(J&B) Season finale – parte 2

Con Monicha con la akka approfondimmo molto la conoscenza nel ripostiglio dove erano conservati prodotti di pulizia, scope e stracci.
Qualche volta mi ero chiesto come sarebbe stato scoparsi una mummia, vi giuro che c’ho perso parecchio tempo, per questo mi ero interessato alla vecchia dello scaldabagno e con lei ebbi in parte una risposta ma solo con Monicha cominciai a sentire il sapore del concreto.
Maneggiando quella pelle compressa su quel mucchio di ossa sporgenti e fredde ritornai al sesso dopo parecchio tempo, un sesso corto e creepy.
Nel durante del primo rapporto mi disse con tono calmo: Vieni pure dentro che non c’è rischio, è tutto marcio là sotto.
Subito mi si figurò in mente l’immagine di Ramses II e io che lo cavalco al centro del Museo del Cairo ricoperto dai flash dei turisti.
Successe anche la seconda volta, la terza pure e dopo basta. Credo che fosse solo questione d’abitudine.

Dopo sedendo ai due lati del ripostiglio stando attenti a non toccarci con i piedi parlavamo mentre fumavamo le sigarette offerte da De Floris.
Raccontava della sua vita, della sua famiglia e del percorso che l’aveva portata nella droga. Cose che non capivo confrontando il suo mondo con il mio.
Era cresciuta in una solida casa, con una solida famiglia e un solido reddito. Il mio esatto contrario eppure la sua esistenza faceva parecchio più schifo al cazzo della mia, in confronto ero un fottuto cassiere di successo. Come minimo.
Quando finì con la sua biografia cominciò ad illustrare il suo nuovo interesse: i diritti delle donne.

Per prima partì illustrando la situazione della donna in varie zone del mondo, mi stracciava il cazzo con milioni di statistiche su stupri in un chissà quale paese inferiore. Le sapeva tutte a memoria.
Dopo cominciò parlando della terribile condizione della donna occidentale, illustrando altre statistiche tipo che un omicidio su quattro e un femminicidio (?).

Questo suo nuovo interesse è nato dall’opera di una delle volontarie del centro, si fa chiamare Alex. Cosa che già spiega in parte che tipo è, ovvero uno di quei tipi convinti delle esistenza della macchina ad acqua tenuta segreta in un segretissimo bunker della CIA perché renderla pubblica danneggerebbe il commercio del petrolio.
Vegana, ovviamente, veste solo con vestiti biologici, gira solo in bici e fa di tutto per rendere minimo il suo impatto sull’ambiente, qualsiasi cosa significhi.
La sua passione è il sociale e l’aiuto delle donne in difficoltà, per questo è arrivata qui.

L’altra tizia che lavora qui è una suora.
La sua presenza è prettamente inutile ma è giustificata dalle litigate con Salvador, infatti lui non fa altro che aizzarle contro i classici argomenti anticlericali (ricchioni, aborto, anticoncezionali e tutto il resto) e solita roba trita e noiosa giusto per farla incazzare. Urlando come ossessi per venti minuti pieni e finisce sempre con lei implorante il Signore di darle la forza per sopportare un tale impiastro. Appena se ne va Salvador si piega e scoppia a ridere chiedendoci se abbiamo visto quanto l’ha fatta incazzare oggi, perché a Salvador dei ricchioni, dell’aborto e degli anticoncezionali non fotte nulla, adora litigare con quella suora e basta.

Davvero non so chi preferire tra Alex e la suora, ci penso a volte tipo come ora mentre siamo seduti tutti fuori in giardino sotto al sole, attorno a questo tavolo bianco di plastica.
Mi capita di pensare anche ai miei nuovi amici o conoscenti, ognuno è felice qui dentro dopotutto: Salvador ha le litigate con la suora, De Floris ha le sigarette da offrire e Monicha ha la condizione della donna e le preoccupazioni che da essa derivano.
Ed anche io dopotutto sto bene qui, è stata una svolta imprevista e il futuro è incerto ma per ora mi godo il momento. Drobo, il tizio dell’est sparito, la vecchia dello scaldabagno, il mio povero portatile, le serie tv, i porno, WoW, il mio cesso d’appartamento, il vecchio ubriacone e sua figlia zoccola ora non hanno più tanta importanza.

Ora sono qui e immagino noi come in tv, l’inquadratura dall’alto ci riprende al tavolo, la camera si allontana aprendo una panoramica sul centro, parte una musica leggera con un testo semplice cantato da una voce si rassicurante ma anche un po’ triste. Il tutto come un season finale, uno di quelli dove non sai se la serie verrà rinnovata e scrivi un finale sì chiuso ma non definitivo.

Slon

Confini

Dragon Ball. Hai presente? Da piccolo mi piaceva un sacco. I fumetti, non il cartone animato. Il cartone è venuto poi, era una merda semplificata per cerebrolesi. Che cazzo c’era da semplificare, poi? Il fumetto era già di una semplicità perfetta. Hanno sputtanato tutto: ritmo narrativo, ritmo dell’azione, dialoghi, colori schifosi, tutto. Era proprio una…”

“Una merda, ho capito. I fumetti invece erano la sborra di Budda. Allora?”

“Allora il fumetto mi piaceva, da piccolo. Mi piace anche ora, in un certo senso. Aveva dei combattimenti fighissimi, ma erano inutili se non seguivi i personaggi e la storia. E la storia portava diverse morali per niente scontate, per un bambino. Ad esempio…hai presente Goku?”

“Sì…credo. Era quello con i capelli sparati ovunque, no?”

“Lui. Un figo di Dio. Nella sua apparente ingenuità, cagava saggezza a carriole. Quando gli chiedevano: -Perchè combatti? Per salvare il mondo?-, lui rispondeva: -No…combatto per trovare il mio limite.- Il limite, capisci? A lui non fregava un cazzo del resto. Cioè si, era buono, gli amici, la giustizia…ma l’unica cosa che gli interessava davvero era combattere, e diventare più forte. Quando arrivava un supermostrofuck e tutti si sporcavano le mutande, lui faceva la verticale dalla gioia, anche se già sapeva che sarebbe stato sconfitto. Era capace di distruggere interi pianeti, solo per provare una nuova tecnica, o confrontarsi al massimo col villano di turno. Il suo unico scopo era trovare il limite. Il suo limite, cristo.”

“Il limite.”

“Sì. Sono affascinato dai limiti.”

“Ma non sono una cosa brutta, i limiti?”

“Non necessariamente, dipende da come li vedi. Ma qui, ora, il punto non è tanto il limite in sè. E’ tutto quello che c’è prima. A me piacciono le emozioni, ad esempio. Il sentire, in tutte le sue forme. Ci sono dei limiti anche in questo, e io voglio trovarli.”

“Ti è mai capitato?”

“Qualche volta. Mi è capitato di attraversarli pure, perchè non mi ero reso conto di cosa stavo facendo. Cosa poco furba. L’abuso in generale non fa mai bene, soprattutto quello di emozioni. Ti puoi fare veramente male.”

“E come fai a capire quando ci arrivi?”

“Beh quello dipende da te, da quanto conosci te stesso. All’inizio non li vedi. Poi cominci a vedere dei piccoli segni, come una linea tracciata sulla sabbia, per dire. Più avanti vai dentro te stesso, più riesci a vederli.”

“E tu ora ce la fai?”

“Meno di quanto vorrei, ma a volte si, dai. Di recente ho trovato il mio limite nell’amare. E non parlo di un cancelletto di filo di ferro, messo su dalla delusione o dal buon senso. Parlo di una cazzo di porta blindata in titanio senza serratura, sorvegliata da un plotone di preti nazisti zombi.”

“Impossibile attraversarla, insomma.”

“Al contrario, facilissimo. Bastava chiedere: la porta si sarebbe aperta, e sarei andato avanti, avrei amato sempre di più. Ma c’era un prezzo da pagare. Avrei dovuto annullare me stesso.”

“Beh..si fa, no? In amore, dico. Si fa di tutto per l’altro, compreso annullarsi o sminuirsi.”

“Si fa, certo, ma è sbagliato. E’ una truffa romantica-secolare che ha rotto i coglioni. Se io ti amo, voglio darti tutto me stesso: i miei pregi, i miei sogni, i miei difetti. Se mi annullo, o mi deformo, resta poco o nulla da dare, non sono più io. Diventi uno zerbino, qualcosa di piatto e ruvido su cui l’altro si pulisce l’ego sporco di merda. Non fa per me. Non dovrebbe fare per nessuno.”

“Quindi non l’hai passato, il limite. Sei tornato indietro.”

“Sì. Stavolta si.”

“E hai smesso di amare.”

“Per nulla, amo come prima. Amo il giusto, restando lucido, senza esagerare e stare male di conseguenza. Resta una cosa mia, che non riguarda nessun altro, nemmeno la persona oggetto del sentimento. Cazzi miei, trallallà.”

“Capisco. Ma allora, a cosa ti è servito trovarlo, questo limite?”

“Ho imparato un sacco di cose su di me. Mi sono ubriacato di emozioni intense, ed è stato bello. Mi sono vomitato addosso, ed è stato meno bello. Ma non sono andato in coma etilico, non ho fatto cazzate irrisolvibili. E alla fine della fiera, sono diventato più forte, senza trucchi o truffe emotive, e ora il limite si è spostato più in là. Sono pronto per il prossimo supermostrofuck. Non ti pare che basti?”

“Direi di si. Cioè, è molto soggettivo, ma sì. La passi quella canna o cosa?”

“Cribbio, scusa. A volte la dialettica mi fa dimenticare l’educazione. Di che stavamo parlando?”

“Di Goku.”

“Giusto. Allora, un’altra figata biblica è la stanza dello spirito e del tempo. Praticamente lì dentro….”

Kire

Una bella serata (pt.2)

Dov’è Melanie ? Melanie ? Perché stamattina non c’è Melanie ?
Quella mattina Melanie non si vedeva, seduto al bancone a masticare la sua colazione Frank aveva in primo piano solo il grosso culo di Norman, il proprietario della tavola calda.
La sua assenza lo disturbava, la respirazione diventava discontinua accompagnata dai primi fili di sudore, amplificati appena qualche nuovo avventore entrava nel locale.
Frank veniva di mattina presto per evitare di vedere altra gente oltre Norman e Melanie, tollerava entrambi e gli piaceva fantasticare sulla cameriera trentenne. Fantasie che spesso avevano come protagonista una forbice e le sue palpebre.
Di recente si era spinto ben oltre i suoi limiti, forse eccitato per i recenti fatti di cronaca, e una mattina aveva portato con se il suo piccolo temperino.
Lo teneva nella tasca sinistra, sempre in contatto con la mano per rassicurarlo della sua presenza. Finita la colazione andò in bagno, cosa rarissima visto che era capace di cagarsi addosso piuttosto che usare un cesso non suo, specialmente se pubblico.
Chiusa la porta sedette sulla tazza per qualche minuto fissando quel legnaccio marrone finché, accompagnato dalla solita cascata di sudore, si alzò, prese il temperino e graffio sulla porta questa scritta: UCCIDI LA TROIA, UCCIDILA.
Prese premura di metterci anche una virgola.
Questa sorta di incitazione era diretta al suo idolo del momento ma non credeva che sarebbe stata accolta.

Quella mattina Melanie non era lontana: si trovava nel bagagliaio della mia auto, con grossi lividi sul collo e fredda come il Polo.
Non mi divulgherò molto sul giro di coincidenze che mi portarono da lei e da Frank, soprattutto perché non sono coincidenze; ho una dote divina nel trovare i miei discepoli ed è naturale essendo io stesso un Dio.
Uno di quelli veri aggiungerei.
Sarebbe come spiegare i colori ad un cieco e voi in questo caso lo siete, ciechi e inferiori, non capireste mai e non sprecherò caratteri nel tentativo di sovvertire questa inappellabile verità.

Di sera lo vidi per la prima volta, un estraneo alla vita sociale.
Frank era agitatissimo, si torturava le mani guardandosi intorno, incredulo di trovarsi in mezzo a tutta quella gente, in quella tavole calda, con Melanie ancora assente.
Si era spinto lì di sera, un’avventuriero in luogo ostile. Provava un forte senso di paura e colpevolezza per l’assenza della cameriera e quella scritta nel cesso era la sua ammissione: Melanie era scomparsa per colpa sua.
Ovviamente a nessuno fregava niente di lui e nessuno l’avrebbe minimamente considerato quando qualcuno avrebbe trovato l’ennesimo cadavere senza occhi.
Era fatto così Frank.
Non fu difficile disegnare il suo profilo in quei pochi secondi: mi ricordava Treasa, una cattolica a cui feci affogare il figliame del vicinato, un continuo bilico tra paura, odio e timore verso un Dio molto meno fattibile di me.
Fu facile abbindolarla, vecchia stupida zitella ma almeno so di averle regalato l’unico momento felice della sua vita, ricordo con gioia le sue grandi risate e lacrime mentre teneva la testa di Thomas sott’acqua. Credo che sia ancora viva in qualche casa dei matti, mi ricorderà con amore, probabilmente avrà tolto la croce dal collo riconoscendomi come il vero e unico Dio.

Oltre a ricordarmi di Treasa, Frank mi ricordò l’immensa soddisfazione che provai nell’aiutarla, decisi che era mio obbligo fare lo stesso con lui, ne avrei giovato anche io.

Lo fissai per un’ora intera e lo seguii quando andò al bagno. Dietro la porta sentivo il graffiare del temperino, stava cancellando la scritta.
Schizzò fuori una volta finito ed ero lì ad aspettarlo.

La notte era luminosa e devo essergli apparso in tutta la mia magnificenza visto che quando gli chiesi se potesse gentilmente aiutarmi a cambiare una ruota dell’auto mi seguì immediatamente.
Questa è un’altra delle mie caratteristiche divine ma ne parlerò in seguito.
Arrivammo all’auto e senza dirgli nulla aprii il bagagliaio.

Slon

Rifugi (Testimonianze\Prima)

27 Dicembre 1938
Da qualche parte in Andalusia, sud della Spagna

(Una stanza sporca e spartana, con pochi mobili in legno; luce del giorno che si insinua da una porta d’entrata spalancata; polvere che fluttua pigra nell’aria, tracce di fieno vecchio sopra piastrelle sbiadite.
Rumori indistinti: alcuni spari e grida, resi ovattati dalla distanza; tre figure entrano nella stanza arrancando velocemente, chiudendo la porta dietro di loro. Due sembrano soldati di qualche tipo, ansimanti e in malarnese: uno di loro trascina un vecchio ciondolante, con una grossa macchia di sangue su un fianco.
Penombra, ora: restano solo le strisce di luce che entrano dalle vecchie finestre semisprangate.
Urla rabbiose, incoerenti: il vecchio ora giace a terra, contorcendosi in una pozza del suo stesso sangue. I due soldati si piazzano sotto una finestra, i respiri rochi, la paura tratteggiata sui loro visi stanchi e provati.
Per un solo secondo, c’è un silenzio perfetto: sembra che il mondo si sia fermato a posare per un singolo fotogramma, che racconta una storia confusa. Dopodichè, la vita riprende.)

“putaaaaaaAAAAAAAAAA VETE A LA MIERDA! VETE A CHUPARLA…que te jodan LOS HUEVOS! ME CAGO EN LA PUTA PERRA QUE TE Pariò…ooooOOOOOOO….”

“Dio…Dio…”

“Stai calmo. Sei ferito?”

“Non credo…no…Oh dio, siamo fregati…”

“Respira lentamente: non ci hanno ancora preso. Niente panico.”

“…llllegarà EL DIA EN CUAL MEARE’ EN LA BOCA DE TU PUTA MADRE! Voy a rasgarte los ojoooooouuuuuuuuuuUUUUUUUUUUUU…..”

“Ehy, vecchio! Anche tu! Datti una calmata!”

“L’hanno colpito, povero bastardo…guarda quanto sangue…è solo un contadino, stava spaccando legna quando siamo arrivati…”

“Deve stare zitto. Non riesco a pensare…”

“OOOOoooooo…joder jodER JODER…….”

“Perchè non sparano? Perchè non entrano?”

“Non lo so. Spostati, fammi guardare fuori…porci. Senti, hanno visto entrare solo noi tre. Forse pensano che sia un nostro rifugio. Non sanno quanti siamo…Sanno solo che siamo brigatisti, e tanto gli basta per ammazzarci una decina di volte di seguito.”

“Allora…”

“Allora niente, stanno circondando la casa, poi ci chiederanno di arrenderci e uscire, e se non lo faremo daranno fuoco a noi, alla casa e a tutto il bosco. Dobbiamo pensare a qualcosa, in fretta.”

“Credi che al campo abbiano sentito gli spari?”

“E da che parte sta il campo, ci siamo persi ricordi? E poi è probabile che abbiano già abbandonato tutto e stiano ripiegando verso Murcia. La guerra è finita, compadre. Resta solo da salvare la pelle ormai.”

“Merda…dio…”

“Senti…”

ME CAGO EN LA VUESTRA PUTA GUERRA! A TOMAR POR CULO TODOS!”

CALLATE, POR DIOS! HAY GENTE QUE INTENTA SOBREVIVIR AQUI’!”

OOOOooooooo….”

“Ascolta, vai dal vecchio, calmalo, senti cosa sa, basta che la smetta di gridare. Io controllo quelle due porte e do un’occhiata alla casa, vedo se trovo qualcosa di utile. Stai lontano dalle finestre…”

“Qualcosa di utile? Cosa, un forcone? Ci saranno almeno cinquanta franchisti, là fuori, maledizione! Che hai da sorridere?”

“Non mi dispiacerebbe un po’ di vino rosso, prima di crepare. Vado, pensa al vecchio. Stai attento.”

“Ehy, abuelito…ssccch, calma, fammi vedere…cristo quanto sangue…stai fermo, maledizione! Tento di tamponare la ferita…”

“Ci sono delle scale qui! Forse una cantina. Scendo a vedere.”

“Va bene. Sbrigati, questo fra poco schiatta…dio…”

No…no hay nada por allì…no hay…

Tranquilo, vecchio…non siamo ladri, cerchiamo solo di uscire da questo casino…ci dispiace di averti coinvolto…”

Las manos…quieren ver…de lejos….ooohh….”

“Le…mani? Di che parli? C’è qualcuno di sotto? Nascondi della gente? Rispondi!”

Dejame, gillipollas! No teneis idea de lo que pasa… hahaa…Esta guerra es broma…todo el mundo es broma…hay que jugar, no? Hahaa…”

“Ma di che cazzo parli, cristo! Ehy! EHY! No…”

(Il vecchio si ferma a prendere fiato, ma di fiato non ce n’é. Il respiro gli muore in gola, e di lui restano solo due occhi azzurri sbarrati, e una barba bianca velata di sangue. Il soldato gli resta inginocchiato affianco, e forse vorrebbe piangere, ma dei rumori fuori, ormai vicini, lo fanno scattare. Corre basso fino alla porta: delle scale di legno marcio scendono fino ad un pianerottolo. Non c’è illuminazione, ma da dietro l’angolo arriva a intermittenza una flebile luce violacea. Il soldato chiama il suo compagno, prima piano, poi un po’ più forte. Nessuna risposta. O forse sì. Arrivano delle voci dal basso, molte voci, ma flebili, sfuggenti, come se sussurrassero, e non si capisce la lingua. Strane visioni assurde e velocissime si insinuano nella mente del soldato, senza capirne il motivo immagina un uomo con le dita lunghissime, forse metri, dei treni neri che corrono nel deserto, e altre cose, troppo assurde e troppo veloci per essere capite subito, e…

Ora i rumori sono molto vicini, qualcuno sta armeggiando con la porta. Il soldato resta così per qualche lunghissimo secondo, preso tra due fuochi, da una parte la paura della morte, dall’altra una paura diversa, sconosciuta, indifferente quanto l’universo.

Comincia a scendere, e divenne un’altra storia.)

Kire

Geografia del Disagio

Qualcuno cantava, distante. Non distingueva le parole, sembrava più una voce femminile, un po’ ruvida, che scivolava e risaliva lungo una melodia di qualche tipo, forse orientale.
Si affacciò al balcone, tentando di capire meglio, ma il vento si alzò all’improvviso e portò via con sè le note, nascondendole nell’aria, come polvere sotto un tappeto. Lasciò perdere, e tornò nella stanza.

C’era puzza, lì dentro. Odore di decomposizione.

Camminò lentamente intorno alla grande tavola imbandita. Si affacciò sopra lo schienale di ogni sedia, afferrando spalle flaccide e tirando su ricordi putrefatti e vestiti a festa, rimettendoli seduti composti, come dovevano stare. Ma non fece in tempo a finire il giro che il primo ricordo si era già afflosciato nuovamente, diventando una grottesca caricatura di sè stesso, un arazzo dai colori resi sbiaditi dal fumo di troppi incensi offerti. Sbuffò. Quei ricordi non significavano più nulla. Era stanco di giocarci. Girò i tacchi e uscì dal salotto della memoria, deciso a fare due passi per schiarirsi l’umore.

Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò davanti a due enormi vetrate verdastre, sporche ed appannate, macchiate qua è là di grigio e di nero. Una discreta folla bisbigliante stazionava davanti alle due aperture. Si incuriosì, e si alzò sulle punte dei piedi, cercando di vedere quello che succedeva fuori.
Rimase così per qualche mese, in preda ad uno sconcerto crescente. C’era una sola parola che riusciva a riassumere l’intraducibile orgia di segnali che filtravano attraverso il vetro, e quella parola era Follia. In ogni colore, lettera, numero, gesto, idea, sfumatura, innocenza, pericolsità, risata, lacrima, bisbiglio, urlo, silenzio, la Follia regnava smandibolando su un trono invisibile di corpi incatenati, idee vaganti, sabbia e saliva, rossastra e secca.

Rabbrividendo, come svegliandosi di colpo da un lungo sonno agitato, cominciò ad indietreggiare, sforzandosi per comandare le gambe ormai addormentate che minacciavano di farlo cadere. Salì su un treno a caso, con il solo impulso di partire, fuggire, allontanarsi il più possibile da quella diometrica realtà cacofonica di agglomerati di vita, giganti meccanici e dementi, vestiti con pellicce puzzolenti e stracci di speranza e

Si addormentò, durante il viaggio. Forse sognò qualcosa di migliore, ma quando il trenò si fermò cigolando e svegliandolo, già non ricordava più nulla. Scese e capì di essere vicino al cuore: tirava un sottile vento freddo, e ogni tanto il suolo era colpito da profonde vibrazioni, costringendo il confuso viaggiatore ad aggrapparsi ad appigli casuali per non cadere. Non c’erano entrate, o almeno non le vedeva; appoggiando l’orecchio alle pareti scure, fu piacevolmente pervaso da un vago tepore, e grande fu il disappunto quando lo strapparono via da lì per poi spingerlo giù da un ciglio, chiudendogli la testa dentro un sacchetto di nylon, e più cadeva e più mancava l’aria e più si alzava la rabbia e

e più ti incazzi più sei calmo e quella pelle è così diversa e riesci a vedere le cose come non sono e l’oceano mangia sè stesso e l’esplosione ti annienta e i sensi si dilatano per contenere il passaggio dell’universo e il primo respiro che fai è il primo respiro della tua vita, e a quel punto non te ne frega più niente di chi sei tu chi sono gli altri, lasciatemi morire, non lo so, ci vediamo dopo.

Quando si riprese, era disteso per terra. L’erba corta gli solleticava il collo, e quando si mise a sedere non capì dov’era, non c’era niente, non era giorno, non era notte. Sentì di nuovo quella musica distante, quella un po’ ruvida forse orientale. Si incamminò in quella direzione, un po’ stralunato, un po’ incuriosito, e chissà che fine fece.

Ki