali, e le mani manovravano il remo e la barca senza sforzo.
Il vecchio lo guardava con una certa tranquillità. Lui era ancora semisdraiato, e stentava a decidersi ad alzarsi. In quel teatro crudelmente insensato le due surreali creature restarono a fissarsi per un po’.

Opossum

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