L’Intersecatrice (IV)

“Forse in questo consiste la punizione della madre, alle cui cure e alla cui educazione, noi, figli perversi, ci siamo sottratti”

– E. T. Hoffmann

Quando corri perchè la tua vita è in pericolo, o perchè pensi che lo sia, il mondo attorno a te può diventare davvero una giostra antipatica. Quando scivolai sull’asfalto e mi fermai per la prima volta dopo un tempo indefinibile ( Due minuti? Dieci?), non potevo nemmeno capire dove mi trovassi, da quanto la realtà tutta vorticava impazzita. Riuscii grossomodo a rialzarmi, graffiato e dolorante, respirando a fatica, un’intera nazione di spilli sottili conficcati nei reni, nei polmoni, nel cuore. Incespicai fino al lampione più vicino e lo abbracciai come se fosse il mio migliore amico, e per un po’ restai lì, a bere la sua luce calda e finta.

Sembrava tutto tranquillo ora, e mi resi conto che nella mia fuga folle mi ero spinto senza saperlo verso la zona industriale alla periferia del paesino, essenzialmente  un grosso quartiere solitario costituito da capannoni anonimi e strade nuove, larghe quanto luccicanti. Erano le tre di notte, e non c’era un’anima in giro.

Oh dio, che ironia. Anime in giro. Quante sono in realtà, queste piccole metafore innocenti che usiamo quotidianamente, senza sapere di cosa stiamo parlando, senza sapere quanto peso mettiamo in fondo nelle nostre piccole parole.

Ora che mi sentivo meglio, lasciai che la razionalità tornasse rabbiosa dentro di me, a sistemare il disordine e raccogliere le sensazioni da terra. Dovevo tornare al principio.

Inspirai.

Clack, clack. La reflex scatta, scatta. Il flash unito ai rimasugli di sonno crea uno squisito coktail di rincoglionimento, ciononostante mi alzo. Prendo la camera, questa fa la buona per un attimo, poi mentre me la rigiro in mano mi scatta di nuovo in faccia. Bestemmio, accecato, e mio malgrado la lancio lontano in uno moto di fastidio. Finisce sul letto. Sul letto c’è qualcunocosa, seduto sul bordo, camuffato dalla penombra. Solita figura nerastra senza lineamenti, ma anche se non vedo il suo sguardo, SO che mi sta fissando. Indietreggio a scatti, cerco a tentoni l’interruttore della luce, lo trovo, lo accendo.

Idea discutibile.

C’è una nuova carta da parati, a quanto sembra. Le mura della stanza sono ricoperte di figure, alcune appoggiate di schiena, altre in posizioni strane, intente a compiere piccoli movimenti, come se stessero strisciando in verticale, le mani scivolose sull’intonaco, le dita aperte. C’è un rumore, ora lo noto, è un respiro roco forse, ma annacquato, liquido, ed ha una specie di eco, come se fosse un coro di tanti interpreti, e sembra arrivare da lontano, anche se le figure sono a pochi metri da me. 

Non so quanto resto sull’uscio ad osservare la scena, probabilmente pochi, nervosi secondi. Me ne corro in cucina, forse perchè lì ho lasciato la luce accesa, e inconsciamente quanto erroneamente siamo portati a pensare che la luce sia sicura. In cucina c’è un’altra, solitaria figura. Mì dà le spalle, è di fronte alla finestra e sembra guardare fuori. Lì, lo ricordo, è il momento in cui mi sale la rabbia. Mi scaglio verso la figura, con quale scopo non so, e credo fossi convinto che le mie mani l’avrebbero attraversata, e invece no, serro la presa su qualcosa che sembra un tessuto liscio, quasi viscido, come fosse seta marcia, pelle di un sogno morto, e poi la figura si muove, scivola di lato e perdo la presa, e inizia a muoversi veloce veloce, muoversi in un modo strano, e dio, COSA sta facendo, sembra stia BALLANDO, si agita tutta, ma non c’è grazia nei suoi movimenti, c’è qualcosa di nervoso e scattoso, sembra una marionetta manovrata da qualcuno, mi si avvicina poi saltella indietro, fa mille piroette, e l’eco del respiro roco ora è come una pioggia di colpi di mortaio, riempie le mie percezioni, e basta, sento la follia grattare sugli stipiti della mia mente, aprimi, aprimi, e semplicemente qui non posso restare un secondo di più. Corro, corro fuori sulle scale, corro in strada, corro verso dove cazzo non lo so, corro e basta.

Espirai.

Mi guardai i palmi delle mani, graffiati e sanguinanti per la caduta. La voce lieve di Laura arrivò da dietro di me, inaspettata, calma e inquietante.

 “Dovresti disinfettarti. Lo sapevi che una volta in questo punto erano soliti impiccare i partigiani?”

Credo che mi lasciai scappare un sorriso, nonostante tutto. Scrollai le mani e mi girai lentamente, pronto per il mio colloquio con l’Ignoto.

Kire 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.