Anamnesi (Il Lento Risveglio della Memoria)

“Il punto è che non ti abitui a questo posto.

Vedi, tu sembri un tipo sveglio. Hai una mentalità aperta e quindi sei sorpreso e non spaventato. Ma non basta. Il tuo problema è che ti comporti come se ti fossi appena trasferito in un luogo nuovo. Pensi che con pazienza e tempo ti ambienterai: imparerai la lingua, le strade, usi e costumi, meccanismi. Non è così. Non c’è nulla da imparare. Qui tutto scorre in te nel momento in cui accade, anche se non è mai accaduto. Lo smarrimento che senti si attenuerà, ma non arriverai mai a capire come vanno le cose qui, anche perchè le hai già capite. Mi segui?”

“No.”

“Naturalmente. In ogni caso io stesso non ti sto insegnando nulla, cerco solo di alleviare la tua confusione usando parole a cui sei abituato. E’ il mio lavoro. La parola stessa è una delle prigioni più sofisticate. Ma sono cose che già sai, cose che hai sempre saputo, anche prima di arrivare qui. Insomma, pensa a cose semplici, un ragno che tesse una tela, una vespa che costruisce un nido di terra. Sono forse andate a scuola per fare queste cose? Pensi ci fosse nonno Tarantola a spiegare ai cuccioli cos’è il bene e cos’è il male? Andiamo. Tutto quello che siamo è eternamente con noi fin da quando prendiamo forma, e forse anche da prima. Di tutte le razze, le specie, le concezioni, noi siamo quella che più si è impantanata su questo. Filosofia, la chiamiamo. Dimentica il concetto di capire come lo conosci: è solo una soluzione ad un problema che nessuno ha mai posto. Ricorda, invece di capire. Ma prima devi dimenticare: i tuoi sensi sono sporchi.”

“Per essere uno che nega l’uso della filosofia, mi pare che ci sguazzi dentro piuttosto bene.”

“Cerco solo di venirti incontro, tesoro. E questo è un altro tuo problema; qui ci sono molte cose che non conosci, ma molte altre ti sembrano familiari. Pensi che sia un vantaggio, una base in comune da cui partire. No. Qui è dove le cose sono quelle che sono, non quelle che pensi che siano. L’uno diventa il sette. Il respiro diventa pensiero. Il dolore è una stanza, una strada è un movimento. Tutte queste parole sono molecole di polvere che si agitano sopra una tela. Tieni, bevi qualcosa.”

Il bicchiere è vecchio e sporco, il liquore solo sporco. Il sapore è di whisky mischiato a fango. La gola si incendia, mentre un treno di calore mi scende cieco nelle budella. Il fumo della sigaretta di Anton si raggruppa fluttuando. Forma l’immagine di una scalinata. Man mano che salgo i gradini con lo sguardo l’immagine di fumo cambia, introducendo nuovi dettagli e lasciando intravedere l’entrata di una stanza enorme, di cui scorgo solo un sontuoso lampadario prima che Anton sbuffi stizzito, cancellando la scena.

“Non distrarti. Avrai tempo per fare amicizia con il vuoto. Come ti senti? Non mi stai impazzendo vero?”

“No..non lo so. Hai parlato del tuo lavoro. Che cosa fai di preciso?”

“Più o meno quello che sto facendo ora, solo che scelgo meglio le parole e vengo pagato. C’è ancora molto della vecchia concezione in me, quindi mi viene facile trattare con i forestieri. Molti arrivano quasi per caso, come te. Alcuni smattano e vanno calmati, o soppressi. Altri usano strani rituali e investono molta ricchezza per venire qui solo temporaneamente. Come fossero in gita, ci credi? Io faccio loro da guida e li proteggo. Questo faccio. Hai avuto fortuna ad incontrarmi”

“Avrebbe una qualche utilità chiederti dove siamo?”

“Siamo dove tutte le anime vengono quando non sanno più dove altro andare. Lo scoglio dove tutti i mondi si infrangono. Basta parlare, sei esausto. Tornerò fra qualche anno, quando avrai dimenticato abbastanza. Forse avrò del lavoro per te.”

Anton si alza, ed esce dalla locanda senza voltarsi. Tocco il bicchiere vuoto, saggio la sua fisicità per convincermi per l’ennesima volta che non sto sognando. Il bicchiere è sicuramente li, ma per qualche motivo questo non mi rassicura. Fuori è l’alba, per la seconda volta in poche ore. Esco a fare due passi.

Kire

 

Anamnesi - by l'Arlequin fou (db4power@gmail.com)

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Estremo Saluto (ldcds ospita)

“Ben sei persone” scandì Uriel. “Prete e becchino inclusi. Dovevi essere amatissimo da vivo.”.

Sergej fissò l’angelo senza rispondere. Il suo profilo severo e squadrato mal si sposava con il sarcasmo. Il sole volgeva sanguinando ad ovest, basso all’orizzonte. I convenuti alla sepoltura si coprivano gli occhi, infastiditi dal riverbero. Uriel e Sergej non ne avevano bisogno.

Il prete armeggiava con una copia sgualcita della bibbia, pronunciando parole ormai consunte da decine di cerimonie una uguale all’altra. “A Dio piacendo” pensava, “tra due ore c’è la partita”

“Vorrei una sigaretta” disse Sergej sovrappensiero. Uriel lo guardò severamente.

“Sei morto, non…”

“Aaah, taci una buona volta!”

Uriel tacque. Non avrebbe dovuto sopportare a lungo quell’anima sgradevole. Aveva ottenuto la possibilità di presenziare al suo estremo saluto sotto sorveglianza, poi sarebbe finito dove meritava. Uriel non aveva dubbi sulla destinazione finale, e si concesse un mezzo sorriso.

A due passi dalla fossa, ritta come cartello di STOP, stava una donna avvolta in un tailleur fuxia. Aveva scarpe a tacco alto, cintura, occhiali e borsa bianchi. Tamburellava le dita su un vistoso orologio da polso pieno di cristalli. I capelli platinati scintillavano alla luce del crepuscolo, mentre li ravvivava con fare seccato.

“La mia Lucy.” mormorò Sergej, fissandola con prepotenza. Si massaggiava il polso senza sentire nulla: un vecchio tic che la morte non gli aveva portato via.

“E’sempre bellissima” disse a bassa voce alla fine, abbandonando le braccia lungo i fianchi.

Uriel si girò di nuovo a fissarlo.

“Ma come puoi!” sbottò.

Sergej alzò la mano per zittirlo, e lui tornò a tacere, immobile, mentre una brezza tiepida lo attraversava.

A mezzo metro da Lucy, troneggiava un uomo. Era alto, poderoso, brizzolato. Da dietro non si vedeva, ma somigliava a Sergej in maniera impressionante. Suo fratello Danj sembrava un pilastro di un qualche viadotto o la solida torre di un sinistro maniero. Aveva quattro anni più di Sergej, ed era sempre stato un faro per lui.

Sergej si portò le mani al volto, come se avesse voluto piangere, invece si massaggiò gli zigomi. Lucy allungò una mano verso Danj, e gli accarezzò il braccio, facendovi scorrere con delicatezza anche le unghie. Lui si girò, e le fece l’occhiolino. Il prete vide tutto, ma continuò a blaterare sciocchezze pensando alla nuova ala destra che avrebbe esordito quella sera. Chissà se avrebbe anche segnato.

Sergej sorrise a quel gesto.

Uriel si voltò di scatto verso di lui. L’aria dell’angelo non era più algida: sembrava furibondo mentre puntava l’indice verso i due.

“Come puoi ridere!” sibilò “Sei stato tradito. Da tua moglie e da tuo fratello!”

Sergej mantenne il suo sorriso triste e non rispose. Uriel parve ringhiare, o forse era solo il vento.

Il becchino scese un attimo dal piccolo e silenzioso bobcat con cui aveva smosso il terreno. Accese una sigaretta e armeggiò sotto la bara ed il carrello che la sosteneva per agganciare il cordame con cui l’avrebbe sollevata. Poi chiuse il moschettone dall’altro capo sul gancio che spuntava sulla piccola benna.

Durante quelle operazioni, dietro Lucy e Danj, un uomo calvo sulla trentina e una donna anziana, confabulavano ad alta voce. Gesticolavano convulsamente. L’uomo si passo il pollice della mano destra lungo il collo ed indicò il feretro. Ridacchiarono, mentre il prete mormorava quello che poteva essere un salmo, oppure la formazione tipo della sua squadra. Erano il fratello e la madre di Lucy. Sergej inclinò la testa e osservò il siparietto, divertito.

“Adesso vivono con lei, lo sai vero?” disse Uriel gelido. “Nella vostra… anzi, nella tua casa. Tuo fratello dorme nel tuo letto, con la tua donna. Si sono presi la tua vita.”

Sergej finalmente degnò l’angelo della sua attenzione. Si girò lentamente, senza perdere la sua espressione triste, ma sorridente.

“E quindi?” chiese con tono neutro.

L’angelo stavolta ringhiò sul serio, e sembrò crescere, farsi maestoso. Il becchino tornò sul bobcat e con esasperante lentezza, sollevò la bara, lasciandola sospesa a mezz’aria sulla fossa. Saltò giù e accese un’altra sigaretta, lasciando al prete le ultime pastoie eccleasiastiche ed ai convenuti la possibilità di stringersi per l’ultima volta attorno al defunto. Girò l’angolo di una piccola tomba di famiglia e si dedicò al suo cellulare.

“E quindi? Eri un mercenario, dannazione!” si scompose Uriel. “Ti sei fatto tradire ed ammazzare dai tuoi cari. Ora scopro che lo sapevi! Perchè non hai reagito? Non hai fatto nulla?”

“Perchè io stavo morendo.” disse placido Sergej all’angelo sconvolto. “Cancro al pancreas, incurabile. Senza saperlo, me l’hanno resa più veloce e indolore” concluse allargando il sorriso in un ghigno.

“La morte non basta a sopportare il tradimento di tutte le persone che ami!”

“Oh no, non tutte.” disse approfondendo il ghigno.

Poi la bara esplose. Le schegge, l’aria infuocata e i pezzi di cadavere schizzarono ovunque. I convenuti volarono via come fantocci, ricadendo senza vita.

Lucy sembrò rialzarsi. Si trascinò per qualche metro verso la fossa, poi cadde morta. Il suo vestito fuxia, era completamente rovinato.

Uriel lo fissò sbalordito, senza parole.

Il becchino emerse da dietro la tomba dove si era riparato, baciò qualcosa nella sua mano, e la rivolse al cielo assieme ad uno sguardo. Poi si incamminò all’uscita fischiettando.

“Non tutti mi hanno tradito. E ora mi puoi portare al mio seminterrato, ragazzo” disse Sergej, avviandosi verso un cono d’ombra che sorgeva minaccioso dal suolo.

Maicol

Sei

Non per niente ma pensaci. Allora ?
Non lo so, non fai prima a dirmelo ?
E dopo che gusto c’è scusa. Comunque è semplice dai, la più alta che mi sono scopato era un metro e sessantotto e già lì mi sentivo a disagio. Non mi piaceva il rapporto in scala, capisci a me.
No, non ti capisco.
Gesù! Sta lì la risposta, il rapporto in scala: adoro scoparmi le donne basse perché fa sembrare il mio cazzo mastodontico.
Quindi hai un cazzo piccolo.
No, ne ho uno nella media. Potresti chiedere a tua sorella se non fosse alta come una giraffa.
Strano, a dire il vero stavo per dire che la tua è una specie di perversione, tipo che sei un pedofilo represso e ti sfoghi così.
Ma che cazzo vai dicendo, non c’è niente di malato in me.
Per fortuna.
Mi piace avere questa sensazione, pensa che non compro un bagnoschiuma da anni, prendo quei piccoli flaconi omaggio che danno nei supermercati e quando faccio la doccia la sensazione è la stessa, è come se mi scopassi un nano: il mio cazzo sembra enorme.
E non la chiami perversione ?
No.
Non so, uno che davanti Biancaneve anziché scoparsi lei metterebbe a novanta, in fila d’avanti a se tutti e sette i nani…che dire ?
Non cogli il punto.
No.

La zona era isolata, i vecchi lampioni erano spenti così come i faretti al cancello d’ingresso.
Il complesso era abbandonato da anni, i capannoni svuotati dagli ufficiali giudiziari e da chiunque fosse passato lì con un carrello della spesa.
Loro erano in macchina, motore spento, nessuna luce eccetto quella riflessa dalla luna, libera da nuvole quella sera.
Attendevano “Il Tizio”, doveva uscire dal capannone che avevano difronte, dovevano fare finta di essere venuti a prenderlo ma non dovevano farlo salire nella macchina.
Ma Il Tizio ritardava e faceva freddo.

Sicuro che non possiamo accendere il motore ? Lui sa che siamo qui.
No, non voglio che qualcun altro oltre a lui lo sappia.
Sicuro che è da solo.
Sì.
Che ha fatto ?

Quella era la domanda più stupida da fare in quell’ambiente.
In quell’ambiente le domande non erano semplicemente pericolose, le domande erano proiettili.
Ora capì perché si trovava in macchina con lui.
In quell’ambiente dovevi saperti muovere.

Non lo so.
Nemmeno io, potrebbero dircelo almeno.
Non ci riguarda.
Sì ma almeno un po’ di considerazione.

E di considerazione lui ne avrebbe avuta stasera, come ne avevano avuta nei giorni scorsi.
C’era stata di sicuro un tavolo, qualcuno aveva chiesto, qualcuno aveva acconsentito ed eccoli lì: lui seduto a destra e l’altro a sinistra a tamburellale sul volante per vincere un po’ di noia.

Il Tizio uscì, l’altro stava già uscendo dell’auto.
Fermo! Lampeggia con gli abbaglianti, due volte.
Perché ?
Fallo e basta.

Lampeggiò due vole, Il Tizio fece un cenno con la mano, camminò verso l’auto.

Aspetta…

Il Tizio fu a pochi passi dall’auto.

Buttagli quei fari in faccia, accecalo!

Lo fece, nel mentre la prese, gliela poggiò sulla nuca e fece fuoco prima che l’altro potesse dire o fare qualcosa. Per un secondo vide il suo occhio destro voltarsi terrorizzato verso di lui.

Fu un fischio forte, lungo.
Portò la mano all’orecchio, lasciò cadere l’arma dal dolore. L’aria era densa del fumo e quell’odore accompagnato al fischio era troppo, quasi sradicò la maniglia aprendo lo sportello.
Si ritrovò fuori dall’auto un ginocchio a respirare.
Chinato c’era Il Tizio, dalle sue labbra lesse un “Che c’è ?”

Le mie orecchie.

Si alzo in piedi, girò attorno l’auto mentre aghi si conficcavano nei suoi timpani.
L’altro aveva la testa poggiata sul finestrino, non c’era una goccia di sangue, pulito. Solo grosse fratture sul vetro dovute al forte impatto dalla testa dopo il colpo.

L’Armaiolo l’aveva assicurato, ottimi proiettili per questo tipo di lavori. Abbastanza forti per entrare ma non per uscire e una volta dentro sbattono sulle pareti nel cranio, rimbalzando sopra e sotto, a destra e a sinistra finché non resta un frullato di cervello dove galleggiare.

Con una scusa che non senti pronunciare si allontanò dall’auto, “vado a pisciare” forse aveva detto.

Mentre camminava il fischio si attenuava, il rumore dei suoi passi sul terreno gli disse che non era diventato sordo.
Camminò per un po’, arrivo nel boschetto che costeggiava i capannoni e lì si sedette a terra prima di svenire. La nausea abbracciò tutto il suo corpo, il sudore colava a fiumi, la vista si anneriva voleva vomitare ma non aveva mangiato niente quel giorno.

Era sempre così, ogni volta, tutte e sei le volte.
Voleva dirsi che ora era normale, quel tizio lo conosceva da anni ma mentiva. Anche per i cinque sconosciuti prima di lui aveva avuto la stessa reazione.

Tornò indietro quando se la sentì.
Pisciare o cagare ? Gli chiese Il Tizio.
Tutte e due.
E cosa hai cagato, Marlon Brando ?

Si costrinse a ridere.

Ancora non arriva nessuno ?
No ma nel caso fossero arrivati ti avrei lasciato qui con la tua merda.

Nel mentre il SUV arrivò.

I due uomini salirono dietro, davanti c’erano altri due, quello seduto al lato passeggero sposto lo specchio retrovisore in modo da guardarlo in faccia.

Tutto a posto ? Chiese.
Sì.
Ti sta sanguinando l’orecchio.

Portò l’indice all’orecchio sinistro, era vero.

Niente di grave.

Sul ritorno incrociarono un carro attrezzi.

Sono i russi. Disse Il Tizio.
Non sono proprio russi, sono una specie di russi. Disse l’uomo alla guida.
Che vuol dire ?
Hai capito no ? Sono di lì vicino.
Lì vicino dove ?
Basta. Disse con calma l’uomo sul sedile passeggero e il silenzio scese nell’auto.

Non disse una parola, non fece una domanda, gli pseudorussi avrebbero cancellato ogni cosa, che senso aveva chiedere qualcosa ora ?
In quell’ambiente dovevi saperti muovere, quella era l’unica cosa ad avere un senso.

Slon