Mari

Tutto comincia con il chiacchericcio delle onde.

L’oceano è tranquillo oggi, respira piano. Non è lui a svegliare Mari. I suoi occhi grandi e opachi si spalancano e trovano il mondo a cui è abituata, ma questo non è abbastanza per calmarla. Non si è mai sentita cosi. Tutto è….

Mari non è brava con le parole ma non importa, nessuno saprebbe descrivere adeguatamente cosa si prova nel vivere per la prima volta un’esperienza onirica.. E davvero Mari non aveva mai sognato prima d’ora, e se lo faceva, non se ne era mai accorta. Il sogno è arrivato senza preavviso, straniero eppure a suo agio, impossibile eppure realistico. L’affanno e l’ eccitazione e il terrore e la curiosità e l’euforia e la confusione e il resto di quelle emozioni a cui nessuno si è mai preso la briga di dare un nome, tutto si muove dentro di lei, tutto è…

Tutto è uguale, al prima e al dopo. Familiare. Il faro abbandonato di New Haven non è affatto una località sconosciuta, comunque la lunga camminata necessaria per arrivarci è sufficiente a scoraggiare i più, e resta un posto relativamente tranquillo. Mari viene spesso qui, nei pomeriggi senza vento. Le piace camminare dolcemente sulle pietre nere del molo, annusare gli odori ancestrali dell’oceano che le è proibito e sconosciuto, le piace distendersi a sonnecchiare all’ombra di quella torre strana e fuori dal tempo. Tutto è come al solito, Mari dorme nel sogno come sta dormendo nella realtà, almeno fino a quando comincia il tremore. Mari non è brava con le parole ma non importa, dentro di lei sa che l’oceano si è alzato dal suo vecchio letto e le sta venendo incontro. Spalanca gli occhi grandi e opachi, curiosa suo malgrado di vedere come corre un oceano folle, ma l’oceano è immobile, non c’è nessuno tsunami, ma il tremore continua, e solo ora capisce che le onde stanno arrivando ma da dietro di lei, è la terraferma che si è alzata e le sta correndo incontro impazzita, scrollandosi di dosso quello che ci piace considerare immobile e indiscutibile, e gli occhi di Mari non possono spalancarsi abbastanza per concepire ogni dettaglio, ogni finestra infranta di ogni palazzo scaraventato nel cielo, ogni persona e ogni auto e ogni lettera mai letta muoversi in ogni traiettoria mai considerata, e ormai l’enorme ombra di tutta questa follia la raggiunge e l’abbraccia, quasi volesse proteggerla da cosa sta accadendo, e poi

C’è un rumore di passi che si avvicina, ora lo sente, e l’istinto la strappa suo malgrado al ricordo dell’esperienza. Un ragazzo, a una ventina di metri, non si è accorto di lei, cammina fino al culmine del molo di pietre, lo vede sedersi e accendersi una sigaretta e rimanere immobile senza fumarla, impegnato a parlare con l’oceano o forse con sè stesso. Mari si alza. L’adrenalina sta sfumando, ma qualcos’altro le rimane dentro, una parola che non conosce.. Apre la bocca e quello che esce è un lungo gemito, anzi quasi un ululato, un suono senza senso rivolto alle cose immobili e indiscutibili, a tutto quello che crediamo di comprendere.

Il ragazzo la sta guardando ora. Ha una certa aria triste ma le sorride, le fa cenno di avvicinarsi. Mari tende i muscoli, non si è mai fidata degli uomini, eppure comincia camminare lentamente e gli si siede accanto. E c’è un attimo di nervosismo quando lui la accarezza, ma passa subito. Lo lascia fare, sente la sua mano scorrere nel pelo folto della nuca, e lei appoggia il muso sulle zampe, chiude gli occhi e muove timidamente la coda perchè adesso, fosse anche solo per alcuni minuti, tutto quanto ha finalmente un nome.

K

 

 

L’Aleph

Riteneva che Google Street View fosse una delle più grandi invenzioni nella storia recente dell’umanità; un software che consentiva di passeggiare per una riproduzione sostanzialmente fedele del mondo rappresentava il connubio ideale tra la sua bramosia di visitare posti remoti e la comodità di potersene tornare a dormire nel proprio letto e cagare nel proprio gabinetto. Era un surrogato piatto e tutto sommato insapore di ciò che il pianeta aveva da offrirgli, che non gli lasciava di toccare con mano le cose e il terreno, ma che d’altronde gli permetteva di non dover temere rapinatori, malaria e acquazzoni. E poteva andar bene anche così.
Gli piaceva in particolare perdersi per ore nelle labirintiche avenidas brasiliane, fossero quelle lungo le spiagge carioca o quelle nelle periferie di Campina Grande, disperse nell’entroterra paraibano. Paragonava la sua conoscenza diretta della quotidiana esperienza urbana, pienamente europea, con quella che gli restituivano le istantanee di quell’assurda nazione, troppo grande per immaginarsela interamente, piena di grattacieli coi muri scrostati e case fatiscenti costruite a metà, umide, oscurate dalle ringhiere più antiestetiche che i fabbri di turno fossero in grado di modellare. Riemergeva dal monitor a fatica, ancora invaso da un misto di repulsione latente e di torbida fascinazione, che gli restavano attaccate per parecchi minuti e che aveva ormai imparato ad apprezzare, in un qualche strano modo; dopo qualche ora ne avrebbe anzi sentito la mancanza, e sarebbe tornato sotto quell’illusorio sole elettronico a guardare le strade altrui dalla tranquilla sicurezza di una scrivania, confrontando la sua realtà con quella che scrutava dietro uno schermo, in mezzo alla polvere ma lontano da tutto, rapito, incolume, indifferente.

 

Opossum

PointlessPills #9

“That’s really all this is. That’s how things work for me. I go from this place, this person to that place or person. And, you know, it doesn’t really make that much difference. I’ve known all different kinds of people. Hung out with them, lived with them, watched them act things out in their own little ways. And to me… To me, those people I’ve known are like a series of rooms, just like all the places where I’ve spent time. You walk in for the first time curious about this new room — the lamp, TV, whatever. And then, after a while, the newness is gone, completely. And then there’s this kind of dread, kind of creeping dread. You probably don’t even know what I’m talking about. But anyway I guess the point of all this is that after a while, something tells you, some voice speaks to you, and that’s it. Time to split. Go someplace else. People are going to be basically the same. Maybe use some different kind of refrigerator or toilet or something. But this thing tells you, and you have to start to drift.”

Jim Jarmush, Permanent vacation, 1980

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La felicità è un costrutto ligure

Ed era di Genova, Italia, e abitava a Genoa, Nevada. Questo, dal suo punto di vista, riassumeva buona parte della sua esistenza. A Genova ci era nato -col nome di Edoardo- e a Genoa ci era finito un quarto di secolo abbondante dopo quel prodigioso evento. Nel trasloco aveva rinunciato, sebbene non legalmente, a cinque settimi del nome proprio. Gli americani lo chiamavano, appunto, Ed. Era un nome decisamente comodo.
A Genoa non c’era un cazzo. Mille anime scarse sul bordo sbrindellato del Nevada occidentale, dove il confine con la California faceva un angolo di 120 gradi (quelle frontiere surreali che solo i deserti sapevano generare). Tre ore di auto da Sacramento, dieci da quella Los Angeles da cui era fuggito dopo aver inseguito il vano sogno di diventare sceneggiatore, ottenendone solo pesci in faccia. A spingerlo sul bordo del lago Tahoe era stato il nome di quella città, che rievocava generiche nostalgie del mar Ligure, del quartiere Sturla, delle partite del Camogli. Di una vita precedente. Ma a Genoa non c’era un cazzo. Una Los Angeles in negativo. Non che gli piacesse poi molto, ma non aveva un altro posto dove andare.

Anche se ogni tanto tornava dagli Angeli e dai pochi amici che ci aveva lasciato. Una sera gli presentarono un’altra genovese: in quasi dieci anni di vita negli USA non aveva ancora mai incontrato una concittadina e si chiedeva spesso come fosse possibile. “Ed vive nella Flyover Country” le dissero presentandoli.
Il concetto le era sconosciuto. Glielo spiegò quella sera, mentre cenavano.
“Negli Stati Uniti vivono trecentoventi milioni di persone. Però la maggior parte degli statunitensi (Ed non diceva mai ‘americani’, notò lei. Lo considerava una barbarie lessicale, le disse) vive nell’area urbana di Los Angeles, nel sudovest, o di New York, nel nordest. Circa una persona su dieci abita lì, e in moltissimi vivono passando da LA a NY, o viceversa. La nazione in mezzo per loro non esiste, la vedono solo dai finestrini dell’aereo quando ci volano sopra per fare coast to coast. Dall’alto non appare altro che terra insignificante e disabitata, e io sono uno dei fantasmi che ci vive. Non è la fine del mondo, per carità. Ci sono grandi città anche all’interno, come Chicago o Dallas. Ma perlopiù è puro nulla e decidere di viverci è spesso un’idea coraggiosa.”
“Tu per esempio: sei finito nel Nevada. Perché quest’idea assurda?”
“Non avevo un altro posto dove andare.”
E riuscì a farla sorridere.

Opossum

I’ll be everyday with you

The well-arranged gravestone and the orange sky, surrounded by grey and black clouds, formed a very good snapshot.

She was walking between the broad avenues of the big cemetery, enjoying the sound of her own steps, alternating grass and gravel, in the silence.

There was never anyone there.

“…Remember…”

And she just couldn’t find a reason for her coming there.

Walking among the tombstones appeased the void that was echoing in her head.

She was now in the old part of the cemetery, where there were graves dating back to two centuries ago. She touched lightly the thick tombstones, reading birth and death dates behind the mold.

She was doing her math; she enjoyed to calculate the age of the dead. Her favorite grave was the one of the Reed family.

It was a large stone monolith , taller and thicker than her. The original color was drowned by erosion and green mold. Over the monolith Towered a decapitated angel with arms outstretched, ready to receive someone’s soul.

Robert Joseph Reed was born in 1788 and died in 1866, a long and accurate life. His wife, Anne, was born in 1812 and died in 1843, while was giving birth to her third son, born dead and buried with her under the decapitated angel. Time had erased his name from the monolith. The first-born daughter was called Elizabeth, born in 1829 and died in 1836. The second son, Francis, born in 1831 and died in 1847. At the foot of the monolith was written large and well readable: GOD GIVES AND GOD TAKES.

It was impossible for her to understand why God had taken everything from Robert. if a man takes the lives of three children and a women, he will find himself facing life in prison , or even worse.

God has far too many liberties. The gravel path took her further.

Here, seven well-placed tombstones had succumbed to the front flattering the ground, and judging by their size they were surely disturbing those who were resting under the soil. Who knows for how many years they were like this. No one, relative or friend, was concerned about their kinsman’s tombstone. Everyone forgot.

There was a bench. She liked to sit there, and imagine the tombstone kneeling before her, a tribute to the dead to a woman still in life. A religious rite upside down

As she was sitting there, a light breeze on her neck was announcing the approach of darkness Darkness reminded her of the danger.

“The war..?” , she asked herself.

She looked in the depths of her mind, going back in time. She came back to the shelter, three night before. Dozens of men and women and children were kneeling in front of the priest who was screaming his sermon toward an humble Cross while the soft candlelight tinged the atmosphere of an orange as the sky above her head in the cemetery.

“…remember..:”, said the priest, but she wasn’t listening anymore. She was talking to a fat woman, almost bald and toothless. They were sharing a homemade cigarette, so strong that it was burning her lungs.

The fat woman was talking about something. She also had three children, all of them died. She was just like Robert. But there weren’t tears in that speech: dead children were a common topic in that times.

The thought of the war exploded in her head. She looked down at her hands, black and (callus). and scars on her legs, through her ruined skirt. She was hungry now.

“..The shop…I don’t have money for the shop.”
She remembered how she used to pay the food in the canteen. She remembered the feeling of nausea and hate. And e remembered that the Lord was always with her, like the priest shouts.

“”How many have you had?” Asked the fat woman.
“Two.” she replied. “But they didn’t took them. It was cholera.”

She suddenly got up, and started walking toward the east wing of the cemetery, were there was a mass grave

The sirens started screaming. long lament flooded the paths of grass and gravel, but she didn’t care, she was going to visit her children.

Under the scarred statue of the Redeemer, the circle of stone delimited the soil.

And remember, I am with you each and every day until the end of the age”, was inscribed on a plaque at the foot of the Redeemer.

She kneel down and started to talk to her beloved.

Everything was passed.

Slon

Edited by Roxana ([email protected])

Atser

-Resta-
Disse dal profondo della sua anima, mentre con una mano stringeva il braccio sfuggente.
Resta, gli disse, sapendo che non lo avrebbe mai fatto.
C’è qualcosa di più crudele, di chiedere sapendo che non verremo mai esauditi?
Resta, ma lui si sedette sul bordo del letto, scostandosi i capelli dalla faccia.
Resta, e lui non parlò, sospirando come faceva sempre, come lei odiava tanto ma senza aver mai avuto il coraggio di dirglielo.
La danza è finita, le luci si sono accese e improvvisamente tutto questo sembra così vuoto, così estraneo, ma io ti chiedo di restare e so che tu non lo farai.
E cosa farò io dopo, cosa ne sarà di me domani, e domani ancora e un giorno dopo l’altro, così, all’infinito, per quanto infiniti possiamo essere. Avrà l’alba lo stesso sapore, il vento continuerà a scompigliarmi i capelli o tutto cambierà, era solo un mondo nostro, costruito da me e te in un giardino verde, oppure è veramente questo il mondo.
Resta, perché non c’è più nessuno a spiegarmelo e improvvisamente mi sembra di aver scordato come si parla, perfino respirare ora mi sembra così superfluo, ora che è solo aria che che esce dalle labbra.
Resta,
oppure no,
non restare,
forse è venuto davvero il momento di girare l’angolo e vedere se veramente quel lampione illumina la strada come ho sempre pensato.
Non restare, alzati da questo letto, non guardare i muri, ignora i libri e le foto, schiva i nostri ricordi riflessi sulla finestra, alzati e vestiti, lentamente come sai fare, come se per te tempo fosse solo una parola inventata da un bambino capriccioso.
Quando chiuderai la porta tu non sarai mai esistito e io…
Io imparerò a scendere le scale senza corrimano, a non guardare lo specchio prima di uscire, scenderò a testa alta per strada e non abbasserò più lo sguardo, smetterò di fingere di essere una tela grigia e il mondo diventerà quel quadro che ho sempre voluto.
È venuto il momento, per questo?
Atser.

MDC
([email protected])

Ichi, ni, san, quatro.

Vivere d’arte e vivere d’amore. Un obiettivo a cui ogni uomo tende, o dovrebbe tendere. Ci abbiamo provato. Forse non ci siamo riusciti. Anzi, certamente non ci siamo riusciti, dato che vivere d’arte e vivere d’amore sono obiettivi superiori alle forze di qualsiasi uomo, temo. Oh, beh.

Sono passati quattro brevi lunghi anni da quando questo angolino di parole e immagini ha provato a dire la sua in un mondo crudele. Eravamo tre amici al bar che non avevano intenzione di cambiare il mondo, e infatti il mondo non l’abbiamo cambiato. Eppure, ci siamo tolti qualche soddisfazione. Ci siamo fatti leggere (e a volte pure apprezzare) da un fracco di gente in giro per l’Italia, la Scozia e la Terra; abbiamo pubblicato cose in inglese; siamo usciti dai confini della scrittura per addentrarci nel territorio della pellicola; abbiamo convinto qualche ospite a scrivere con noi; siamo diventati un punto di riferimento per tutti gli appassionati dell’atto di infilarsi zenzero nel deretano; siamo anche cresciuti di numero come saggi distorti, passando da tre a quattro con l’arrivo di Alex (che in realtà, sotto sotto, è un po’ come se ci fosse sempre stato). Ci mancano ancora alcuni traguardi (farci pubblicare da Adelphi, sbancare il Sundance Film Festival, cose così), ma ci stiamo lavorando.
Quattro anni che sono volati, trovo. E che fanno impressione pensando a quel tale che sentenziò la nostra fine entro un anno dall’apertura. Previsione fallita, grazie tante: ci berremo tre cordiali alla salute di chi ci ha voluto male, uno per ogni anno di errore.

Speriamo che gli anni davanti a noi siano ancora almeno altrettanti. Nel frattempo, proseguiremo a fare del nostro meglio (o perlomeno del nostro meno peggio) per rallegrare qualche minuto della giornata di te che stai leggendo; e continueremo a cercare di arrivare all’obiettivo iniziale: vivere d’arte e vivere d’amore. O morire nel tentativo.

ldcds

Anime in Alba

audio: Rosetta – Hodoku/Compassion

Princes Street era vuota, nel gelo della notte; la luce dei lampioni la rischiarava a giorno, ma più o meno nessuno era in giro a goderne. Seduto sull’estremità di un marciapiede salvagente, davanti alla National Gallery, Mathias guardava nel vuoto in direzione di Calton Hill, con il suo corpo lì a Edimburgo e la mente chissà dove. Ed erano le quattro del mattino di un qualsiasi 10 gennaio. Aspettava.

Edimburgo non aveva una metropolitana: dopo quattro anni passati lì non aveva ancora accettato la cosa. Ok il suo status di capitale europea, la sua società multietnica, il suo sudare cultura da tutti i pori, ma in realtà per quel che gli pareva era uno sperduto buco bagnato e ventoso senza una fottuta metropolitana. Era così, coi treni della metro, che Tuane veniva da lui, in quei giorni passati giù a São Paulo: lei arrivava da Armênia sulla Linha Azul, e si incontravano in quel formicaio tremendo che era Estação Sé, dove lui già la aspettava. Si baciavano annegando nella fiumana paulista che scorreva loro attorno, e Mathias trovava che fosse comunque un bel modo di amarsi. L’amore arrivava coi treni della metro. Edimburgo la metro non ce l’aveva e lui non glielo poteva perdonare, perché così gli sembrava che ad Edimburgo non potesse più trovare l’amore.

A Edimburgo era arrivato correndo dietro a Tuane, dopo che lei aveva deciso di attraversare l’Atlantico un bel giorno e non era più tornata indietro. In Praça da Sé, davanti alla cattedrale, l’aveva aspettata per mesi che erano sembrati lustri, finché, non avendo più niente da fare, da sperare o da perdere, prese per l’oceano pure lui. La Scozia gli era piaciuta e continuava a piacergli, a dire il vero, finché non pensava alla mancanza della metro. Il tempo era folle un po’ come a São Paulo; e pazienza se era più freddo, perché del caldo era stufo. Non c’erano traffico e inquinamento. E c’era lavoro.

Ma non c’era più Tuane. L’aveva cercata dappertutto, ma quando Mathias era arrivato lei se ne era già andata chissà dove, tornata in Brasile o volata su Marte o Dio solo sapeva che altro. Non riuscì a trovare nessuna traccia concreta d lei in città né nei dintorni: solo qualche conoscenza che non aveva niente di utile da dire. Dopo qualche settimana di ricerca, svuotato, smise di correre dietro ai fantasmi. Si risolse comunque a fermarsi lì sul Forth: a quel punto qualsiasi posto era insensato quanto un altro.

Era tornata quell’estate, a settembre. Quella sera di gennaio, a un concerto, aveva cominciato a parlare con una ragazza appena conosciuta. L’aveva saputo così.
– Sei scozzese? – gli aveva chiesto quella.
– No, sono nato e cresciuto in Francia, per quel che può valere. Ho vissuto un’eternità in Brasile.
– Dove?
– A San Paolo.
– Ho conosciuto una ragazza proprio di lì qualche giorno fa. Magari la conosci.
– Mah, San Paolo è grande. C’è un sacco di gente.
– Più che a Edimburgo?
– Più che in tutta la Scozia.
Ma il nome e la descrizione che la ragazza gli dette erano giusti. Era stata lì anni, se ne era poi andata ed infine era tornata, ed anche questo corrispondeva. Quante brasiliane con quel nome e quell’aspetto potevano esserci in giro per Edimburgo? Quante brasiliane con quel nome e quell’aspetto potevano essere tornate ad Edimburgo due volte?
– Dove vive?
– Non lo so. L’ho incontrata un paio di volte a Leith. Ci porta a spasso i cani altrui. Per lavoro, credo.

La ragazza sconosciuta aveva incontrato Tuane vicino al porto. Tuane era a Edimburgo. Mathias scoprì che andare a dormire era diventato all’improvviso impossibile. Seduto in Princes Street per ore ascoltò turbamenti repressi per anni provenire da qualche parte dentro di lui. Quando non ne poté più si alzò e si diresse verso il Leith Walk. Le otto del mattino, Edimburgo riprendeva vita a attorno a lui. A latitudini più dolci avrebbe potuto forse godersi il sole, mentre lì di luce dal cielo non gliene arrivava granché. Pazienza.

Non aveva sperato di avere fortuna, ma forse quel giorno qualche divinità benevole trovò che i suoi anni di sofferenza avessero ben meritato una ricompensa. Tuane era là, nel Leith Links, mattiniera come era sempre stata, in quel gran freddo verde. A Edimburgo era arrivato l’amore anche senza la metro, seduto ad aspettarlo su una panchina in un prato gelido. Tuane guardava verso il cielo, forse contava le ultime stelle. Sentendo avvicinarsi i passi di Mathias, girò lo sguardo e guardò fisso l’uomo in avvicinamento. Si alzò sorridendo.
– Speravo fossi tu.

Si abbracciarono. Stavolta attorno a loro scorreva solo il vento. Ma andava bene anche così.

 

Opossum

Yard time

“So? Do we still have to walk a lot?

The Rationality spoke with.a firm and annoyed voice. Although it was a normal working day, her desk up on the antepenultimate floor was still full of practices to deal with. Moods and emotions were always making her lose an huge amount of time, and the worst thing was that there was no way of getting rid of them.

“No?”

Replied the Doubt, with his ancient and floating voice.

“We should be almost there…but you never know for sure down here, right?”

The tiny corridor obliged them to walk in a line, the Doubt first, his wizen nose popping out the hood and slicing the lazy light coming from the neons in the ceiling. On the side walls, a myriad of small white doors lied locked and silent. The Rationality looked at them, reassured by the silence. She tried not to think about the cacophony of cries, laughters, screams, songs and curses that were actually happening behind these doors. The soundproofing system was working perfectly, and that was enough for her.

“Here we are, sister.”

She almost crashed into the Doubt, who suddenly stopped at a door, this one wide open, revealing a tiny empty room, the white ceramic walls covered by countless squirts of blood, both random and organized in complex images and phrases.

(per stillicidia emittere animam)

The Rationality carefully looked at them, one by one, while the Doubt started to enounce his report.

“Ambition. Here since some years…seven? Maybe ten. Sick. Unstable. Dangerous? They tried to restrain her with warnings and leashes, but she became only more aggressive. She had a violent argument with a comrade, and they decided to lock her up here. If this is an here. After all, this place doesn’t even exist, right?”

(He who ask timidly, teachs to reject)

“What was the argument?”

“Silly reasons. The Common sense was making fun of her. He said – If you were to make it, you would already have -, or something like that.”

“And?”

“ She chew his throat off, and then she tried to rape him. He never fully recovered, poor guy.”

(Se attacchi un re, poi devi ucciderlo)

“How was she able to escape?”

“It’s not known? I certainly don’t know. It’s your duty, to hunt prisoners and anwers. My duty is to keep an eye on you. I hate my job.”

“Keep an eye on ME? You should have…”

The first wave hit them in a way that surpassed the physical faltering . It was a conceptual violence, it was like attending to something that can not happen. A subtle sensation of movement began to bite the sides of reality.

“We’re moving!”, squeaked the Doubt, “The Omni is walking! It can’t be, but it is. Amazing!”

“Silence, sleep eater!” ,shouted the Rationality, “I don’t know how, but someone desecrated the temple. We have to go to the last floor, now!”

The second wave roared his satisfaction, while the two of them started running back in the corridor. The doors began to fell, while the prisoners started exiting the cells. A lost love, blind and naked, was dancing in the passage, blocking the way. The Rationality hit him with force in the stomach, making him collapse on the floor. Other bearded regrets were crawling outside, long and dirty fingernails anxious to dive into the eyes of some young hope. From behind, fears and awarenesses of every kind marched quickly toward an apathetic freedom. The Rationality and the Doubt fought together with fierceness, barely being able to escape the maze of the nightly whispers. They made their way to the painted stairs, which led them up to the last floor, while the shockwaves continued to flatter, always more stronger and rhythmic.

They found her there, tiptoing over the precipice, her eyes on where before were the doors of the temple, now open for the first time in a very long time. Outside, the unexplicable whirling of the External Sea was devouring himself, while he shouted his questions to the eternity, without even caring for possible answers.

“Look who we have here. The bastard son of Knowledge, and the spinster queen, cheater of the senses. A lovely little wind today, don’t you think? Perfect for a walk!”

Calm and sinuated, so it sounded the voice of Ambition. And for a moment, a long, intense moment loaded with eventuality, it really looked like that things were going to fit in togheter, in a satisfying ending.

The Ambition didn’t go for a walk. Her gracile figure didn’t vanish between the tides of the entrophy below, dragging the entire temple with her. The great doors began to close slowly, while the shockwaves diminuished by number and intensity. She turned and started walking back, passing through the Rationality and the Doubt without even looking at them.

“I just wanted some fresh air.” , she said. “I’m going back down to bleed now. If you need me, you know where I am.”

Everything was motionless, again, like it was supposed to be.

Kire

 

 

Ora d'Aria - by Anna (theannuz@gmail.com)

Ora d’Aria – by Anna ([email protected])

Marginalia

E’ difficile descrivere lo sguardo di un uomo prossimo alla morte.

Marcus Maney, 42 anni, di professione veterinario, infelicemente sposato, senza figli, senza sogni, con pochi risparmi e ancor meno ricordi, non era mai morto e non aveva grandi esperienze in merito. Eppure, non avrebbe saputo in che altro modo interpretare l’espressione del barbone che in quel momento quasi appoggiava il proprio naso al suo, occupando la totalità del suo campo visivo.

Un’altra persona sarebbe indietreggiata all’istante; un’altra persona avrebbe almeno fatto una smorfia di disgusto, in risposta ai denti marci e al vivace fetore del senzatetto.
Marcus Maney invece rimase immobile, ammaliato da quegli occhi così consapevoli, così folli. Una sorta di panico mischiato a fascino morboso lo incatenava a quel particolare momento. Il sole della periferia era tramontato ormai da un pezzo, ma la strada era ancora avvolta in una luce pallida e pigra, che sembrava essersi dimenticata dei suoi impegni altrove.

“Rispondi. Ti ho forse chiesto dei soldi?”

La voce del clochard era roca e piena di sincera indignazione. Il suo sguardo finalmente si abbassò per un secondo, e Marcus lasciò libero il respiro che stava trattenendo senza nemmeno rendersene conto. Ai loro piedi, la moneta da 50 pence li osservava con fare indifferente. In fondo alla strada stava passando un uomo a cui una volta una tigre del Sumatra aveva strappato anulare e mignolo, ma nessuno ci fece caso.

“Non ti ho chiesto dei soldi. Non ci sono cartelli. Stavo seduto a terra a pensare. Non hai nemmeno rallentato, lasciando la moneta. L’hai gettata come fosse un fazzoletto nei rifiuti. Perchè? “

Ancora, Marcus Maney non rispose. Il pensiero di protestare, di dire che lo stava facendo per semplice cortesia, per abitudine metropolitana magari, non lo sfiorò nemmeno. Si sentiva, inspiegabilmente, come se il mondo stesso avesse deciso di voltarsi dall’altra parte. Le schiene silenziose di ogni punto di riferimento conosciuto lo squadravano perplesse, come se dubitassero della sua stessa esistenza. Lo assalì l’assurdo impulso di gridare, e con gli occhi lo fece, spalancandoli fino a far scricchiolare le palbebre, il suo sguardo lanciato verso il vagabondo come una folle auto in corsa senza freni.

“Mi ascolti? Sei drogato?”

“Ti ascolto. Non so cosa dire. Non capisco cosa mi succede. E’ come se fino a poco fa fossi stato impegnatissimo a fare qualcosa, ma non ricordo cosa. Non volevo offenderti. Credo di essermi appena ricordato di essere infelice.”

Diede la risposta tutto d’un fiato, come se spaventato dalla prospettiva di non averne poi molto ancora. Il finto senzatetto gli lanciò un’ultima occhiata sospettosa, poi sembrò rilassarsi un poco.

“E’ facile dimenticarsene. E’ un po’ il motivo per cui me ne stavo a pensare. Vieni, parliamo. Ma non qui, sei già il terzo che mi lancia addosso monete oggi. Seguimi.”

L’uomo rovinato iniziò a camminare, infilandosi in una laterale vicino senza controllare se Marcus lo stesse seguendo. Mentra si spostavano, quasi fluttuando nel sottobosco di vicoli del porto, il veterinario si rese conto che pur vivendo in quel quartiere da sette anni non aveva mai messo piede sopra quei ciottoli. Non si era mai preso la briga di sbirciare oltre ai margini della sua quotidianità, dando per scontato di aver qualcos’altro di meglio da fare. Il tempo era passato come sua abitudine, lento e veloce allo stesso tempo, come un aereo di linea appena oltre il layout dell’orizzonte. E ora si stavano fermando in uno stretto pontile isolato che si affacciava sul porto, il mare del nord che sembrava accucciarsi dietro il brutto profilo delle navi mercantili.

“Eccoci. Non proprio spettacolare, ma è la cosa più vicina ad un panorama, nei paraggi. Siediti.”

“Mi chiamo…”

“Non mi interessa il tuo nome. Parlami di quello che hai dimenticato.”

A Marcus non servì tempo per pensare ad una risposta. Le parole uscirono naturali, semplicemente, come se fossero state create solamente per essere usate in quel preciso momento.

“Quando ero piccolo, sedevo nel giardino fuori la casa dei miei nonni, Osservavo la luce del sole che filtrava tra le foglie della grande quercia, e mi chiedevo come funzionasse. Il sole, intendo. Non lo sapevo, ma avevo la rassicurante certezza che un giorno l’avrei imparato. Non è mai successo. Non mi sono mai spostato da sotto quella quercia, e non ho idea di cosa sia importante e cosa no. Credo di essere spaventato.”

Rimasero alcuni minuti in silenzio. Se l’altro uomo l’aveva capito, anche solo ascoltato, non ne diede traccia. Poi iniziò a parlare, rivolto più al buio che a Marcus.

“Per gli ultimi 14 anni, fino a questa mattina, sono stato constantemente dipendente dall’eroina. Un fantasma completo, il cui corpo si divorava da solo. La mia famiglia mi ha ripudiato. Tutti i miei amici, quelli della mia adolescenza, perchè poi non sono più riuscito a farmene di nuovi, sono morti, o in galera, o semplicemente non vogliono avere più nulla a che fare con me. La mia vita è una pozzanghera che non si asciuga mai, che nessuno calpesta. Questa mattina presto ho preso una dose e ho deciso che sarebbe stata l’ultima. Fra non molto cominceranno i brividi, ma non è quello che mi spaventa. Mi spaventa cosa farò dopo, una volta passate le crisi. Non ho idea di cosa, e come, cominciare. Ho buttato via talmente tanto tempo che l’idea di decidere come usarlo mi risulta aliena. Non so come si vive. Ma credo di volerlo fare.”

Prima che l’ultima parola avesse il tempo di posarsi sull’acqua, il vagabondo si alzò e si incamminò senza lasciare nient’altro dietro di sé oltre all’eco di una distorta speranza. Marcus lo seguì con lo sguardo fino a quando non sparì dietro ad un capannone. Non lo rivide mai più, e non seppe mai se riuscì a raggiungere il suo obiettivo.

Quanto a lui, non lo sapeva. Forse ora sarebbe cambiato tutto, o niente. L’unica cosa di cui era certo, una determinazione mai provata prima, la voglia di capire come funzionasse il sole. E se non l’avesse capito, avrebbe cercato oltre i bordi delle pagine, in cerca di una nota lasciata da altri lettori. E avrebbe capito, se non il perchè, almeno il come.

O almeno, così sperava. E sperare era già molto di più di tutto quello che avesse fatto fino a quel momento.

Kire