Pointless pills – I like

I like to take pictures, but I’m not a photographer

I like to create stories, but I’m not a writer

I like to ride bikes, but I’m not a cyclist

I like to drink beers, but I’m not a taster

I like walking in the mountains, but I’m not a hiker

I like to tell jokes, but I’m not so funny

 

I’d like to be good, but I’m very flawed

I’d like to be whole, but I’m just shattered

 

Opossum

Settembre

Erano giorni di polverosa solitudine, e non poteva farci niente. Per distrarsi -impresa disperata se non apertamente impossibile- si spingeva pedalando lungo passeggiate non euclidee, cosa che gli richiedeva di inforcare biciclette alla cui vista sarebbero rimasti perplessi gli stessi Escher, De Chirico o Piranesi. I viaggi duravano esattamente quanto glielo consentiva il sopraggiungere della noia (erano periodi non calcolabili su una scala temporale comune) e terminavano inderogabilmente nello stesso modo e nello stesso punto: con lui esausto, madido e sul punto di svenire, in fondo alla strada di casa (senza sapere assolutamente come ci fosse arrivato), che attraverso le nebbie della fatica guardava sé stesso partire proprio per la scampagnata da cui stava tornando.

 

Opossum

Madrugada

I protratti periodi privi di idee e creatività imponevano su di lui quella malinconia a buon mercato che prende sempre la gente nei momenti in cui finisce qualcosa di bello e atteso. Come quando durante la notte si scioglie la compagnia degli amici, o quando nelle sere di tardo agosto ci si accorge all’improvviso che l’estate se ne è andata, e i presagi dell’autunno attirano sempre più presto il buio. Sulla spiaggia deserta, coi piedi a mollo nei primi metri di mare osservava l’alba, nella vacua ed orrendamente pigra speranza che il sole oltre al caldo infernale gli elargisse anche qualche colpo di genio; se si rendesse conto che affidare la propria ispirazione a un astro lontano e indifferente non era la migliore delle scommesse, non lo sapremo mai.

 

Opossum

Strade di ghiaia

Quando finalmente il clima prese la forma e la consistenza dell’autunno, terminarono, inaspettatamente come erano iniziati, i fine settimana in cui lei aveva deciso di usare parte del proprio prezioso tempo libero per allietare il suo. Quei luminosi sabati e domeniche avevano lasciato spazio a vecchie abitudini, a weekend tornati vuoti come prima se non di più. Poiché come Bernardo Soares “não tendo para onde ir nem que fazer, nem amigos que visitasse, nem interesse em ler livros” -o quasi-, passava non poca parte delle giornate sdraiato sul letto fissando il soffitto, sforzando ogni fibra nel tentativo perennemente frustrato di non pensare a niente, proprio a niente, assolutamente a niente.

 

Opossum

Discorso dell’uomo pallido che ululava sulla montagna

Quando sono in bicicletta a volte decido che voglio essere avventato e cominciare una salita difficile. E le salite difficili sono tante ed aumentano, perché sono uno scapestrato dalla fisicità ridicola, non mi alleno, non ho una bici eccezionale e vedo ormai il termine del mio quarto decennio di vita avvicinarsi. Le salite sono stronze, quando sei in bici sono autentiche puttane. Ma quando il masochismo chiama tocca rispondere, e cambiare altitudine è un buon modo per farlo.

Quando sono su una salita difficile di solito cerco di non pensare alla strada. Guardo la ruota anteriore e i pochi metri davanti a questo orizzonte, poi mi distraggo e mi metto a pensare alle cose più assurde che mi vengono in mente. Penso alle regole del cricket e agli undici modi possibili per eliminare il battitore. Penso alla gestione dello spazio colore dello ZX Spectrum e ai relativi conflitti sugli attributi. Penso a mio nonno materno che per addormentarsi invece delle pecore contava le province italiane, e di solito dopo questo penso ai 27 stati brasiliani ordinati per macroregione e alle loro capitali (e non mi viene mai in mente quella del Sergipe, che se ne vada a cagare). Penso ai modi di discernere i monosillabi che vogliono l’accento da quelli che non lo vogliono. Penso alla cinematografia estone e a selezionate pagine di Pynchon, Soriano e altra gentaglia. Penso che mi rendo conto all’improvviso che è da due giorni che ho in testa in loop “Vorrei ma non posto” di J-Ax e Fedez e non capisco come sia possibile. Penso che se mi venisse un infarto e morissi proprio qui, proprio ora, mio nipote non avrebbe alcun ricordo di me e insomma, va beh, uno zio non è un genitore ma se hai uno zio opossum pensa che sfiga non avere l’opportunità di conoscerlo. Penso a come scriverei un racconto in cui descrivo le cose a cui penso mentre affronto le salite difficili. Penso agli abitanti di quei paesi improbabili che mi può capitare di attraversare e mi chiedo come sia possibile tollerare un’esistenza lì, ma poi mi dico che se comunque sono riusciti lo stesso, pur stando in quei buchi di culo, a trovare la felicità, o almeno l’amore, o almeno il senso della vita, o almeno le pile per il telecomando, allora la vita gli è andata comunque meglio che a me.
Se ancora la salita non è finita è grave, perché comincio a pensare che sia meglio tornare indietro. Che è una cosa spiacevole su più livelli, mentali e fisici, spesso miscelati assieme in un amalgama dal vago sapore di merda. “Hai fatto tutta ‘sta strada per cosa, se poi torni indietro prima di arrivare? Ok, che non servi a un cazzo nella vita si sapeva, ma per Dio non sei manco buono di far girare due pedali? Stai ancora come quando a 10 anni cadevi dalla bici a rotelle (sì, purtroppo succedeva davvero, ve lo giuro, ma questa è un’altra storia)? Questa strada non la conosci, magari dopo quel tornante c’è una discesa, arriva almeno lì deficiente.” La mortificazione dell’anima e del quadricipite, tanto più crudele quanto più è inevitabile, serve solo fino a un certo punto di rottura, che in genere è -almeno per me- imprevedibile: c’è un contatto che salta all’improvviso da qualche parte della testa e che dice che no, basta, si torna a casa; e quasi da sola la ruota anteriore fa un’inversÈ UN TRATTO IN PIANO QUELLO LÌ A DIECI METRI DA ME? È UN TRATTO IN PIANO? SÌ! CAZZO, DAI CHE È FINITA e insomma a volte succede anche questo. Posso rimettere i rapporti duri.
Che mica me li ricordavo così duri però. Vaffanculo. Ma va beh dai, tanto mo’ c’è pure discesa, che goduria ‘sta brezza.

(La discesa, in bicicletta, è un concetto metafisico che non sempre ha un corrispondente reale. Una discesa è solo una salita al contrario. E quando ti giri per tornare sta lì a guardarti sorniona e sembra dirti “E ADESSO COSA CAZZO FAI, COGLIONE?”. Che è una domanda stupenda, seriamente. Perché ci pensi bene e capisci che la bicicletta, in fondo in fondo, è un bell’hobby di merda).

 

(E non voglio più vedere una salita fino al 2019).

 

Opossum

Pointless Pills #11

There was a time when he couldn’t wear anything white, otherwise the blood would have showed up everywhere. At that time he didn’t know what was going on in his life. But he liked to dress in black anyway, and that kept him going.

Another time, for a while, he really believed he was like everyone else. What he thought was normal. A job he didn’t like, a car he didn’t need, a woman he didn’t love. At that time he didn’t ask himself too many questions, and that kept him going.

Then, the time when time disappeared. He was living in the desert then, although he couldn’t remember its name. Nothing was wrong, nothing was right. He tried to learn the language of the stars. He failed, but trying kept him going.

And so many others. Plus the forgotten ones. So many moments, whispering from nowhere.

And what, now. They say the present is the most important moment. Does he agree?

He stops what he is doing. His eyes fly through the restaurant’s window. Outside there is Spring, deep, hard spring. Almost 10pm and everything is shining in Renaissance oil colors. His shift is almost done and he’ll have to run to his second job, the real one. The one that keep him awake at night. And keep him going.

The supervisor pops up over his shoulder, ehy mate, you alive?

And maybe he’s smiling, but he doesn’t know that.

“I’ll be in five minutes.”

 

Kire

 

Moleskifi [Pillole LDCDS]

Poi non ho scritto più niente perché non mi veniva più in mente un argomento su cui scrivere. Una storia, dei personaggi. Una cazzo di ambientazione. Niente, vuoto. Stavo lì alla finestra ad aspettare l’ispirazione ed era dura perché abito praticamente sottoterra – avessi avuto almeno un bel finestrone che dava sul Monte Baldo. Non avrei scritto niente lo stesso, anzi, forse meno, ma almeno mi sarei goduto un bel panorama col Baldo innevato (se inverno) o il Garda luccicante nella brezza (se estate). Il mio panorama erano i piedi dei parenti che passavano nel cortile. Non lo potevo neanche chiamare “blocco dello scrittore” perché avrebbe automaticamente sottinteso un paradosso, ovvero una mia presunta condizione di “scrittore”, cosa che non si poteva dare in alcun universo conosciuto. Allora si dava che fosse la molto più adatta sindrome del foglio bianco, che dopo il tardissimo Novecento è diventata sindrome del New Document nel Word Processor, che è la stessa cosa nonostante consumi più corrente e sia marginalmente positiva per gli alberi non più costretti a morire per dare sfogo ai pensieri impuri dei segaioli dalla prosa d’accatto. Dopo parecchio lambiccarmi e disperarmi ero arrivato ad insultarmi perché le mie idee facevano pietà, e quando non ne ho avute proprio più quasi quasi rivolevo le idee pietose. Non potevo farmi un discorso di carica allo specchio perché non ci tenevo tanto a guardarmi, erano molto meglio i piedi dei miei parenti. Ero rimasto senza alternative. Ed era in fondo un’opportunità. Avrei potuto raccontare la storia di un autore rimasto senza alternative, no? Una vicenda a suo modo epica vicina in spirito all’uomo comune che balbetta poesiole sulla sua moleskine. Ma poi non ho scritto più niente.

 

Opossum