Stile Vittoriano

Quanto è malato ? Quanto è triste ? Quanto è inquietante ?
Guarda questa, c’è lei a terra stesa sul tappeto, vestita di bianco, circondata da giochi. E tutta intorno a lei la sua famiglia.
Cosa vedi ?

La lunga e appuntita unghia del dito ossuto punta la foto. È un’istantanea vecchia e non di poco, roba vittoriana.
Un ritratto di famiglia, tutti ben vestiti sorridenti in un salotto ben arredato. Vecchi e giovani guardano l’obbiettivo, tranne lei a terra. Ha gli occhi chiusi, dorme, è morta.
Un terrore mi esplode nello stomaco, la fiammata mi arriva in gola e fuoriesce sotto forma di gemito.
Hai paura ? Mi dice il volto coperto dall’ombra.
Paura di una bambina ? Di una bambina morta ? Che male può farti ? C’è ne sono tante altre.

Stende un braccio e la parete si illumina, centinaia di foto simili, stesso stile, stessa epoca quasi tutti bambini. Morti che fanno finta di essere vivi. Padri con in braccio il loro neonato morto, due bimbe adagiate insieme in una piccola bara bianca, vestite a festa, boccoli biondi.

Questa è interessante, mi dice.
La parete torna buia eccetto una foto.
Ci sono due ragazze, una seduta, una in piedi. La prima ha gli occhi aperti, sorride all’obbiettivo. La seconda ha gli occhi chiusi, viso sereno.
La tenevano in piedi con un sistema di cinture e un busto. Roba grezza ma sai a quel tempo avevate una morale diversa.

Allora sei giunto a una conclusione ? E’ malato ? E’ triste ? E’ inquietante ?
Non rispondo.

O è solo un altro vostro patetico tentativo di sfuggire alla fetta di realtà che non vi piace ? Vi credete gli eletti di Dio, gli unici esseri nel regno animale che non meritano la morte. Patetici esseri, sempre pronti ad ogni cosa per rendere meno amaro l’inevitabile.
Fa un passo, la luce gli illumina il volto. Rugoso, millenario, due sporgenti palle bianche per occhi scavate in profonde fosse nel cranio, pupille nere e minacciose, squallidi capelli bianchi, unti e lunghi.
Chiudo gli occhi per la paura, fuggo via da lì senza muovere un passo.

Tipico di voi, mi dice mentre la sua voce svanisce, chiudete gli occhi davanti alla realtà.

Sono altrove, non sono ancora sveglio.
Credo di essere tornato bambino, sono in un museo, vedo tanti coetanei vestiti con un grembiule blu. Percorriamo un lungo corridoio di marmo, grosse vetrate fanno luce ma essa è talmente forte da non mostrare nulla dall’esterno, solo un puro bianco.
Ai lati del corridoio ci sono statue greche, credo. Sculture perfette di perfetti corpi nudi, eccetto per il cazzo, è stato tagliato via a tutte, c’è solo il segno di un secco colpo di scalpello.
I bambini ridono tutti, rido anche io.

E vado via di nuovo, dormo ancora.
Sono in macchina, su una strada dritta come il corridoio di marmo, piove tanto che il tergicristallo nel fare destra sinistra a quella velocità sta per saltare via.
In lontananza vedo due babbo natale, non sono in rosso ma blu. Stanno facendo un posto di blocco. Uno sul lato della strada paletta in mano, l’altro poggiato su un’Alfa Romeo 75 sfoglia delle carte. Entrambi incuranti della pioggia.
Quando arrivo a cento metri quello al lato della strada mi mostra la paletta.

Vado via di nuovo e questa volta sono sveglio, c’è il gatto sul mio petto, fa le fusa e con gli artigli mi accarezza il collo.
Sento il bruciore causato dal suo sfregare.

Slon

Quale non fu la nostra sorpresa quando trovammo una batteria d’auto abbandonata accanto al cancellino

Venti anni fa via Pace era la via più desolata di Manerba. Non tanto d’estate – quando era pregna di chiassose comitive teutoniche, nederlandesi o similari – quanto d’inverno. Il rigidissimo inverno mite basso gardesano.
Via Pace è l’ultimo anfratto asfaltato della Pieve dopo aver svoltato per via Giuseppe Verdi. Via G.V. si interrompe a un certo punto, a ridosso del lago, gira su se stessa e torna indietro (un po’ come a Venezia, dopo che avete attraversato il Ponte della Libertà e arrivate a Piazzale Roma). A destra c’è un minigolf. Nascosta dietro il minigolf, via Pace.
Via Pace, come dice il nome, costeggiava, e costeggia tuttora, duecento metri circa di riva gardesana, più o meno settanta metri all’interno. Non sbuca da nessuna parte, interrompendosi contro un cancello che venti anni fa era bianco e che oggi forse, chissà, potrebbe pure essere giallo. Non sono sicuro che fosse bianco all’epoca. Magari è bianco oggi ed era giallo allora. Dietro quel cancello c’era un residence, perchè via Pace era, ed è, in sostanza questo: un breve sfilare di residence composti da piccoli appartamenti e piccoli garage, popolati da tedeschi d’estate e d’aria stantia d’inverno. Questi edifici, che hanno qualche decina di anni, sono l’unica separazione tra la ghiaiosa riva lacustre e la via Pace propriamente detta, una striscia d’asfalto larga a malapena quanto un SUV.
Questa via ha oggi perso tutto il suo fascino, perchè veramente non ci sono che residence da quattro soldi e i loro garage. Ma ieri, venti e più anni fa, quando la cortina di ferro era ancora integra, via Pace d’inverno era un luogo da cartolina infernale. Ci abitavano sì e no una mezza dozzina di custodi con famiglia, il lago di gennaio si rivelava una cornice di una tristezza sconfinata (i pontili, Dio mio, cosa non parevano i pontili d’inverno), e soprattutto la via era deserta e pareva Belgrado dopo un bombardamento. C’era un edificio bellissimo, che mi dicevano essere un ex-supermercato, abbandonato dagli anni ’70 e mezzo crollato (oggi non c’è più, c’è un piazzale con dei garage); dietro, alcuni buchi per auto (cit.) pressochè inutilizzati con le erbacce nel selciato. C’erano un sacco di altre bellissime brutture.
Ci sono passato di nuovo qualche tempo fa. Ok, non è inverno, ma è comunque bassa stagione. Ma ora è tutto dannatamente terzo millennio, via Pace è stata in gran parte restaurata; è ancora squallida ma di un certo qual triste squallore moderno. Non c’è più quella sincera aria di decadenza secondomondistica.
Via Pace faceva schifo, e mi piaceva. Adesso fa schifo tout court. Vaffanculo.

Opossum

Sala d’attesa

Appena entri sembra accogliente, c’è quella luce rilassante dei lampioni che entra dal balcone e il neon sul tetto non disturba molto, sbatte sulle bianche pareti si amplifica e ti sembra di essere in un luogo pulito. Fai un passo deciso e superi la soglia, ti guardi intorno, ci sono le sedie disposte a quadrato attorno al muro, sono bianche, di plastica dura e già a vederle non sembrano comode. Al centro c’è questo tavolo, bianco pure lui e quanto abbassi lo sguardo per guardarti i piedi vedi che anche il pavimento è di un bianco marmo ed allora cominci a stancarti di tutto questo bianco.
L’impatto con la sedia è traumatico, dura e fredda, un brivido passa per tutta la schiena e per quei cinque secondi soffri.
Comincia l’attesa e visto che non c’è niente di meglio da fare dai un’occhiata approfondita alla sala d’attesa. Le mura viste meglio non sono tutto questo splendore, ci sono nere impronte di Converse, insetti spalmati, righe sul muro eredità degli schienali delle sedie. Meglio non mettere una mano sotto la sedia.
Abbassando di nuovo lo sguardo noti che il pavimento ha perso la sua lucentezza, ora è di un bianco opaco e sa di vecchio. Ti giri verso il balcone e sembra quasi di aver guardato qualcosa di diverso prima, quei vetri ora sembrano tenere fuori la calda luce arancione dei lampioni. Guardi gli altri nella stanza ed hanno la tua stessa espressione e di sicuro i tuoi stessi pensieri. Uno di loro guarda un orologio appesa alla parete sopra l’entrata, è sporco ed abbagliato dal fascio di luce del neon e non si distinguono ne le lancette ne i numeri. Puoi solo fare un’ipotesi su che ora sia, adocchiando le due sbiadite linee nere sotto la luce.
Passa, passa il tempo. Cominci a pensare alle cose che dovrai fare dopo, ovvero nessuna ma te le inventi sul momento per trovare qualcosa da fare.
Ti salta per la testa anche l’idea di parlare con gli altri, il problema è riuscire a sostenere una conversazione con degli estranei…e qui qualcuno risparmia molto sul bagnoschiuma e sul deodorante. Che fetore.
Prima almeno gli edifici puzzavano di sigaretta.
Ultima spiaggia pensi alla gente a casa, momenti divertenti come lo zio mentre racconta la barzelletta del ladrone appeso alla croce che si gira verso Gesù e gli dice: Oh, che Pasqua di merda quest’anno.
Ti viene a mente anche quella volta, quando ti disse che anelli e ditalini non vanno d’accordo.
Sorridi, passa ancora un po’ di tempo ma non è sufficiente.

Non mettere delle riviste in una sala d’attesa è uno dei peggiori crimini.

Slon

LeClan

Il basso è caldo, lento, profondo.
Si muove con calma e grazia, avvolgendo ogni sobborgo del sentire.
Un accenno di batteria lo segue, ritmico e discreto.
Un piano dice la sua ogni tanto, semplice ma d’effetto.
E, quando meno te lo aspetti, fuori tempo, un sassofono si infila in mezzo a spallate.
E’ un jazz improvvisato, ma con sonorità da rock cupo, che ben si sposa alla personalità marcia del locale.
Un’alchimia di luci viranti al blu riveste l’atmosfera, esaltando le zone d’ombra, il fumo che nuota lento nell’aria, i movimenti sinuosi delle persone.
Perchè di persone è pieno, sto cesso sotterraneo. Bussi a una porticina anonima in un casolare di periferia, fai il nome di qualcuno, passi attraverso tre buttafuori con un metal detector…e ti ritrovi tre interi piani sotto l’asfalto di vera depravazione notturna. Una sola entrata, alla faccia delle norme sulla sicurezza. Non che debbano avere tanti controlli da queste parti: il gestore c’ha gli amichetti giusti. E sicuramente anche i nemici giusti, dato che sono qui.

Faccio un giretto senza dare nell’occhio, mi faccio un’idea della planimetria del posto. Il locale apre alle quattro, e il primo piano è ancora abbastanza tranquillo. Al secondo invece si fa già fatica a camminare, la gente ci dà dentro, beve, balla, tira, si fa spompinare nei divanetti. Guardo l’ora, le quattro e trentanove. In perfetto orario. Cerco il bagno, è in fondo a destra. Ci avete mai fatto caso? E’ sempre in fondo a destra.

Il cesso degli uomini è una piccola stanzetta squallida a L, scrigno di fetori indimenticabili. Due tizi pisciano negli orinatoi. Un altro piscia sul muro. In fondo, appoggiato alla parete dietro l’angolo, trovo quello che dovrebbe essere il mio uomo, vestito in modo trasandato. Ha una faccia che sembra una crêpe surgelata, giallastra e piena di puntini bianchi, quasi fosforescenti. Dev’essere l’effetto della roba che inizia a salire. Trattengo un ghigno e mi avvicino. La crêpe mi parla.

“Cerchi qualcosa, bello?”

“Sì. Qualcosa che faccia male.”

“Ouuu, sei tu allora. Cazzo, ti immaginavo diverso. Più alto. Beh comunque eccoci. Io qui sono di casa, non è stato un problema portare la roba. Cazzo, che storie! Sai ne ho viste di merdate, ma non avevo mai incontrato un ki-”

“Chiudi quella bocca di merda.”

Nell’istante in cui smette di gesticolare, lo prendo per il collo e premo dove so io.
Crêpe sbianca all’istante. Lo fisso negli occhi e quasi mi aspetto che mi caghi sulle scarpe.

“Cos’è, pensi sia divertente? Non lo è. Ora fai quello per cui sei stato pagato e ti sigilli quella fogna, prima che ti asporti fisicamente il pezzo di cervello in cui ti sei convinto di avermi mai visto.”

Sento dentro un’ondata di calore elettrico che mi sale alla testa, e mollo la presa prima di fare danni. Il tizio ha le lacrime agli occhi. Lo lascio tossire in pace.

“Ok..ok bello. Quello che vuoi. Non voglio casini.”

Si infila la mano sotto la felpa e mi passa il pezzo con timore reverenziale.

Capisco subito dal peso che è carica, ma scarrello comunque per sicurezza. Un nove millimetri mi fa l’occhiolino dalla sua culla di polimero. Me la infilo nella cintura, sotto la giacca.

“Scusa…scusa, cazzo davvero. Oh, sei fortunato che ero qua ad aspettarti, eh? Non ti ci vedevo, a rovistare nella merda.”

“Cosa?”

“Dai, Al Pacino, quando prende la pistola nel cesso, e poi spara in faccia allo sbirro. Il padrino, bello. Non l’hai visto?”

“Sparisci.”

Crêpe sparisce. Mi annoto mentalmente di informarmi su di lui. Mi annoto anche di non farmi più convincere ad usare estranei. Piuttosto, d’ora in poi ammazzo la gente a morsi.

Mi sciacquo la faccia, con calma, nessuno ha fatto caso a noi. Sono le quattro e quarantasei. La testa mi si fa leggera. I suoni sono diversi ora, è come se non arrivassero più da fuori, ma da dentro di me. I colori, è come se si fossero staccati dal loro solito posto, e se ne andassero a zonzo da soli tra le cose.

Dio, quanto amo gli acidi. Continuo a ripetermi che mi servono solo per aiutarmi a fare quello che faccio, ma la realtà è che vado pazzo per questa merda. Mi accorgo di stare ridacchiando, e non faccio proprio nulla per smettere.

Esco dal cesso, mi infilo nella folla. E’ bello andare a lavorare con un sorriso.

K

La conversazione

L’evento che ricordo maggiormente di quel periodo è un’inattesa conversazione.
C’ero io con l’ufficiale di Torino e i due Inglesi.

Mi aveva in simpatia, l’ufficiale, e quella sera mi disse andiamo a parlare con gli Inglesi.
Potevo chiedergli un po’ di cose, magari come avremmo fatto a parlarci con questi Inglesi ma ricordavo quello che era successo tre giorni prima; uno di Valenzano aveva chiesto perché questi due praticavano spesso da noi, dopo tre tentativi per farsi capire dall’ufficiale aveva avuto come risposta un volgare invito a farsi gli affari propri.
Memore di questo non chiesi nulla e lo seguii, ricordando che i due Inglesi avevano spesso della buona roba, magari del caffè.

Mentre camminavamo nello stretto della trincea l’ufficiale mi spiegò un paio di cose, disse che uno di loro era figlio di un Duca, una persona eminente a cui era concessa anche la compagnia di Re Giorgio. L’altro era il suo servo ma lo chiamò in altra maniera, non ricordo che termine usò.
Continuò dicendo che a discapito di quello che potrebbe sembrare il futuro Duca non era propriamente una persona fine e di buoni modi o che forse un tempo, prima della guerra, lo era.
Oggi era “uno come noi”, disse.

Erano accovacciati al coperto dentro uno scavo nella parete e grazie a Dio bevevano del caffè.
Disse qualcosa all’ufficiale che con mia sorpresa rispose nel loro idioma.
Ci invitano a sedere, mi informò.

Sedemmo e guardando le facce dei due e il fango dove erano accomodati capii cosa volesse significare quel “uno come noi” usato dall’ufficiale. Non avrei saputo dire chi dei due era il Duca e l’avrei capito solo diversi minuti dopo quando me lo indicò l’amico di Torino rendendomi finalmente partecipe di quella conversazione e ledendo il mio imbarazzo.
Da diversi minuti i tre ridevano e oltre a porgermi del caffè non mi avevano considerato, finché l’ufficiale mi disse che il Duca lì, indicando con il dito, stava raccontando di una sua cameriera.
Diceva che l’aveva sempre in mente da quando tutto era cominciato, ricordava con piacere le ore di clandestinità trascorse con lei.
È la donna migliore al mondo mai ne troverà una come lei.
Raccontò della sera dell’ultimo giorno della sua ultima licenza, aveva appena finito di lavorare di bocca e appena sputò nel suo fazzoletto lo guardò negli occhi e disse: Ne vuoi un altro ?
Il Duca sostiene che queste siano vere parole d’amore; mille strofe di poeti decantanti cuori, stelle, oceano e altro sono solo roba buona per l’editoria. Quelle della cameriera sono le vere parole d’amore. Mi informò l’Ufficiale.
Ora nessuno rideva più, sorrisi leggermente e guardai il Duca, fissava il terreno con occhi lucidi e chiunque l’avrebbe visto in quel momento mai avrebbe creduto che poco prima rideva a crepapelle.

Ricominciarono a parlare la loro lingua e dopo aver finito l’Ufficiale mi traduceva il succo. Cominciai a farci l’abitudine con quel nuovo modo di conversare e nelle pause mi ritrovai a pensare che spesso tra di noi stessi avremmo avuto bisogno di un interprete come con gli Inglesi ora.
E pensare che combattevamo sotto la stessa bandiera per gli interessi della nostra (presunta) nazione.

La conversazione si spostò sulla guerra, l’Ufficiale e gli Inglesi concordavano che questa di Vittorio era l’ultimo sforzo per noi e forse per tutti; restava da vedere dopo cosa sarebbe successo.
Gli Imperi sarebbero sopravvissuti ? O chi diceva che un’epoca sarebbe finita insieme alla guerra aveva ragione ? Di sicuro avremmo avuto tempi migliori ma era difficile fare peggio.
La vittoria avrebbe consolato le immense perdite a sentire l’Ufficiale e qui il Duca torno a ridere.
Non c’è una vittoria, disse, almeno per noi europei. Soltanto gli americani potranno guardare questa guerra come una vittoria. Non saremo più il centro del mondo.
Dei rozzi lo saranno.
L’ufficiale mi riportò il pensiero del Duca e condivise con me la risata che gli aveva concesso l’Inglese. I due vedendoci ridere incrociarono gli sguardi e sorrisero, non mi serviva un interprete per capire quel gesto. Ai loro occhi eravamo più rozzi di tre Americhe messe insieme.

I discorsi si spostarono su quel malanno che cominciava a diffondersi e da lì a non molto tutti lo conobbero meglio. L’ufficiale aveva sentito parlare di tifo ma non è che era consigliabile parlarne apertamente e rintristire ancor di più gli animi ma si diceva che dal lato austriaco questo tifo o chi per lui stesse uccidendo più gente di noi. Si chiedeva se fosse un segno divino.
Non credo che Dio ci tenga tanto in considerazione da mandarci dei segni, soprattutto dopo quello che abbiamo fatto negli ultimi anni. Rispose il Duca.

Un’ottima risposta, mi disse l’Ufficiale subito dopo aver tradotto.
Da lì a poco ci congedammo.

Nei giorni, mesi e anni seguenti pensai spesso a quell’oretta e di come per la prima e unica volta in vita mia conversai con un Conte e degli stranieri. Era singolare come quella conversazione non fosse tanto diversa da quelle fatte con i miei pari nei campi all’ombra di un albero quando una donna ci portava del vino o la sera quando la giornata era finita.

A livello sociale in quell’ora raggiunsi il mio apice, seppure nel fango mi ritrovai al cospetto e al pari di un Duca.

Slon

Fortebraccio

E’ un personaggio dell’Amleto di Shakespeare ?
Lungobraccio
Cortobraccio
Fortebraccio
Mezzobraccio

Ci pensa su come se realmente scavasse nella mente alla ricerca della risposta.
Amleto, Amleto, Amleto…l’abbiamo mai visto ?
Visto cosa schifosa vacca ? Non è mica uno sceneggiato da venti minuti a puntata.
Cosa ?
La risposta. Sai qual è ? Secondo me è Lungobraccio.
Si si certo, confida nella probabilità così nel caso potrai vantarti di sapere qualcosa ma se sbagli potrai sempre buttarla sul ah lo sapevo ma ero indecisa.
E’ Fortebraccio.
Sicuro ?
Si, c’è l’intera tragedia in libreria. Fortebraccio è il principe di Norvegia.
No secondo me è Lungobraccio.
Vai a prendere il testo, controlliamo.
Non ho voglia di alzarmi, aspetta un po’ e la diranno loro la risposta.
Sicuro che non hai voglia di alzarti! Più di voglia bisognerebbe parlare di forza. Quelle cosce livide dall’ignobile circonferenza hanno le spinte contate per sollevare la massa di lardo che chiami corpo da una sedia. Oggi devi averle usate già tutte, ti resta solo quella per portarti a letto.
Come vuoi.

Danno la pubblicità, lei cambia canale. E’ un continuo ping pong la sera, passa dal primo al quinto canale e segue morbosamente questa gente che insegue gettoni d’oro. Butta a caso, senza alcun filo logico, le risposte che dovrebbero dare o le azioni che dovrebbero compiere. Credo che le sia rimasto solo questo in attesa dell’ischemia.
E qui mi ritrovo; d’estate a guardarle il sudore che le scivola sulle guancia gonfie.
Come è potuto accadere è inutile chiedermelo; è un po’ la fine che fanno tutti, no ? Uniformarsi al resto nella gioiosa vita familiare ? Si forse non tutti, ma per me è stata così.
Non lo sopporto, sono serio credetemi. So che non dovrei dire cose dal genere ma non ci riesco.
Dall’esterno sembra comodo aver qualcuno. Dall’esterno.
Ditemi come si può sopportare un’esistenza del genere ? Resta solo un divano, una televisione e una sega riuscita dopo svariati tentativi guardando le pubblicità sulle riviste che la vacca tiene nel gabinetto. La sue presenza stessa è insipida, il suo odore, il suo cibo, lei.

Vuoi altro ? Mi chiede guardando il frigorifero e sperando che le dica di no.
Certo, voglio che muori!
Rivoglio un veloce rewind e rivivere la mia esistenza in un modo migliore.
Per finirla in un posto migliore.

No, grazie.

Ritorna sull’altro canale, il concorrente ha dato la risposta: Fortebraccio.
Vedrai, avevo ragione io. Mi dice con un sorrisetto malvagio da cattivo della Disney.
Certo, zoccola.
Certo, cara.

Il sorrisetto sparisce quando la scritta Fortebraccio si illumina di verde. Si volta, alza la pesante mano e la passa lentamente sul mio volto.
Avevi ragione.
In quel momento mi odia, le ho rovinato il giochetto.
Ed è questa l’unica mia consolazione: ora, proprio in questo momento, lei sta vivendo i miei stessi tormenti.

Slon

Enarmonico

Aprì la porta e avanzò nel bagno immerso nella timida luce del mattino. Lui, in preda ai fumi del sonno, aveva combinato sicuramente qualche guaio, visto che nonostante la tendina della doccia fosse tirata diverse chiazze d’acqua decoravano il pavimento. Vi si rifletteva il rettangolo luminoso della finestra.
Doveva averla udita, perchè quasi istantaneamente la tenda scorse di lato e lui apparve sorridendo. La doccia ancora aperta schizzava fuori dal bordo della vasca, ricalcando pressapoco le pozzanghere formate già prima. Se ne accorse, e abbassò la leva. Il getto si fermò.
Lei non fece comunque commenti. Appoggiate le terga al bordo di marmo del lavandino, osservava ora il maschio nudo che la fronteggiava dalla doccia. Si mordicchiava soprappensiero un dito.
“Ho fame” disse infine.
“Ci sarà qualcosa nel frigo”.
“Non parlo di fame di cibo”.

Opossum

Cyanotic Uxor

Tamburellava nervosamente con le lunghe unghie sul bordo del bicchiere, ancora per buona parte pieno di quel delizioso distillato, soprappensiero. Dava le spalle alla grande finestra dove il sole non era più così alto, e vedeva la propria ombra allungarsi davanti e sè sul tavolo.
Suo marito, e soprattutto la sua terribile presenza, era lontano. Già da tre giorni poteva godere di una mai troppo desiderata libertà -anche se breve- nel proprio letto, nella propria dimora e perfino, come non riusciva a nascondersi, nella propria vita. Il matrimonio fino a quel momento non era stato quella tragedia che aveva temuto sin da primi istanti, ma nemmeno un vero idillio: dietro i modi comunque cortesi, suo marito celava a malapena qualcosa (cosa? non sapeva spiegarselo) di sinistro; il suo passato era poco chiaro, lui non ne parlava praticamente mai; e il suo tremendo aspetto fisico non giocava a suo favore.
Più inquietante ancora -smise di tormentare il povero bicchiere e si voltò alla luce del tardo pomeriggio- la raccomandazione di non entrare in quella stanza che sapeva. Cosa c’era la dentro? (Nulla che tu debba sapere). Ma. (Niente ma. Mi hai sentito? Non entrare). (Quella volta l’aveva spaventata sul serio). La proibizione all’ingresso della stanza le era stata ricordata al momento della partenza di lui, e all’improvviso sembrava esser diventata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso della sua ansia repressa. Era lacerata da tensioni contrastanti, scoprire il contenuto della stanza e subire la sua ira o lasciar perdere il rischio e tenersi la curiosità. Col dubbio poteva probabilmente convivere, con la rabbia di quell’uomo… non poteva giurarci. Lui avrebbe anche potuto arrivare a ripudiarla, e così sarebbe finita male pure per la sua famiglia, che lasciandola andare in sposa a un uomo così facoltoso aveva risolto parecchi problemi.
Ma guardando il panorama che lentamente si arrossava, si rese conto che più affastellava ragioni a favore della cautela più il suo desiderio di sapere cresceva. Come da una specie di coscienza nera si sentiva trascinata a penetrare il segreto. Chiuse gli occhi, fece un profondo respiro e lasciò che il castello della sua prudenza crollasse. Un brivido la scosse. Con uno scatto si voltò, afferrò le chiavi che giacevano sul tavolo e con i nervi a fior di pelle si diresse verso la porta proibita.

Opossum

Dell’inganno del tempo

In Europa c’è l’Inghilterra. In Inghilterra c’è Londra. A Londra c’è una “piccola” località (pari ad un trentatreesimo di Londra, ed estesa poco meno del doppio della mia non certo immensa Manerba) che si chiama Greenwich.
Greenwich è famosa perchè ci passa il meridiano zero, ed è l’origine del Tempo Terrestre. Greenwich è al centro di uno spicchio di Terra che si estende uniformemente al suo est e al suo ovest per sette gradi e mezzo in ciascuna direzione. Gradi, non chilometri: più si scende verso l’equatore più lo spicchio si allarga. I metri cambiano, ma i gradi no.
Questo spicchio di pianeta contiene il GMT, il tempo di Greenwich, il Tempo Zero; sull’equatore cade in mare, da qualche parte ad ovest di São Tomè: è qui che (nominalmente) la GMT ha la massima estensione destra-sinistra. La minima estensione è invece ai poli: 0 metri. Qui lo spicchio di GMT e il suo meridiano centrale nascono e muoiono. Se nascano a nord e muoiano a sud o viceversa, decidetelo voi.
Al di là di questo spazio di quindici gradi cominciano il passato e il futuro.

Il meridiano zero ha un dopplegänger. Un gemello cattivo che nasce e muore negli stessi luoghi, ma che passa esattamente sull’altra faccia del mondo. Il meridiano centoottanta taglia a metà lo spicchio del ventiquattresimo fuso orario, distribuendo il futuro alla sua destra e il passato alla sua sinistra: dodici ore avanti o dodici ore indietro rispetto all’ora della perfida Albione. Il centoottantesimo meridiano è la Linea del Cambiamento di Data. A Greenwich il tempo nasce. Sul suo gemello muore.

A onor del vero, la LCD e il 180° meridiano non coincidono perfettamente. Come per tutti i fusi orari le geografie politiche e fisiche hanno fatto sentire il loro peso. Se una notte d’autunno un viaggiatore scendesse dal Polo Nord lungo l’antipodo del meridiano zero, camminando su profonde lastre di ghiaccio, calpesterebbe a un dato momento un brandello di terra della grande madre Russia. Si tratterebbe di un’isola, Wrangel, scoperta ufficialmente da statunitensi nel 1867 e raggiunta per la prima volta nel 1881 (in una spedizione di cui faceva parte il naturalista John Muir, videoludicamente eternato in Sam & Max hit the road). Wrangel è abitata da orsi, lemmings e uccelli; su di essa c’è una città, Ušakovskoe, la cui popolazione è però composta unicamente dagli animali di cui sopra. Pare che nessun pazzo voglia viverci, dopotutto. Nonostante ciò, la Linea la scansa piegando verso est, -che sarebbe poi l’estremo occidente del pianeta, a ben vedere- fino ad un punto in cui evita anche la terra dei čukči, quella che anni di Risiko ci hanno più o meno erroneamente educato a chiamare Kamchatka. Tutti amiamo la Kamchatka, e non vorremmo mai che vivesse un intero giorno indietro rispetto agli altri figli di Stalin.
Il viaggiatore d’autunno passerebbe quindi nello stretto di Bering, in mezzo a un arcipelago che -se me lo consentite- mi piacerebbe chiamare oligopelago. Sono infatti due sole isolette, le Diomede, che sono separate da distanze siderali ben superiori a quelle rappresentate dai soli tre chilometri di Pacifico in mezzo a loro. La Diomede più grande fu sovietica, ed ora è russa, ed era un luogo di confino per militari. Come la Siberia. Oggi è dichiarata disabitata (ma Giorgio Fornoni c’è stato e dice che ci sono ancora dei disperati). La Diomede più piccola è statunitense, appartiene all’Alaska, e ci abitano un centinaio e mezzo di anime. L’arcipelago è stato quindi il punto di maggior vicinanza tra le due superpotenze ai tempi della guerra fredda, con le due isole tanto vicine da potersi vedere. La LCD passa in mezzo a loro e se il nostro ipotetico viaggiatore si gettasse dalla piccola Inaliq per farsi una nuotata fino alla grande Imaqliq scoprirebbe di essere arrivato 21 ore prima di partire. Certo, se non fosse morto assiderato nel frattempo.

Dopo Diomede la LCD torna sui suoi passi per evitare St. Lawrence e addirittura sorpassa il centoottantesimo per schivare le Aleutine più occidentali, poi torna sul meridiano. L’acqua si scalda, il viaggiatore lascia le Hawaii alla sua sinistra, le Marshall alla sua destra e procede verso l’Oceania. Che è un continente fatto d’acqua marina e poco altro, dove la terra e la roccia risaltano come punti neri sulla superficie del viso del Pacifico australe. Qui tra le isole c’è solo il nulla liquido e salato, e per la Linea si approssima il problema Kiribati.
Kiribati (che si pronuncia Kiribas, se proprio volete) è, geograficamente, la nazione più surreale del mondo. Composta da 35 atolli e un’isola divisi in tre arcipelaghi, ha meno abitanti (gilbertesi) di un qualsiasi grosso comune italiano e una superficie totale pari a un quattrocentesimo di quella italiana (ed appena 12 volte superiore a quella di San Marino). Ciononostante è dispersa su un’area talmente vasta che le isole più occidentali distano quasi 3500 chilometri da quelle più orientali. E’ circa il doppio dello sviluppo latitudinale dell’Italia (Sicilia compresa). Se, tenendo gli occhi chiusi, provate a puntare uno spillo su una cartina di Kiribati, avete ben poca speranza di non pungere acqua. Anche perchè, essendo tutte atolli tranne una, un’isola gilbertese è praticamente sempre una pozza d’acqua salata con un po’ di sabbia attorno.
Kiribati “contiene” il punto d’incontro dell’equatore e del meridiano 180. Parte delle isole è quindi nell’emisfero nord, parte nell’emisfero sud. Altrettanto, le stesse isole sono in parte nell’occidente e in parte nell’oriente. La LCD taglierebbe Kiribati in due, e per molto tempo l’ha effettivamente fatto. Ma se russi e statunitensi possono spostare la Linea, i gilbertesi pure, per quanto piccoli (così piccoli che ad esempio a nessuno importa se sono fra i (pochi) governi che riconoscono Taiwan e non la Cina), possono farlo a piacer loro. L’hanno quindi fatto. Il nostro viaggiator d’autunno -che durante l’attraversamento di Kiribas diventa primavera, sapete come funziona- passa quindi su acqua gilbertese ed approda su uno degli undici atolli delle Sporadi equatoriali, l’isola Caroline.
L’isola Caroline è un posto strano. Se la Linea fosse un muro, guardando a est si vedrebbe questo muro, che separa oggi da ieri (e lo si vedrebbe, stante la strana forma della linea in questi luoghi, anche guardando verso sud e verso nord). Caroline è l’estremo lembo del Tempo futuro sulla terra. Il centoottantesimo meridiano è incalcolabilmente lontano nel suo occidente, tredici volte la distanza che la separa dalla Linea e dal giorno prima. L’oriente di Caroline non contiene solo acqua (e, a distanze quasi siderali, le isole Marchesi e poi il Perù) ma anche e soprattutto il nuovo giorno che arriva. Una visione abbacinante. Il fuso orario qua è -per un bislacco gioco cronometrico- di 14 ore avanti sull’ormai dimenticato Greenwich. Howard e Baker, due minuscoli atolli statunitensi molto più a nord e molto più a ovest che sono gli unici punti al mondo con un fuso di -12 (e quindi più sepolti nel passato), hanno ventisei ore di ritardo su Caroline e le altre Sporadi. Quando per Caroline la domenica è finita, per Howard deve ancora cominciare. Tale è la bizzarra magia di Kiribati.

Dopo le Sporadi la Linea torna verso ovest (che in realtà sarebbe l’est), poi riprende a scendere. La remota Polinesia sfila qua e là: Tuvalu, Tonga e Samoa, e isolette francesi che forse oltralpe hanno anche dimenticato di possedere. Passando a rispettosa distanza dalla Nuova Zelanda, la Linea e il viaggiatore di mezza stagione si ricongiungono all’antimeridiano di Greenwich a sud dell’isola Chatam per non più lasciarlo. Ormai è tornato a far freddo. La Linea si addentra nel mare Antartico, “sfiora” l’isola Scott e penetra nel mare di Ross.
Infine il viaggiatore sbarca sull’Antartide, dove finalmente la Linea poggia su terra solida. Potrebbe divertirsi a camminare lasciando impronte nella neve a destra e sinistra del meridiano, orme impresse simultaneamente in due giorni diversi. Se ne avesse le forze potrebbe farlo per circa 800 chilometri, fino a quel particolare punto in cui la Linea si interrompe e i due gemelli Zero e Centoottanta si incontrano per morire, e nascere, e trasformarsi.

E’ il Polo Sud. E qui il tempo scompare. Perchè ai ghiacci nulla importa.

Opossum

Dell'inganno del tempo

Dell’inganno del tempo – by Cammello (cammelloput.tumblr.com)

Gravità

Diciamo che state a casa a guardare il TG quando scoprite che USA/Russia/Cina/cazziemazzi hanno dichiarato una guerra nucleare e mentre sentite questa notizia i missili sono già in aria.
Come spendete l’ultima mezz’ora di vita prima che i missili colpiscano?

Spengo la TV. Mezz’ora. Non basta per fare alcunchè. Restare calmo e pensare lucidamente è impossibile, l’ansia già permea i vasi sanguigni e impedisce la normale circolazione. E se mi venisse un infarto proprio ora? Pensa l’ironia della sorte.
Chiamo il prete con l’intenzione di lavarmi l’anima, già intuendo quello che effettivamente avverà: suona occupato. Le linee sono anzi intasate. Ma per cosa poi: L’ultima volta che mi sono confessato l’Unione Sovietica esisteva ancora, quando mai riuscirò a espiare tutti i miei peccati ed espletare le relative penitenze? “Quante volte figliolo?” “Mah, padre, saranno sulle cinquemila, forse cinquemilacinquecento”. No, decisamente non è una buona idea. E tutto questo mi ha fatto perdere quasi quattro minuti.
Se già con trenta minuti non riesco a fare nulla, figuriamoci con ventisei. Il telefono è sempre lì, chiamare qualcuno continua a sembrare l’opzione più semplice. Più pratica. Più immediata. Non che possa servire a qualcosa -giusto dare un ultimo saluto-, tantopiù che provo a fare due o tre numeri e sono tutti occupati. Ovvio, stanno tutti provando a chiamare un prete.
Altro tempo perso, i secondi scorrono veloci, sento già i fischi dei missili avvicinarsi ma è solo l’effetto del sangue che scorre nelle orecchie. La vita mi scorre davanti agli occhi e devo dire che è stata abbastanza pietosa. Posso migliorarla in qualche modo in questi ultimi milleduecento secondi? No. Ma mi consolo, peggiorarla è altrettanto impossibile. Riaccendo la tele, appare mediaset, e mi rendo quindi conto che le certezze possono crollare nel giro di una sola frase; non si smette mai di imparare, nemmeno un attimo prima di lasciarci le penne. Per curiosità giro su Studio Aperto, e vedo che stanno trasmettendo uno speciale in cui cercano di spiegarmi quanto dolorosamente morirò. Noblesse oblige.
Quindici minuti sono passati e li ho letteralmente gettati nella pattumiera. Qualcosa mi dice che nei successivi quindici le cose andranno anche peggio. Da qualche parte nel mondo le prime testate sono sicuramente già cadute, e il problema dell’esplosione demografica comincia già parzialmente a risolversi (il bicchiere mezzo pieno. Sempre). Ormai è veramente troppo tardi per fare qualsiasi cosa, persino sprecare il tempo diventa tecnicamente impossibile quando ce n’è così poco. Esco a respirare la fresca aria della sera novembrina, che in realtà è un ventaccio minaccioso, guardo in su e vedo le stelle. Non ne ho mai imparato i nomi, l’unico asterismo che so riconoscere è il Grande Carro; guardo un po’ se -putacaso- è apparsa la Stella della Morte, ma pare di no. Sento le urla di qualche vicino. Rompicazzo fino all’ultimo, ma fra poco sarete pure voi all’inferno, la fine del mondo qualche lato positivo ce l’ha.
Nove minuti. Ci siamo. Sarebbe ora di cominciare a farsi prendere dal panico, ma per qualche motivo non ci riesco, non mi rendo ancora conto che sto per morire. Persino le scariche di adrenalina e l’ansia se ne sono andate. Mi siedo sotto al pino, vi appoggio la schiena. Sono già quasi semicongelato, ma non importa, fra poco avrò pure troppo caldo. Chiudo gli occhi per far scorrere il tempo più lentamente. Come le V2 tedesche, i missili non si lasceranno sentire. Con gli occhi chiusi non li vedrò arrivare. La morte mi coglierà impreparato.

Opossum