Nel buio

– Scendiamo qui – mormorò Elias.

Brian, che si era fissato le scarpe in silenzio per tutto il tragitto, sollevò lo sguardo e guardò fuori dai finestrini della metro. Erano in un tratto di superficie, in aperta periferia; la sagoma del muro di casermoni che avevano appena oltrepassato si distingueva a malapena a poche centinaia di metri da loro, nel buio della notte. Il convoglio rallentava.
Elias guardava in piedi il buio fuori dai finestrini con espressione indifferente, come fino a poco prima aveva guardato le pareti del tunnel. Era rimasto in piedi, appoggiato a un sostegno per tutta la corsa. Sembrava perso in distanze siderali, e quelle due parole erano le prime da quando erano saliti nel vagone.
Andy, che era seduto accanto ad Brian, a quell’invito alzò finalmente gli occhi dalla console; non aveva fatto altro che videogiocare per l’intero tragitto. Brian si disse che non avrebbe potuto pensare per i due compagni due modi più diversi di comportarsi allo stesso modo. Quanto a lui, fino a lì aveva a malapena respirato. Aveva i suoi motivi.
Passando sulla banchina furono investiti dall’autunno. Era da poco passata l’una e faceva freddissimo, ma il cielo terso e la luna piena rendevano debole l’oscurità. Andy bestemmiò contro il clima, poi si rivolse ad Brian.
-È la tua prima messa nera?-
Elias cominciò ad allontanarsi dalla fermata, lasciandosi i palazzi alle spalle. Nella direzione in cui si avviava c’erano campi, sterpaglie e cantieri, come se la città si fosse presa una pausa. “25 ettari di nulla”, gli aveva spiegato Elias.
-No, è la terza. Ma è la prima da quando sono qui in città. Le altre le avevo viste dove vivevo prima.-
-Qui abbiamo un bel gruppo- proseguì Andy. Si incamminò anche lui, seguendo Elias con Brian al fianco. -È raro celebrare in città, è pericoloso. Ma questa zona per ora è abbastanza sicura, ci sono solo cantieri e campi. Quando sei in mezzo, sei sicuro di non avere nessuno intorno nel raggio di oltre quattrocento metri. Mi piace questo posto, ci vengo spesso per i fatti miei. Qualche volta, quando ero più piccolo, ci ho giocato a cricket con qualche amico, dove vivevo era pieno di famiglie pakistane e i loro bambini ci andavano pazzi. È meglio qui che nei parchi. Meno rompiscatole.-
– Lo trovo appropriato.-
– Sì? –
– C’è qualcosa di satanico nel cricket. Pensa solo all’importanza del numero sei in quello sport. Sei lanci nell’over, sei punti per il fuoricampo, sei stump nel terreno, sei ore di gioco al giorno. Strano che le partite durino solo cinque giorni, uno meno di quanto sarebbe lecito.-
Andy sogghignò. Elias disse qualcosa a mezza voce che ad Brian suonò come un “Quante stronzate”… ed in effetti lui stesso concordava. Diceva stronzate perché era nervoso, non poteva evitarlo.
– Dai, Elias, non essere crudele. È un’idea tutto sommato simpatica, se ci pensi.-
Elias non rispose.

Scesero in un piano interrato di uno degli edifici in costruzione. Un futuro garage. In qualche modo appropriato per una messa nera, pensò Brian. Vide che erano stati preceduti: tre ragazzi e due ragazze si aggiravano attorno ad un basso tavolo coperto da un telo nero: un improvvisato altare. Ma non c’erano suppellettili di alcun tipo, e -nonostante si aspettasse qualcosa del genere- il particolare colpì Brian come una rasoiata.

Nelle campagne da cui veniva aveva frequentato brevemente gruppi satanisti. Da quando si era trasferito in città aveva cercato in tutti i modi di pendere contatto con altri occultisti come lui. C’era riuscito facilmente, aveva stretto nuove amicizie, e aveva scoperto come l’ambiente lì fosse molto diverso, più duro e complicato d quello a cui era abituato. Gli parlarono di sacrifici umani.

-Seriamente?- aveva chiesto ad Elias.
-Sì. Succede; deve succedere. Non spesso. Più o meno una volta ogni paio d’anni. Ma deve succedere.

Non aveva approfondito l’argomento, nonostante tutte le domande sulle possibili conseguenze che gli si accalcavano in testa. Dopo la rivelazione, e nonostante le conferme, aveva preferito proseguire a considerarlo come una sorta di scherzo.
Ma l’altare ora era davanti a lui. E che fosse basso e sgombro rendeva difficilmente equivocabile il suo scopo: doveva esserci spazio per depositarvi la vittima, e basso abbastanza perché il corpo fosse comodamente maneggiabile. Per Brian era la definitiva conferma, più valida di qualsiasi parola pronunciata gravemente a bassa voce, di quel che sarebbe successo.
A quel punto erano quindi in otto. Erano tutti ragazzi sui venti, forse ventidue anni, tranne un uomo alto e imponente, forse sui quarant’anni, che si diresse verso di loro appena dopo il loro ingresso. Era Daniel, il celebrante. Brian lo incontrava per la prima volta, ma la fama di figura carismatica del gruppo lo aveva preceduto. Daniel gli tese la mano.
– Quindi tu sei Brian.-
– E lei è Daniel,immagino.-
– Dammi del tu. Sei stato coraggioso a venire. Diversi si sono tirati indietro, sapendo cosa dovevano… aspettarsi di vedere. E anche per paura di conseguenze spiacevoli per loro.-
– Di quelle ho paura anch’io, però. Un omicidio è un omicidio.-
– Non devi preoccuparti. Tu sei nuovo e non hai responsabilità verso nulla di ciò che succederà; noi, per ciò che riguarda, sappiamo come muoverci per evitare rischi. Le nostre vittime quasi sempre sono balordi, vagabondi, reietti che nessuno reclamerà mai. E comunque – Daniel si permise di sorridere – lui ci protegge.-
Brian non riuscì a replicare. Una vaga tranquillità si faceva largo dentro di lui.
– Quando arriverà quello di stasera? –
– Presto. Lo porteremo sull’altare al termine della funzione.
La cerimonia cominciò poco dopo. Era diversa da quelle che Brian aveva seguito in precedenza, ma non se ne stupì, sapeva che ogni gruppo aveva i suoi riti personali. Erano tutti inginocchiati in semicerchio a qualche metro dall’altare, eccetto Daniel che officiava in piedi dando loro le spalle; Brian aveva Elias alla sua sinistra e Andy alla sua destra, ancora come sulla metro. L’”arredo sacro” era minimo: oltre all’altare ancora sgombro c’erano solo teli con disegni esoterici appesi alle pareti, e nient’altro. Daniel pronunciava formule con voce grave, e i suoi confratelli a tratti cantilenavano lugubremente. Era tutto molto scarno e nel complesso molto tetro. Il salmodiare proseguì per venti minuti, poi Daniel si interruppe all’improvviso.
Si girò verso Brian e tese verso di lui una mano. – È nostro desiderio che sia tu a condurre qui la vittima dell’olocausto. Avvicinati.-
Brian impietrì. Non gli riuscì più nemmeno di deglutire. Per qualche secondo non si mosse, poi sentì una fitta nel fianco destro: era stata una gomitata di Andy a provocarla. Brian lo guardò e vide che Andy -l’eterno mezzo sorriso sulle labbra- gli faceva cenno con la testa di andare. Brian finalmente si mosse verso Daniel e gli prese la mano. Daniel la afferrò con forza e tirò verso di sé Brian, che per la sorpresa quasi perse l’equilibrio. Al di sopra dell’altare Daniel incollò quasi il viso al suo, gli occhi a pochissimi centimetri; la voce con cui parlò era poco più di un mormorio.
– Sei nuovo, sì, e ovviamente ci sono cose che non sai. Da oltre dieci anni celebriamo col sangue per ingraziarci il favore del nostro signore. È un’immensa gioia per lui, e ovviamente anche per noi. Non avere paura. Assapora la sua gloria, e vivila, come la viviamo noi, e vedrai come diventerà grandiosa la tua esistenza…-
Ad ogni parola Brian diveniva sempre più terrorizzato. Gli sembrava di essere precipitato in un abisso. Ma la presa salda e un qualcosa di ipnotico nella voce di Daniel gli impedivano di fuggire come una parte di lui gli diceva di fare. Lentamente il terrore si trasformò una sorta di intorpidimento. Daniel continuò a glorificare il demonio alzando progressivamente la voce, arrivando infine ad urlare, finché non si azzittì di colpo. Nell’immediato silenzio Brian tornò improvvisamente padrone di sé. Si aspettava, e temeva, che Daniel gli lasciasse la mano e gli indicasse dove si trovava la vittima. Ma la mano libera del celebrante saettò all’improvviso e gli piantò un pugnale in pieno cuore.

Brian non riuscì a percepire la gloria del loro signore al di sopra del dolore squassante nel petto e della delusione per essere caduto in un’insulsa trappola. Ma la vita se ne stava andando rapidamente, Alzò gli occhi e notò che il celebrante ora sorrideva. Fu l’ultima cosa che vide.

 

Opossum

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