Le Coiffeur

Appoggiò la mano allo specchio appannato, la lasciò scivolare lentamente verso il basso. Si vide riflesso nelle strisce sottili lasciate dalle sue dita, ed era buffo, era come vedere un altro se stesso, imprigionato in un altro mondo, quasi uguale, ma non del tutto.

Non del tutto.

Il piccolo bagno affogava nel vapore caldo proveniente dalla doccia, dove (…Claudia?) si stava risciacquando i capelli, cantando una canzone francese. Lui non la conosceva, né capiva le parole, e nemmeno gli piaceva la sua voce. Tornò nella camera d’albergo.
Rovistò nel frigobar, si versò un dito di whisky e si accese una sigaretta, che venne quasi spenta dalle gocce vivaci che gli sfuggivano dai capelli bagnati. Si appoggiò con la schiena alla finestra e rimase lì a pensare. Che cosa succedeva ora? Doveva dare un’altra passata alla studentessa? Doveva fingersi addormentato, e aspettare che lei lo seguisse?

Una valeva l’altra. E poi?

Poi, avrebbe fatto quello che doveva fare.

Perchè è così che doveva andare, no? Certo, avrebbe potuto prendere le sue cose e uscire, così, senza una parola, camminare per le strade ammiccanti di Parigi, aspettando un’improbabile alba. Diamine, avrebbe potuto perfino restare, e dormire davvero con lei, tranquillamente, magari tenendola pure tra le braccia, fare colazione insieme il giorno dopo, e poi…
Fermò i pensieri, stizzito. Quella era l’altra parte dello specchio. In questa parte, le cose andavano un po’ diversamente.

Solo un po’.

Senti sbiadire il canto, quello umano e quello dell’acqua corrente. La ragazza sarebbe tornata a momenti. Si distese a letto, spostando la sua borsa vicino al comodino. Diede un’occhiata veloce al suo interno. C’era tutto: L’etere, il rasoio, le forbici, la piastra, e tutti gli altri suoi giocattoli.
Soffocò una smorfia distorta di piacere, si distese e chiuse gli occhi. Sentì la ragazza entrare nella stanza, sdraiarsi di fianco a lui, percepì la sua esitazione, il suo respiro stanco.

Aspettò che cominciasse il suo viaggio. Aspettò il buio.

Il mattino dopo, una giovane studentessa di giurisprudenza di nome Claudia camminava velocemente e nervosamente nei vicoli di Montmartre. Indossava una giacca a vento e un pesante berretto di lana, che stonavano un po’ nella luminosa giornata primaverile. Era diretta alla gendarmerie che distava solo due isolati, ma più si avvicinava, più il suo passo diventava incerto. Ora che la prima ondata di sdegno e furore era scemata, cominciava a pensare in modo razionale. Che cosa avrebbe raccontato ai flics? Che la notte prima era ubriaca in un pub e aveva rimorchiato uno straniero strano con una faccia triste di cui aveva già perso i lineamenti nei fumi del mattino? Che ricordava solo vagamente di averlo portato in uno squallidissimo albergo e di averci scopato chissà quanto e come? E poi? E poi…dio mio
Sentì la rabbia raffiorare di nuovo, come un predatore sul collo di una bestia ferita, e dovette fermarsi. Si appoggiò alla vetrina di un negozio di elettrodomestici, e solo dopo qualche secondo si rese conto del suo riflesso che la guardava sconcertato. Il mondo intorno smise di esistere. Si tolse il berretto, lasciandolo scivolare lentamente di lato. Ora osservava di nuovo quello che rimaneva del suo cuoio capelluto, che fino a ieri era florido di una folta e lunga cascata di ricci e selvaggi capelli biondi, di cui era sempre andata fiera. Poteva vedere ancora l’ombra della loro lunghezza, dato che alcune ciocche isolate erano rimaste intatte. In altri punti i capelli erano stati tagliati
(violentati?)
di varie misure diverse, senza nessun criterio. Molte parti, come appena sopra l’arcata fontale, erano state rasate a zero in modo uniforme. Altre parti, sparse qua e là, erano state lasciate di media lunghezza e ora si presentavano lisce e candide, come se fossero state passate dentro una piastra
(cosa?).
La parte sopra la nuca era stata rasata ma le prudeva in modo strano, come se l’avessero azzerata con un rasoio. Piccoli aliti di profumo, che sembrava balsamo al cocco, le passavano fugacemente sotto le narici prima di perdersi nel vento.
(Ma quanto bisogna essere folli?)
Nel complesso la sua immagine, complice anche la sua espressione, ricordava quella di una vagabonda dopo una guerra nucleare. Era un mostro.

Cominciò a piangere, e questo la fece ritornare alla realtà. Alcuni passanti si erano fermati e la fissavano preoccupati. Claudia si rimise il berretto e riprese frettolosamente il passo, ma ora non più diretta verso il commissariato. Non ne valeva la pena: non avrebbero fatto nulla di concreto, e lei si sarebbe solo umiliata molto più di quello che già a stento sopportava.

No, i capelli sarebbero ricresciuti; ma su quel figlio di puttana sociopatico sarebbe stata lei a mettere le mani. Non l’aveva solo deturpata e offesa: si sentiva violata in un modo così intimo da provocarle dei conati, come se fosse stata stuprata. Sì, non sapeva come, ma lo avrebbe ritrovato lei stessa; e si sarebbe divertita un mondo.

Soffocò una smorfia distorta di piacere, e ritornò sui suoi passi verso l’albergo.

Kire