L’opinione del vento

Un crepuscolo di un numero incomprensibile di anni fa, dentro una realtà in fondo non così diversa dalle altre, un giovane artigiano vagabondo di nome Antes raggiungeva arrancando la cima di una delle ventuno colline deformi che appannavano gli orizzonti della città perplessa, conosciuta anche con il nome di Aequum.

Antes era una creatura che aveva conosciuto molti passi, ma non si era mai ancora avventurato negli interrogativi delle Regioni Annerite, di cui Aequum faceva da capitale e ambasciatrice. Si era ritrovato da quelle parti più per caso che per reale interesse o necessità, e ora emozioni contrastanti bagordavano nel suo stomaco mentre da sopra la collina osservava lo spettacolo incerto della città perplessa al tramonto. I suoi occhi rincorrevano la luce che inciampava sui contorni sfuggenti di tetti e torri, mentre i suoi pensieri ritornavano a una conversazione avuta appena la notte prima con un neonato di passaggio, ai piedi della collina.

“Sei diretto in città.”, aveva inciso il neonato nella sabbia, usando un ramoscello, “Spero tu sappia quello che fai.”

“In realtà non ne ho idea”, aveva risposto Antes, mentre accendeva un piccolo fuoco schioccando le labbra. “Credo di essermi perso. Vengo da Quartapelle, nel nuovo nord. Viaggio cercando lavoro, ma senza una precisa destinazione. Sono capitato qui.”

Il vento fantasma urlava con ferocia mentre le due figure si accoccolavano davanti al fuoco notturno. Non un filo d’aria minacciava le piccole fiamme: solo lo spaventoso lamento dell’aria immobile, che riusciva a stordire i viandanti anche attraverso i pesanti cappucci ricuciti.

“Sembri un ingenuo”, continuò il neonato, questa volta sollevando lingue di fiamma e formando piccole parole dentro di esse, “quindi lascia che ti parli come si parla a uno di loro. Questa notte è la festa di finetempo. Questa è la notte in cui a speranze, dubbi e follie viene data la possibilità di manifestarsi nella carne e finalmente morire, per dare spazio alla nuova generazione di grida e sussurri. La Configurazione dei sogni è sospesa: non è un buon momento per cercare qualcosa diverso dal caos. Ritorna fra qualche giorno, quando i bagordi saranno finiti e i cadaveri raccolti.”

Antes ascoltò con rispetto e avrebbe voluto saperne di più, ma la litania del vento crebbe d’intensità, stritolando parole e pensieri. Il neonato d’altronde si era già coricato, dandogli le spalle e addormentandosi all’istante. Antes tentò di fare lo stesso, ma era ormai troppo tardi: qualcosa di familiare e irrazionale gli stava artigliando le viscere tirandole contemporaneamente in tutte le direzioni. Rivolse gli occhi al cielo e ai suoi abitanti, e passò il resto della notte ad ascoltare le opinioni del vento che non c’era.

Entrare in città fu spaventosamente facile. Nessuno badava a nessuno nella vivace confusione che baccanagliava nelle strade. Nulla era immobile ad Aequum; non solo abitanti e forestieri, che si affannavano a scappare o rincorrere assurde creature di ogni e nessun tipo; perfino strade, mura ed edifici scivolavano con grazia su loro stessi, unendosi in coreografie impossibili di mattoni e tegole e ciottoli, creando vertiginose geometrie in continuo mutamento. C’era effettivamente un’atmosfera di gran festa: tutti sembravano su di giri in una maniera o nell’altra. Antes andò a sbattere contro un basso ometto e quasi si incendiò la faccia sull’enorme candela accesa che gli spuntava dal cranio. Fece per scusarsi e notò che l’ometto-candela stava in groppa a un vecchietto a quattro zampe, con uno smisurato sorriso dipinto in faccia. La coppia trotterellò via ciscinchiando insieme in una lingua sconosciuta, che ricordò ad Antes il crepitio delle foglie che bruciano. Poco più in là, una donna avvolta in larghi strati di seta verde ballava appassionatamente con quella che pareva essere un’enorme lisca di pesce, giallastra e puntellata di sparuti ciuffi d’erba. Piccole creature a metà tra un felino e una scimmia saltavano allegre sulle spalle dei passanti, inseguite da un piccolo gruppo di bambini sporchi e senza denti. Antes rimase particolarmente affascinato da una giovane coppia che ballava un tango a bordo della strada principale, senza curarsi delle rispettive ombre che nuotavano libere sulle mura alle loro spalle, rincorrendosi e abbracciandosi ed esplodendo in fiori di buio. E poi, la calle dietro di loro voltò improvvisamente a destra, incurvandosi e formando una ripida salita che portava all’entrata prima inaccessibile di un edificio cilindrico ricoperto da finestre luminose di ogni forma e dimensione. La folla magnifica e bestiale cominciò a spingere con entusiasmo verso quella direzione, e Antes decise di farsi da parte per vedere cosa sarebbe successo. Ritiratosi nell’ombra calda di un vicolo laterale, avrebbe potuto benissimo restare lì tutta la notte, contemplando quel fantastico addio alle carni. E quasi si mozzò da solo la lingua, quando il vicolo girò su sé stesso e sprofondò nel terreno, riportandolo senza nessun motivo centinaia di metri più indietro, al principio della strada principale, ora deserta. Sembrava che tutta la città si stesse muovendo verso la strana torre. Fu in quel momento, grazie al silenzio, che Antes si accorse che qualcosa lo stava seguendo. Solo pochi metri più indietro, un esile profilo si muoveva goffamente dentro le pennellate di oscurità tra i lampioni ad olio. Improvvisamente, la stessa potentissima sensazione di fuoco rabbioso che aveva provato la sera prima, e ogni sera prima di quella, tornò a riempirlo; ma questa volta, invece che provenire da dentro, era emanata dalla figura nascosta.

“Chi sei? Fatti riconoscere.” chiese Antes, che pure credeva di conoscere già la risposta.

La figura avanzò, con le movenze di un randagio affamato. Era uscita dall’ombra ora, eppure in qualche modo sembrava ancora indefinita, come se la luce gli scivolasse addosso per poi gocciolare a terra. Antes riuscì a scorgere un viso vagamente femminile, ricoperto da intricate spirali che avrebbero potuto essere tatuaggi o cicatrici. Lunghi capelli del colore dell’autunno fluttuavano attorno al suo viso effimero e bellissimo, e un paio di occhi neri come gli abissi lo stritolavano in uno sguardo che decapitava il respiro.

“Parla!” esclamò Antes, “Dove sono diretto? Che cosa sto cercando?”

La figura rispose, ma non attraverso parole. Frammenti di codici primordiali attraversavano l’etere, colpendo il centro perfetto dell’anima di Antes.

“A est. Cercami a est. Non lasciarmi andare.”

“Dove…”

“NON LASCIARMI ANDARE”

Antes e il suo sogno si unirono in un abbraccio furioso e tenace, e così restarono, immobili, fino al momento in cui i primi timidi raggi dell’alba cominciarono a filtrare dalla sommità dei palazzi. L’esile figura dal viso bellissimo non si muoveva più ora, e sembrava caduta in un sonno delicato e silenzioso. Meno di un’ora dopo, Antes era uscito dalla città. Aveva raggiunto la cima di una delle colline, e si concesse un ultimo sguardo alle spalle. Perfino da li sopra, poteva scorgere la torre cilindrica e la strada principale, seppellita sotto centinaia di minuscole sagome immobili. Sospirò, chiedendosi che cosa fosse la sensazione completamente nuova che si stava facendo strada dentro di lui.

Scrollò le spalle, e si diresse verso ovest.

Kire

Gli occhi nudi

Un certo numero di primavere fa, quando ero giovane e non ancora schiavo di un futuro qualunque, ricordo che mi trovavo sopra un tetto, impegnato in alcuni semplici lavoretti. Stavo pulendo una delle grondaie quando, come si dice all’improvviso, incappai in un uccellino nato da poco, abbandonato a sé stesso in quelli che sembravano i resti di un nido d’erba tra i detriti. Non so che tipo di uccello fosse, so che era profondamente brutto. Aveva un corpicino rosa e minuscolo, sproporzionato, con un becco assurdamente ricurvo e questi occhioni enormi, spalancati, eterni. Si agitava flebilmente urlando senza una voce e senza sapere bene perchè, lo presi in simpatia. Con un amore e una cura che non mi appartenevano costruii per lui un giaciglio dentro il mio cappello, poi lo spostai in un angolino sicuro del cantiere, vicino a degli alberi in fiore che si godevano il vento. Il pomeriggio di lavoro continuava e io di tanto in tanto tornavo dall’uccellino per controllare come stesse. Non avevo idea di come ci si prendesse cura di una creatura simile. Con una certa goffaggine tentai di nutrirlo con delle ciliege, che sembrò apprezzare molto. Si muoveva freneticamente ora e sembrava ingrassare di vita ad ogni beccata. Quando arrivarono le cinque, misi via gli attrezzi e tornai dal mio nuovo amico. Rimasi per un po’ a guardarlo e poi lo lasciai cadere dentro un canale di scolo. Spolverai il cappello e me ne tornai a casa.

Nei dodici anni che separano quel pomeriggio dal giorno in cui scaricai il cadavere di Madeira nelle acque nere del Clyde, non avevo mai ripensato una sola volta a quegli occhi nudi che urlavano. Ora non riesco a togliermeli dalla testa e non riesco a fare a meno di pensare che avrei potuto fare di più, anche se probabilmente era meglio di no, anche se poi non sarebbe cambiato niente.

Avrei potuto fare di più, anche se forse era meglio di no, anche se poi non sarebbe cambiato niente.

(Frammento tratto da: La legge dei cani)

Kire

Ora d’aria

“Allora, manca ancora molto?”

La Razionalità parlava con tono sprezzante, deciso, e pure un po’ seccato. Sebbene fosse una giornata tranquilla senza grossi impegni, la sua scrivania su su al terzultimo piano restava più che ricoperta di scartoffie arretrate da sbrigare. Umori e sentimenti le facevano sempre perdere un sacco di tempo, e la cosa peggiore è che non c’era modo di liberarsene.

“No?”

rispose il Dubbio con la sua voce antica e galleggiante.

“Dovremmo essere quasi arrivati…ma qui sotto non si sa mai con certezza, giusto?”

Lo stretto corridoio costringeva le due figure a camminare in fila, il Dubbio in testa, con il solo naso raggrinzito che spuntava dalla tonaca e fendeva la luce fredda e pigra emanata dai neon sul soffitto. Le pareti ospitavano due file di porte bianche a intervalli irregolari, tutte ben chiuse e silenziose, come la Razionalità si compiaque di osservare. Si sforzò di non pensare alla cacofonia di pianti, risa, urla, canzoni e maledizioni che in realtà si stava svolgendo dietro quelle porte. L’insonorizzazione funzionava alla grande, e tanto bastava.

“Eccoci, sorella.”

Quasi andò a sbattere contro la schiena del Dubbio che si era fermato improvvisamente di fronte a una delle porte, spalancata verso l’interno: solo una piccola stanza completamente vuota, le superfici in ceramica bianca ricoperte da innumerevoli schizzi di sangue, sia casuali sia organizzati in complesse immagini e frasi.

(per stillicidia emittere animam)

La Razionalità le osservò una per una, mentre il Dubbio cominciava il suo monologo di risposte a domande che galleggiavano nell’aria.

“Ambizione. Qui da qualche anno…sette? Forse dieci. Malata. Instabile. Pericolosa? Si è provato a contenerla con guinzagli e ammonimenti, ma è diventata solo più aggressiva. Dopo un violento alterco con un compagno, venne deciso di rinchiuderla qui. Se questo è un qui. Questo posto in fondo nemmeno esiste, no?”

(chi domanda timorosamente insegna a rifiutare)

“Quale alterco?”

“Futili motivi. Il Buonsenso la stava canzonando. Disse -se dovevi farcela ce l’avresti già fatta-, o qualcosa di simile”

“E lei?”

” Gli strappò via la gola e poi cercò di violentarlo. Non si è mai ripreso del tutto, poveraccio.”

(Se attacchi un Re, poi devi ucciderlo)

“Come può essere fuggita?”

“Non si sa? Non lo so. Tua è la caccia a risposte e prigionieri. Mio è il compito di sorvegliarti. Odio il mio lavoro.”

“Sorvegliare ME? Avresti potuto_”

La prima scossa li sorprese con una violenza che andava oltre il fisico vacillare e l’appoggiarsi alle pareti per non cadere. Era una violenza concettuale, l’assistere a qualcosa che non poteva succedere. Una sottile sensazione di movimento cominciò a mordere i contorni della realtà.

“Ci stiamo spostando”, squittì il Dubbio, “L’Omni passeggia! Non è possibile, eppure è. Eccezionale!”

“Silenzio, mangiasonno!” tuonò la Razionalità. “Non so come, ma qualcuno ha profanato il tempio. Dobbiamo salire all’ultimo piano, subito! Dobbiamo correre più veloce della realtà per restare fermi!”

La seconda scossa ruggì la sua soddisfazione mentre correvano a ritroso nel corridoio. Altre porte vennero strappate dai loro cardini mentre i più temerari e disperati tra i prigionieri cominciavano a uscire dalle loro celle. Il ricordo di un amore perduto ballava cieco e nudo bloccando il passaggio: la Razionalità lo colpì allo stomaco, con violenza, togliendolo di mezzo ma senza ucciderlo. Tozzi rimorsi barbuti strisciavano fuori, le unghie sporche e lunghissime bramose di conficcarsi negli occhi di qualche giovane speranza; da dietro, splendide paure e orribili consapevolezze di ogni tipo avanzavano veloci e affamate verso un’indifferente libertà. Il Dubbio e la Razionalità lottarono insieme con ferocia, riuscendo a malapena a uscire incolumi dal dedalo dei sussurri notturni, e salirono su su lungo le scale dipinte che portavano all’ultimo piano, mentre le scosse si facevano sempre più potenti e ritmiche.

La trovarono lì, in punta di piedi sullo strapiombo, immobile, lo sguardo rivolto verso dove prima c’erano le porte del tempio, ora spalancate per la prima volta da tempo immemore. Fuori, l’incomprensibile vorticare del Mare esterno divorava sè stesso mentre urlava le sue domande all’eternità, senza curarsi di eventuali risposte.

“Guarda chi c’è. Il figlio bastardo della Conoscenza e la regina zitella truffatrice dei sensi. Benvenuti, figuranti! Un bel venticello oggi, non trovate? Ottimo per fare due passi!”

Calma e sinuosa, così suonava la voce dell’Ambizione. E per un attimo, un intenso lungo attimo carico di eventualità sembrò che le cose si potessero davvero incastrare con eleganza in un finale soddisfacente.

L’Ambizione non fece due passi, non saltò fuori. La sua esile figura non scomparve tra le maree dell’entropia sottostante, trascinando con sè l’intero tempio. Le porte maestose cominciarono a richiudersi lentamente, mentre le scosse diminuivano di numero e intensità. Si voltò e si diresse verso dove era venuta, passando in mezzo al Dubbio e alla Razionalità senza degnarli di uno sguardo.

“Volevo solo un po’ d’aria fresca”, disse. “Ora torno giù a sanguinare. Se vi servo, sapete dove trovarmi.”

Tutto era immobile, di nuovo, com’era giusto che fosse.

 

Kire

 

 

Ora d'Aria - by Anna (theannuz@gmail.com)

Ora d’Aria – by Anna ([email protected])

Settecentosettantasette

Stava pensando ad un nuovo racconto, e decise di partire dal cattivo. Cercò di immaginarsene uno azzeccato, quel tipo di cattivi che non puoi realmente sconfiggere ma al massimo rallentare, quelli che danno alla storia quel senso di epicità misto a disperazione, dove in fondo sai che finirà male, tutto potrebbe fermarsi alla prima riga evitando un sacco di confusione inutile: i personaggi non soffrirebbero, lo scrittore potrebbe investire il suo tempo in qualcos’altro (ugualmente inutile ma meno stancante, come ad esempio ubriacarsi), e soprattutto l’eventuale lettore potrebbe schivarsi qualche minuto di noia, ed andare ad annoiarsi in qualche salotto più sfarzoso.

Un cattivo così. Gli unici veri cattivi che esistano.

Non riuscì a trovare nulla di più potente, feroce ed indifferente della futilità.

Tenta di visualizzarla con fattezze umane e adulte, in modo da poterla magari inserire in un normale contesto sociale, ma non ci riesce. Gli arrivano solo rapidi flash, fotogrammi sconnnessi e scollegati tra loro, come se una qualche divinità ebete stesse saltellando nella pozzanghera della fantasia umana e lui fosse li di fianco, a prendersi le gocce di fango sulla fronte corrucciata e sulle palpebre chiuse.

Immagina una specie di neonato, immobile. Sembra quasi normale, a non voler notare il suo sguardo innaturalmente consapevole, attento ed annoiato allo stesso tempo. Le sue pupillle sono di un grigio chiarissimo, quasi bianco, e sembrano fondersi con delle iridi dello stesso colore, schiacciate tra due sipari di sottili vene rosse. Bianchi sono anche i pochi ciuffi sparsi di capelli, lunghi fino alle piccole spalle. Ha una cicatrice a spirale sulla narice destra. E’ completamente nudo, come sembra giusto che sia un neonato, e siede su un’anonima sedia a rotelle da ufficio che riesce a muovere ovunque a suo piacimento. Ma il più delle volte non si muove affatto. Perchè la futilità c’è sempre, ti osserva da lontano giudicandoti silenziosamente, ma raramente entra in campo di persona. Di solito, i suoi tre figli adulti preferiti sono più che in grado di farcela da soli, quando si tratta di scoraggiare, sminuire e infine distruggere la Creazione.
Paura, Insuccesso ed Apatia sono già tre moschettieri perfetti, sicari discreti e navigati , figli laboriosi ed instancabili che rendono immensamente fiero quello che ormai è un padre neonato talmente pieno di lavoro da non poterne più.

Bene, aveva il cattivo e i suoi sgherri. Ora doveva solo ad un protagonista adatto. Se inserito nella giusta scenografia, non servirà nemmeno inventarsi una trama. Metti vicino due cose totalmente potenti ed incompatibili, e non avrai bisogno di trovare dei motivi per giustificare il loro scontro. Si combatteranno semplicemente perchè non possono fare altrimenti. Nessuna morale, nessun sotterfugio: solo grida, sangue, e soddisfazione per i colpi andati a segno, quale che sia la tua squadra preferita.

Inizialmente pensa ad una rappresentazione della fantasia, ma l’ha già usata per la pozzanghera. E poi non vuole qualcuno di così bizzoso e scostante. Non vuole nemmeno un eroe, o qualcuno con dei forti principi. Vuole un protagonista solido e compatto, un figlio di puttana potente, testardo e incazzato, qualcuno che una volta chiamato al cospetto della futilità sia in grado di sbadigliare e pisciargli sulle scarpe, o piccoli piedini nudi che siano.
Passa in raccolta la sua collezione di figurine di convenzioni cosmiche, ma non trova niente di adatto. Allora sceglie di crearne una nuova: una sporca fusione tra la Rabbia e il Talento. Per ora visualizza solo una figura alta, vestita di stracci pieni di polvere elettrica. Ha una specie di cappello da mandriano, ma largo come un sombrero. Ti verrebbe quasi da ridere, ma poi ti soffermi sul viso nascosto dal naso in su, e scorgi quel mento pieno di cicatrici, quelle labbra sottili e screpolate serrate in una smorfia che sembra stia trattenendo la geometria dell’inferno, e ti passa la voglia di ridere, e sì fa paura, ma non ti trasmette un senso di pericolo, ti trasmette piuttosto un senso di: sei in mezzo, spostati, per favore, altrimenti ti strappo l’anima e mi ci soffio il naso. Un senso di: dai seguimi, sono simpatico, vieni a vedere come muoio.

Pensò che forse era un inizio. Pensò che, ad un livello primordiale, puzzolente e belante, forse aveva abbastanza materiale per provare a scrivere quella storia.

Pensa, che ci sono un sacco di pensieri che gli faranno da inchiostro, e un sacco di giorni che gli faranno da fogli bianchi. Pensa che una penna è molto più pesante di una bottiglia, ma ehy, le cose pesanti sono rassicuranti.

Pensa che finirà male, ma non gliene frega un cazzo. C’è qualcosa che lo guarda da distante, qualcosa seduto su una sedia.

Lui sbadiglia, e comincia a scrivere.

Kire

Le Coiffeur

Appoggiò la mano allo specchio appannato, la lasciò scivolare lentamente verso il basso. Si vide riflesso nelle strisce sottili lasciate dalle sue dita, ed era buffo, era come vedere un altro se stesso, imprigionato in un altro mondo, quasi uguale, ma non del tutto.

Non del tutto.

Il piccolo bagno affogava nel vapore caldo proveniente dalla doccia, dove (…Claudia?) si stava risciacquando i capelli, cantando una canzone francese. Lui non la conosceva, né capiva le parole, e nemmeno gli piaceva la sua voce. Tornò nella camera d’albergo.
Rovistò nel frigobar, si versò un dito di whisky e si accese una sigaretta, che venne quasi spenta dalle gocce vivaci che gli sfuggivano dai capelli bagnati. Si appoggiò con la schiena alla finestra e rimase lì a pensare. Che cosa succedeva ora? Doveva dare un’altra passata alla studentessa? Doveva fingersi addormentato, e aspettare che lei lo seguisse?

Una valeva l’altra. E poi?

Poi, avrebbe fatto quello che doveva fare.

Perchè è così che doveva andare, no? Certo, avrebbe potuto prendere le sue cose e uscire, così, senza una parola, camminare per le strade ammiccanti di Parigi, aspettando un’improbabile alba. Diamine, avrebbe potuto perfino restare, e dormire davvero con lei, tranquillamente, magari tenendola pure tra le braccia, fare colazione insieme il giorno dopo, e poi…
Fermò i pensieri, stizzito. Quella era l’altra parte dello specchio. In questa parte, le cose andavano un po’ diversamente.

Solo un po’.

Senti sbiadire il canto, quello umano e quello dell’acqua corrente. La ragazza sarebbe tornata a momenti. Si distese a letto, spostando la sua borsa vicino al comodino. Diede un’occhiata veloce al suo interno. C’era tutto: L’etere, il rasoio, le forbici, la piastra, e tutti gli altri suoi giocattoli.
Soffocò una smorfia distorta di piacere, si distese e chiuse gli occhi. Sentì la ragazza entrare nella stanza, sdraiarsi di fianco a lui, percepì la sua esitazione, il suo respiro stanco.

Aspettò che cominciasse il suo viaggio. Aspettò il buio.

Il mattino dopo, una giovane studentessa di giurisprudenza di nome Claudia camminava velocemente e nervosamente nei vicoli di Montmartre. Indossava una giacca a vento e un pesante berretto di lana, che stonavano un po’ nella luminosa giornata primaverile. Era diretta alla gendarmerie che distava solo due isolati, ma più si avvicinava, più il suo passo diventava incerto. Ora che la prima ondata di sdegno e furore era scemata, cominciava a pensare in modo razionale. Che cosa avrebbe raccontato ai flics? Che la notte prima era ubriaca in un pub e aveva rimorchiato uno straniero strano con una faccia triste di cui aveva già perso i lineamenti nei fumi del mattino? Che ricordava solo vagamente di averlo portato in uno squallidissimo albergo e di averci scopato chissà quanto e come? E poi? E poi…dio mio
Sentì la rabbia raffiorare di nuovo, come un predatore sul collo di una bestia ferita, e dovette fermarsi. Si appoggiò alla vetrina di un negozio di elettrodomestici, e solo dopo qualche secondo si rese conto del suo riflesso che la guardava sconcertato. Il mondo intorno smise di esistere. Si tolse il berretto, lasciandolo scivolare lentamente di lato. Ora osservava di nuovo quello che rimaneva del suo cuoio capelluto, che fino a ieri era florido di una folta e lunga cascata di ricci e selvaggi capelli biondi, di cui era sempre andata fiera. Poteva vedere ancora l’ombra della loro lunghezza, dato che alcune ciocche isolate erano rimaste intatte. In altri punti i capelli erano stati tagliati
(violentati?)
di varie misure diverse, senza nessun criterio. Molte parti, come appena sopra l’arcata fontale, erano state rasate a zero in modo uniforme. Altre parti, sparse qua e là, erano state lasciate di media lunghezza e ora si presentavano lisce e candide, come se fossero state passate dentro una piastra
(cosa?).
La parte sopra la nuca era stata rasata ma le prudeva in modo strano, come se l’avessero azzerata con un rasoio. Piccoli aliti di profumo, che sembrava balsamo al cocco, le passavano fugacemente sotto le narici prima di perdersi nel vento.
(Ma quanto bisogna essere folli?)
Nel complesso la sua immagine, complice anche la sua espressione, ricordava quella di una vagabonda dopo una guerra nucleare. Era un mostro.

Cominciò a piangere, e questo la fece ritornare alla realtà. Alcuni passanti si erano fermati e la fissavano preoccupati. Claudia si rimise il berretto e riprese frettolosamente il passo, ma ora non più diretta verso il commissariato. Non ne valeva la pena: non avrebbero fatto nulla di concreto, e lei si sarebbe solo umiliata molto più di quello che già a stento sopportava.

No, i capelli sarebbero ricresciuti; ma su quel figlio di puttana sociopatico sarebbe stata lei a mettere le mani. Non l’aveva solo deturpata e offesa: si sentiva violata in un modo così intimo da provocarle dei conati, come se fosse stata stuprata. Sì, non sapeva come, ma lo avrebbe ritrovato lei stessa; e si sarebbe divertita un mondo.

Soffocò una smorfia distorta di piacere, e ritornò sui suoi passi verso l’albergo.

Kire

Crescere

Un bel giorno, mentre passeggiava per strada, la Sensibilità di una persona conobbe per caso un educato e distinto giovanotto, appartenente alla tanto discussa stirpe dell’Eventualità.

Si piacquero subito; e dopo un breve e intenso corteggiamento denso di spettacolari emozioni danzanti, si ritirarono in una mansarda semibuia e appartata, e lì vissero una notte di fuoco, amandosi con delicatezza e passione e istintiva forza. All’alba il giovanotto lasciò la stanza e andò per la sua strada per non tornare mai più, lasciando la Sensibilità sola ma non ferita, abituata com’era ai brutali meccanismi della Creazione.

Come spesso succede la sensibilità restò incinta e, sempre adagiata nella piccola mansarda, partorì in fretta e furia una piccola idea. Da madre esperta ma indifferente qual era, cullò e nutrì la piccola neonata il tanto che bastava per non farla morire di stenti, e poi la abbandonò, per tornare nel mondo, a cercare altri amanti.

La piccolina aveva suo malgrado un’indole forte, e dopo un iniziale attimo di smarrimento, cominciò a camminare fiera. Viaggiando e vagando per le sterminate città della mente, nutrendosi come e dove poteva e stringendo passeggere amicizie con i pensieri che le abitavano, la piccola idea cresceva e imparava, faceva errori e soffriva, guadagnandone in forza e personalità, imparando a rispettare i suoi limiti, e allo stesso tempo a coltivare la sua ambizione. Divenne abbastanza furba da capire come evitare le pattuglie della Razionalità e del Giudizio, che l’avrebbero sicuramente arrestata e portata a marcire nelle prigioni dello Sconforto; quando si sentì abbastanza matura e allo stesso tempo stanca di vivere in un mondo tanto magico, quanto effimero e crudele, come quello della Fantasia, la piccola idea, ora non più così piccola, decise di partire.

Raccolse i sui pochi vestiti e tutto il suo coraggio, e si presentò ai confini del Pensiero.

Lì si imbarcò clandestinamente in un treno velocissimo e mutevole di processi chimici e fisici, e si trasformò, da impulso elettrico ad energia pura, e viaggiò veloce veloce, guadando fiumi di sangue e calandosi da montagne di muscoli e fibre nervose, fino ad arrivare finalmente alle vette più alte e sdrucciolevoli delle dita, e lì forse si fermò un attimo a riprendere fiato e coraggio, ad osservare lo sterminato quadro della Realtà che si stagliava oltre l’infinito strapiombo di fronte a lei.

Quando si sentì abbastanza pronta, quando si sentì abbastanza folle, chiuse gli occhi e si lasciò cadere.

Cadde, in pace, senza sapere più cosa fosse, senza sapere se sarebbe sopravvissuta al volo, cadde a lungo, gustandosi il vento dell’improbabilità che le scompigliava i capelli.

Cominciò a scorgere un mare bianco e perfettamente calmo, sotto di lei, che si avvicinava sempre di più. E poco prima di infrangersi, fu catturata al volo da una torre enorme e nera e cilindrica, che rallentò la sua caduta e sezionò con gentilezza il suo essere, trasformandola in piccole molecole d’inchiostro sparse, che poi planarono ballando, adagiandosi sulla superficie immobile del mare bianco, diventando onde di parole che si espansero piano fino alle spiagge ai bordi del foglio, riempendo il mare di carta anonimo e movimentandolo con tempeste e brezze gentili, quello stesso mare che poi si trasformò ancora e ancora pur rimanendo lo stesso, e che è lo stesso in cui voi state navigando ora.

La piccola idea ora è diventata realtà, e passeggia nel mondo, e forse chissà, forse anche lei un giorno conoscerà qualcuno, e amerà o verrà amata, e avrà a sua volta dei figli.

Non ha importanza il futuro; la piccola idea ora è felice, e vive dei vostri sorrisi tanto come dei vostri sbadigli.

Questa è la sua storia; grazie per averla respirata.

K

Viaggio di un Simbolo

Una volta era un Re, e si vestiva sempre di nero.

Aveva un gran cappellaccio sproporzionato da cui spuntava ogni tipo di onirico ghiribizzo, tra cui una croce storta e traballante, e antiche frasi ricoperte di polvere bagnata.

Per anni aveva regnato sul suo piccolo feudo, un fazzoletto di terra e legno nella foresta, dove viaggiatori di ogni tipo si fermavano a riposare, a raccontare e ascoltare storie in strane lingue.

Al sovrano piaceva apprendere frammenti di regni lontani; e ringraziava i viaggiatori intrattenendoli con visioni di epiche battaglie e il calore di fuochi saggi, che raccontavano crepitando la leggenda del mondo.

Come ogni re che si rispetti si muoveva lentamente, un passo alla volta, e i suoi passi erano pieni di grazia calcolata tanto quanto di sfrontato timore, dato che si muoveva solo quando realizzava di essere in pericolo. Scappava all’indietro, guardando negli occhi il suo nemico, senza perderlo mai di vista, senza seminarlo mai.

Aveva combattuto e perso abbastanza battaglie da sapere che non avrebbe mai saputo fare altro, e fuggiva la pace perchè temeva che l’avrebbe reso inutile e dimenticato.

Fu rapito in una sera strana, leggera e chiarissima, con una luna piena come mai si era vista. Grandi banchi di nubi violacee si avvicinavano a lei da destra e sinistra, come se un enorme sipario si stesse per chiudere sul palco del cosmo. Quando la luce fu bandita, il sovrano era sparito.

Fu costretto a partire solo, verso mete casuali, terre che non aveva mai sognato. Anche se non lo vedeva e non lo sentiva, percepiva chiaramente che qualcosa di sconosciuto guidava il suo pellegrinaggio. Ma cosa? Un’idea, un malocchio, gli Dei? Inutile chiederselo. Il Re solitario viaggiava, imparava e dimenticava, e faceva degli errori.

Una sera, mentre si pavoneggiava davanti alle luci economiche di una stanza d’albergo di periferia, perse l’equilibrio e cadde nella notte. La pioggia era qualcosa di totale, e cancellava quelle pochissime percezioni riuscite a sfuggire al buio. Cadde per un tempo lunghissimo, e finì con l’infrangersi nei punti più improbabili del dimenticare. Lì sarebbe rimasto a marcire in buona compagnia, se qualcosa non si fosse messo tenacemente alla sua ricerca, ritrovandolo in una pozzanghera brontolona. Quattro occhi luminosi e scattanti si posarono su di lui. Era lo stesso qualcosa che aveva consigliato i suoi passi? Il Re non lo sapeva, ed era troppo occupato a soffrire per rifletterci. La caduta lo aveva ferito nel profondo: il suo cappello si era rotto, la croce si era spezzata, ed il suo sguardo era un pozzo di cicatrici. Ma in fondo era pur sempre un re, e non si è mai visto un re arrendersi di fronte a inezie come un’anima strappata. Il tempo di recuperare le forze ed era già di nuovo in viaggio, migliaia di chilometri distante da quella pozzanghera.

Ora il piccolo Re vive solo, in una capanna di campagna dal tetto di lamiera e dai muri di parole.

Nelle belle notti scrive poesie di gesso e dorme all’aperto, vicino a una fontana morta che ogni tanto si risveglia di colpo, tossendo stanche lingue di fiamma che durano il tempo di un respiro.

Se la luna glielo permette, alza la tesa del cappello stracciato e guarda lontano.

Traccia strategie sulla cenere con un ramo di ciliegio, pensa a dove sarà domani,

e sogna di sanguinare ancora.

 

( Nota assolutamente inutile: una notte trovai un pezzo degli scacchi in un luogo lontano e interessante, e lo portai con me. Questa potrebbe essere la sua storia, vista attraverso i suoi occhi. Oppure potrebbe essere la mia vita, o la vostra, o quella di nessuno. Comunque sia, mi piace l’idea che anche un piccolo pezzo nero di plastica, rotto e spezzato, possa sognare. Ciao.)

Kire

Come uno specchio nervoso

“Una volta pensavo che gli uccellini cantassero perchè tutto va bene nel mondo. Ora invece so. Cantano perchè sono stupidi.”

Le parole uscivano in maniera strana dalla vecchia bocca, come se una volta arrivate alla soglia delle labbra rallentassero spaventate, per uscirne poi sospettose e sofferenti, stridule e sussurrate.
Al ragazzo sembrava di aver già sentito o letto da qualche parte una frase simile, ma non ricordava dove, e lasciò perdere. Guardò meglio il vecchio, che ora taceva fissando l’oceano inquieto.
Era un anziano signore sulla sessantina, di aspetto vagamente simpatico. Radi capelli bianchi pettinati all’indietro, un paio di occhiali con le lenti circolari e una barbetta bianca ben curata che gli ricopriva mento e guance. Camicia a mezze maniche e pantaloncini, sempre bianchi. Nel complesso sembrava un turista anzianotto dall’aria ingenua e bonacciona. L’unica cosa che stonava in lui era quella sua stranissima voce, simile a quella di un bambino giapponese con un proiettile in gola.
Il ragazzo l’aveva trovato su una panchina, mentre vagava sul lungomare pensieroso e senza una meta. Qualcosa, o forse proprio l’assenza di qualcosa, lo aveva spinto a sedersi accanto a lui.
Mentre pensava a qualche banalità da dire, forse a presentarsi, il vecchio aveva parlato per primo, stupendolo con quella sua strascicante parlata.
Che ora, di nuovo, si insinuava in lui grattando sulle pareti del suo udito, facendolo sottilmente rabbrividire.

Parli inglese, suppongo.

“A volte. “

Turista? Di dove?

“Diciamo che sono di passaggio. Vengo da lontano.”

Oooh..anch’io.

“Dicono che questo sia il punto più a est di tutto il continente. Non so perchè, ma mi aspettavo un orizzonte diverso.”

Non trovi che l’oceano sia affascinante?

“No. E’ solo acqua arrabbiata e stanca.”

Parlami della giovinezza, allora. La mia l’ho dimenticata.

“Oh, andiamo. Non puoi essere così vecchio.”

Nessuna risposta. Il ragazzo si accese una sigaretta. Si sentiva teso ma stranamente a suo agio, libero da ogni senso di controllo o diffidenza.

“La giovinezza..mah. Ti posso parlare della mia, ma non è stata poi granchè. Delle altre non so molto. Non credo di poterti intrattenere.”

Mi piacciono le storie tristi.

“E chi ti dice che è stata triste? Non lo è stata.”

La sofferenza. E’ nei tuoi occhi. E’ bellissima.

“…Cazzate.”

Di nuovo, nessuna risposta. Il ragazzò si concentrò sull’oceano agitato davanti a lui, che sembrava curiosamente adattarsi al suo stato d’animo, come uno specchio nervoso. Onde come pensieri, violenti e costanti, che si infrangono senza distruggere sulla sabbia fine della ragione, lasciando rimasugli di malinconia biancastra e viscosa.

Parlami delle emozioni, ragazzetto. Parlami dell’essere vivo.

“…C’è un piccolo fiore in mezzo a un campo. E’ un po’ isolato dagli altri, ma non gli interessa. Sta lì e si gode il sole, non si fa domande, come un fiore dovrebbe fare. Poi arriva qualcuno, e lo trova bello. Si china su di lui e lo annusa. Inizia a strappargli dei petali, interi pezzi di personalità che si accasciano planando al suolo. E poi lo lascia lì, distratto dal resto del paesaggio.
Sei a letto con una donna, sotto due strati di coperte, il calore pulsante ti avvolge, la penombra bluastra ti rilassa. Fuori piove, e la sinfonia disordinata delle gocce sulle cose ti culla, va a braccetto con la mano di lei che ti esplora lentamente la pelle, con i suoi occhi velati d’ombra che ti guardano attraverso. Tu guardi lei e ti senti riconoscente, e ti dispiace un sacco per non riuscire ad amarla, ma in fondo va bene così, state troppo bene per pensare.
E’ come guidare piano di notte sotto una tempesta, sei calmo, ascolti Ella Fitzgerald, e scruti la notte attraverso vetri e acqua, ed è così..bella. La notte è stupenda, sai?
E’ portare il tuo cane al fiume, e guardarlo per ore annusare strisciare saltare e rotolare nella natura, commuoverti per come alza le orecchie in risposto a qualche stimolo che tu non puoi nemmeno immaginare.
E’ leggere un libro, solo tu lui e il vento, e accorgerti improvvisamente che stai tremando da dieci minuti buoni, da quanto quelle piccole parole ti stanno scuotendo.
E’ come notare tracce di grigio alla periferia degli occhi di chi ami, e capire come la realtà non è una sola, come cambia in base alle carte che butti giù.
E’ maledire la tua personalità perchè ti tiene distante dal mondo, è ringraziarla in lacrime perchè senza lei non saresti nulla.
E’..”

Taci.

Silenzio. Il vecchio teneva gli occhi chiusi.

“Te l’avevo detto che ti avrei annoiato.”

Al contrario. Ho bevuto tutto quello che c’era. Oltre le parole, il linguaggio. Ho bevuto ogni frequenza della tua voce, ogni minuscolo nervoso movimento dei tuoi muscoli. Delizioso. Ma ora sono sazio. Da ubriaco tendo a diventare..maleducato. Sgradevole.

“Aha. Contento te. Brindiamo, allora. Alle emozioni.”

Mettiamo che la provvidenza perda per caso una chiave dal suo mazzo, e che tu possa trovarla. Mettiamo che tu possa esprimere un desiderio. Cosa…sceglieresti?

“Non lo so. Sceglierei di stare con una persona.”

Desideri che questa persona stia sempre con te? Qualsiasi cosa succeda? Per l’eternità?

“Eternità? Andiamo. Non so di che parli. Vorrei starci come si sta con una persona, per il tempo che ci è dato. In modo naturale.”

La natura non c’entra molto con l’esaudire desideri, ragazzetto.

“Hai ragione. Allora non voglio niente. Ti ringrazio. Sono a posto.”

La provvidenza potrebbe offendersi.

“La provvidenza può fottersi. Gli restituisco la chiave che ha perso. Sono sicuro che saprà usarla meglio di me.”

Forse lo farà.

Delle note, distanti. Una vecchia canzone proveniva da un bar lì vicino. Il ragazzo sentì il bisogno improvviso e immotivato di andarsene.

“E’ meglio che vada. E’ stato un piacere.” Offrì titubante la mano al vecchio, che la strinse con bramosia.

Il ragazzo spense la sigaretta al suolo e si alzò troppo velocemente, barcollando un po’ in avanti, poi si diresse spedito verso il paese, senza più pensare.

Se si fosse voltato in quel momento, avrebbe notato che il vecchio lo seguiva con lo sguardo, e che si leccava languidamente il palmo della mano. Qualcosa di scuro, forse un’ombra, si spostava velocemente sulla sua faccia.

Nessun uccellino cantava.

Kiree

Alla fine fu il Verbo

Bibbie. Plurale.
Fiorenzo aggrotta le ciglia, quelle del viso e quelle della mente. Cerca di mettere insieme tutto quello che sa sulla bibbia. Ok, è il libro famoso dei cristiani, con tutte le loro storie magiche e le profezie e ciccì coccò, quello lo sanno tutti.
Poi?
Ricorda una scena di un vecchio film, americano probabilmente. In questa scena un uomo entrava in una camera d’albergo, e la prima cosa che faceva era aprire un cassetto per verificare se conteneva un libro sacro. C’era.
Bene: negli alberghi, almeno quelli americani, ogni stanza ha una bibbia pronta all’uso.
Poi?
Poi, basta. Non riesce a ricordarsi nient’altro riguardante la bibbia.
Il notaio parla veloce veloce, non si ferma un secondo. Fiorenzo si sforza di seguirlo, di prendere al volo tutte quelle strane parole, ma niente da fare. Non ci si è mai ritrovato per niente, con il linguaggio burocratico. Gli viene in mente la parola USUCAPIONE. Saranno vent’anni, dai tempi della scuola, che ogni tot mesi ciclicamente si fa spiegare che vuol dire, dimenticandolo dieci minuti dopo. Certe cose non sono fatte per noi, poco da ragionarci sopra.
“Mi sta ascoltando?”
Fiorenzo non sente la domanda, ma nota subito il silenzio, il guado nel fiume di parole incomprensibili. Lo sguardo interrogativo del suo interlocutore gli suggerisce il resto.
“Sì..sì signore.. Ecco..però.. non sono sicuro di capire tutto bene-bene. Non è che mi potrebbe dire..”
“Per farla breve, sig. Lanzane, le stavo solo illustrando i lati tecnici della faccenda. Suo zio, pace all’anima sua, ha espressamente richiesto che il materiale fosse destinato a lei, ma non ha lasciato disposizioni riguardo alle modalità di conservazione. Ora, il lotto si trova in un magazzino di nostra proprietà, ma se non è disposto a ritirarlo immediatamente, saremo costretti a farle pagare una tariffa da concordare. Di questo le stavo..”
“Di quanto…materiale stiamo parlando, esattamente?”
“In base all’ultimo inventario, il lotto è composto da numero ottantamila copie, in versione tascabile sigillata. E’ passato del tempo da questo ultimo inventario, quindi è possibile che ora siano un po’ meno. In ogni caso, se ora volesse..”

Ottantamila bibbie.
Fa effetto dirlo. Fa più effetto ancora vederle. Ci ha messo una mattinata, Fiorenzo, a fare i due viaggi col ducato del vicino per portarsele a casa. Ci ha messo tutto il pomeriggio, per stiparle in giro per l’appartamento. Il suo squallido bilocale di periferia non sembra più lo stesso, con tutte queste pile alte fino al soffitto di piccoli libretti neri. Chissà che ci faceva, suo zio, con tutte queste verità millenarie. Da quello che ricorda di lui, e sono più che altro ricordi basati su pettegolezzi di famiglia, suo zio era un ricettatore di mezza tacca, sicuramente non un uomo di fede. Povero zio, schiantato da un infarto al volante della sua passat, mentre pagava all’omino del casello il prezzo della tratta Colleferro – Cassino.
Ne succedono, di cose.

I giorni passano, le bibbie restano. Fiorenzo prova un po’ di tutto: contatta diocesi in giro per l’Italia, mette annunci ovunque, su internet, sui giornali, perfino su quello gratuito di paese in cui trovi solo gente che regala sedie rotte perchè non ha voglia di portarle in discarica, o annunci bizzarri di signorine dai nomi esotici in cerca di amici premurosi. Fiorenzo da piccolo leggeva quegli annunci e si chiedeva perchè ci fossero così tante ragazze sole, costrette ad elemosinare affetto su quei giornalacci. Una volta chiamò pure. Dopo un iniziale imbarazzo da parte di tutti e due, la ragazza, Paloma si chiamava, spiegò con voce suadente, accompagnata da una punta di divertimento, come stavano realmente le cose. Fiorenzo ci rimase un po’ male. Pochi anni prima aveva scoperto l’inesistenza di Babbo Natale e delle tartarughe ninja; ora doveva fare i conti con il fatto che una serata di coccole davanti al caminetto in realtà significava rapporto completo in appartamento discreto, niente baci e niente anale, preservativo obbligatorio e centomila lire all’ora, contanti anticipati. Nientebello, ecco.
All’inizio per il suo star male se la prese con Paloma, ma poi si rese conto che lei mica gli aveva fatto nulla..anzi era stata gentile, gli aveva pure offerto uno sconto. No, la colpa era del Mondo, del Mondo che ti spinge a credere ai sogni falsi, e che ti fa sentire in colpa se credi a quelli veri.

Ma basta divagare su sogni e prostituzione, dove eravamo rimasti?
Ah sì, alle bibbie.
Insomma, ste bibbie non le vuole un cazzo di nessuno. Fiorenzo inizia ad abituarsi ad averle attorno. Fanno divertire i suoi amici, quando vengono a trovarlo. Se le lanciano dietro da ubriachi e leggono parti a caso mettendo in mezzo bestemmie e parolacce, ridendo come porci. A Fiorenzo non fanno tanto ridere le parolacce in sè, ma è contento che i suoi amici si divertano, e li lascia fare.

Ogni tanto prende una bibbia e ne legge un pezzo a caso, mai dalla stessa copia, tante ce ne sono in giro. Molte parti non le capisce, sembra che tutti siano sempre arrabbiati con tutti. E poi parlano troppo di Dio. Va bene che è il protagonista, ma a Fiorenzo sto Dio sembra un po’ troppo furbetto. Vuole che tutti facciano come dice lui, lui però non c’è mai. Qualcosa stona. Non ha mai visto nessun film dove il protagonista non ci fosse, e sì che di film ne ha visti tanti. Ha visto anche tutti quelli di Totò. Il suo preferito è quello dove lui diventa investigatore e va a caccia di Barbablù. Quante risate si è fatto! Totò gli sta molto più simpatico di Dio, ecco.

Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio | e un fremito mi ha sconvolta. | Mi sono alzata per aprire al mio diletto | e le mie mani stillavano mirra, | fluiva mirra dalle mie dita | sulla maniglia del chiavistello. || Ho aperto allora al mio diletto, | ma il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. | Io venni meno, per la sua scomparsa. | L’ho cercato, ma non l’ho trovato, | l’ho chiamato, ma non m’ha risposto. | Mi han trovato le guardie che perlustrano la città; | mi han percosso, mi hanno ferito, | mi han tolto il mantello | le guardie delle mura. | Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, | se trovate il mio diletto, | che cosa gli racconterete? | Che sono malata d’amore!

Cosa vuol dire? Non ne ha idea, ma gli piace il suono delle parole. Anche lui, forse, vorrebbe girare per le strade, malato d’amore! Invece no, solo guardie, guardie dappertutto, che lo prendono sempre in giro perchè pensano sia scemo.

I giorni passano, le bibbie restano, le case no. Fiorenzo ha perso il posto nella fabbrica di cucine in cui lavorava da quasi otto anni. La crisi, gli dicono. Lui non capisce troppo bene cos’è sta crisi, ma sa che da ormai tre mesi non riesce a pagare l’affitto, e dovrà spostarsi, ancora non sa dove.
Parenti, gliene resta nessuno. Amici, spariti, forse anche loro cacciati di casa dalla Crisi.

Solo bibbie. Pile di bibbie alte fino al soffitto, poche belle frasi nascoste dentro capitoli e capitoli di cattiverie.

Questo è tutto ciò che resta della sua vita.

Forse è ora di andare in America, e aprire un albergo.

Kiree