Concludere, oppure no.

Cargill chiuse le finestre e si allontanò camminando all’indietro per tenere lo sguardo diretto all’esterno. Le tendine impedivano di vedere fuori, e del resto essendo tarda sera c’era ben poco da poter vedere; ma i fuochi d’artificio illuminavano la stanza creando sporadici e fugaci frammenti di pieno giorno. I soliti festeggiamenti per la fine dell’anno. Cargill ne aveva odiato ogni istante, come succedeva ormai da lustri, e non nutriva molte speranze in possibile miglioramento nei dodici mesi a venire. Odiava il fatto che il tempo passasse e non capiva perchè un sacco di gente ne fosse invece così felice.
Ogni scoppio all’esterno era accompagnato dalla formazione di lunghe ombre sulle pareti, destinate a estinguersi in un istante. Cargill beveva sorsate di caffè lungo dalla sua tazza, addomesticata allo scopo, e le fissava annoiato. Lo infastidivano le luci, il chiasso, il clamore nella strada. Lo infastidivano l’anno che se ne andava e quello che arrivava. Non gli piaceva per la verità nemmeno il caffè che stava bevendo, a coronare quel momento di profonda mestizia. Era un comportamento tremendamente asociale, lo sapeva e non gli importava, e comunque non poteva farci nulla. “Se fossi in un romanzo di Dickens mi aspetterei di vedere apparire i fantasmi del capodanno passato, presente e futuro”, si disse. Ma non la trovò un’osservazione particolarmente arguta.
Riaprì la finestra e versò il resto del caffè da basso. Dal marciapiede salirono urla in risposta. Insulti, perlopiù. Cargill si sentì rinfrancato.
“Non rompete il cazzo, non era neanche troppo caldo” replicò. E se ne andò soddisfatto a dormire.

Opossum

Un grazioso piccolo topo

Era un periodo d’ispirazione, il foglio di Open Office di un bianco lindo aspettava me.
Solo che avevo voglia di qualcosa di diverso; basta con le trite ambientazioni urbane, squallide, drogate e dedite al vizio. Basta con personaggi afflitti, privi di qualsiasi inibizione, colmi di cinismo e stereotipati.
Volevo qualcosa di diverso e qualcosa volle che capitassi bloccato nel traffico delle 13:30 davanti una scuola elementare. Stranamente non mi incazzai durante quel quarto d’ora di embolo stradale sotto la pioggia ma anzi, fui lieto nel vedere i genitori armati di ombrello rincorrere i loro marmocchi e inventarsi parcheggi assurdi per evitare che nemmeno una singola goccia toccasse la loro fronte. Quelle punte di amore materno e paterno toccarono anche me e l’ispirazione venne con un suggerimento: scrivi un racconto per bimbi!

Così mi ritrovavo davanti al foglio virtuale di Open Office a buttare le basi.
Dopo venti minuti decisi di scrivere qualcosa con degli animali parlanti a cui capitano cose inusuali.
Il primo passo fu scegliere la bestia in questione, all’inizio pensai ad un gatto ma l’idea di un animale sì grazioso ma pieno di malizia e furbizia non mi convinceva in pieno. Nemmeno il cane passò l’audizione, carino sì ma forse dava troppa aria di ingenuità.
Alla fine la spuntò un animale spesso sottovalutato: un grazioso piccolo topo.
Dovevo dargli un contesto credibile, un lavoro che potesse facilmente sfociare in un’avventura. L’occhio mi cadde su Cuore di Tenebra di Conrad, lo uso come libro da tenere sul comodino per darmi un tono, e l’ispirazione colse il momento facendomi piazzare il mio topo alla guida di un battello navigante su un torrente circondato da vegetazione.
Ora toccava creare personaggi a fargli da spalla. Ero pronto, qualcosa si stava formando ma un tonfo secco strappandomi dalla fantasia mi riporto nel mio bilocale: quattro bestioni vestiti con nere tutine aderenti sfondarono la porta e mi saltarono addosso prima che potessi dire qualcosa, mi ritrovai a terra a ricevere i loro calci, a sentire le mie costole incrinarsi e la mia bocca riempirsi di sangue e denti vaganti.
Quando il pestaggio finì ero tutto disossato, uno degli energumeni strappò con foga il mio poster de Il Ritorno dello Jedi dalla parete e colpendomi con un calcione in faccia disse tutto serio: Ora anche questo appartiene a noi.

Mi risvegliai tre ore dopo a giudicare dal simpatico orologio di Paperino lasciatomi sul pavimento dai picchiatori come omaggio. O come monito.
Comunque andandosene non richiusero la porta e quelle tre ore di entrata spalancata furono sufficienti a far occupare il mio bilocale dagli zingari.
Musica di organetti e violini accompagnò il ritorno dei sensi. C’erano tre rom seduti al tavolo a discutere, bere e fumare.
Per fortuna tengo da sempre un filo di rame in casa per evenienze del genere, andai al cassetto del comò e lo presi, tenendo una distanza di sicurezza rapportata in due metri e sessantatré lanciai il filo al centro del tavolo. I tre si fissarono dritto negli occhi per venti minuti come nel più Leoniano dei trielli, sul culmine sfoderarono i loro coltelli e cominciarono a colpirsi a vicenda contendendosi il prezioso rame annullandosi e cadendo simultaneamente morti.

Ora avevo bisogno di due emuli di Burke e Hare. Contattai diversi atenei informandoli che avevo tre corpi da donare alla scienza, ci vollero tre settimane per vedere un furgone dell’università di Edimburgo arrivare.

Nel frattempo casa si era riempita di mosche e altre bestiacce attirate dalla decomposizione.
Fui costretto a contattare una onlus e affittare un bambino africano. Con spedizione in raccomandata ci mise cinque giorni ad arrivare ma una volta in casa, parcheggiato nell’angolo attirava le mosche che era una meraviglia e l’ambiente ritorno vivibile in attesa dell’inverno che avrebbe ucciso gli insettacci.

Col mio nuovo pezzo d’arredamento in vista crollai sul divano ad aspettare.

Slon

Sul ruolo dell’antagonista nella letteratura classica

Esami di stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di II grado
TIPOLOGIA B: REDAZIONE DI UN SAGGIO BREVE O DI UN ARTICOLO DI GIORNALE – 1. AMBITO ARTISTICO – LETTERARIO
ARGOMENTO: Le figure di Renzo e Lucia quali personaggi centrali del romanzo I promessi sposi.

Esimi professori giudicanti, vorrei -qualora me lo consentiste- deviare un po’ dal canonico corso precalcolato delle solite monotone tracce dei temi della Maturità (pardon, dell’Esame di Stato). Questo non già per mancare di rispetto a voi, alla commissione che ha selezionato le tracce o al romanzo e al suo defunto autore. Non si tratta di questo, no, quanto del fatto che la traccia è erronea. Mi si chiede di analizzare i personaggi di Renzo e Lucia quali figure centrali del testo: non è così. L’intero libro I promessi sposi è in realtà un’allegoria sulla sfiga che prende le mosse dalla natura sadica del suo autore, e unico e reale fulcro del romanzo è la figura di Don Rodrigo, anticipatrice di tutti i bersagli della malasorte nei secoli a venire, da Paolino Paperino al Nordberg di Police Squad.

La questione nasce così. Lucia Mondella -il personaggio di gran lunga più insopportabile del romanzo… ma non divaghiamo- viene abbordata dal signorotto locale Don Rodrigo, che si è invaghito di lei.
Quanto può resistere una fanciulla fragile e timorata di Dio di fronte alle profferte, nemmeno troppo pressanti, di un potente abituato ad avere tutto quello che vuole? Rodrigo avvicina la sventurata già traquillo della sicura conquista, e invece no! La Mondella glissa e si eclissa, e lo spettatore Attilio irride il cugino che in cuor suo sicuramente mastica un po’ amaro e pronuncia il fatidico “Scommettiamo?”. E’ sicuro, l’ispanico, di far sua Lucia in breve tempo. E invece questa persiste a difendersi, e a negarsi con una fermezza insospettabile.
Rodrigo di incaponisce, vuole assolutamente quel bel giocattolo e ormai la posta in gioco si è alzata: ne va del rispetto che parenti e amici povano verso di lui. Manda così i bravi a bloccare il matrimonio; è un segnale indiretto a Lucia per farle capire che è meglio non tirare troppo la corda. La Mondella abbocca? Neanche per idea, dice tutto alla mamma (e non metaforicamente), a LorenzoocomedicevantuttiRenzo e infine a Fra’ Cristoforo da ***. Il religioso dal sanguinoso passato va allora a parlamentare con il signorotto: è un segnale indiretto a Rodrigo (da Lucia) per fargli capire che è meglio non tirare troppo la corda. La storia si ciclizza, come si vede.
La lusinga non ha funzionato, l’insistenza non ha funzionato, la minaccia non ha funzionato, l’iberico comincia ad averne abbastanza della prospettiva di farsi le seghe ad libitum (la commissione d’esame mi scusi il linguaggio, ma va a favore del realismo) e manda a rapire la contadina.

All’inizio del diciassettesimo secolo si immagina che le giovani di basso ceto sociale la sera stiano a casa loro, che non c’è proprio un cazzo di motivo per andar fuori a divertirsi. Al massimo rientreranno per le nove di sera (al cambio attuale, dico). Rodrigo sguinzaglia i cani, pardon, i bravi al recupero della bamboccia. Questi arrivano alla casa di lei e non trovano nessuno (perchè i piccioncini stanno facendo la loro gabola da Don Abbondio)! Quante sere avrà passato fuori casa Lucia Mondella in vita sua? Quattro? Cinque? Beh, Don Rodrigo ha azzeccato una di quelle (lo so, lui stesso ha facilitato la cosa, ma resta una cosa notevole). Non solo, i promessi sposi sgamano la furbata e levano le tende.
Il signorotto arriva probabilmente al calor bianco: il risultato è 4 a 0 per Lucia. Apprende però che la contadina si è rifugiata in un convento a Monza e non intende cedere, anche se arrivare fin là è una faccenda complicata: fuori dalla sua giurisdizione e in un luogo poco penetrabile, come organizzerà il nuovo ratto?

Qui Manzoni si supera. Di organizzare il nuovo recupero viene incaricato l’Innominato, bella figura di tiranno così malvagio che al suo confronto Stalin sembra Madre Teresa di Calcutta (mi perdonino i signori esaminatori della commissione queste banali similitudini, ma è fatto solo per rafforzare le caratteristiche del personaggio). Tutto ci si può aspettare da questo tizio, tranne ciò che effettivamente accade: con tempismo assolutamente perfetto l’Innominato rinnega il male e si converte alla bontà in modo così repentino e completo da far sorgere dubbi riguardo un abuso di psicofarmaci. Apro un inciso: critici e commentatori manzoniani hanno prodotto un mucchio di letteratura sulla funzione di Lucia sul ravvedimento dell’Innominato; ora, avendo letto il libro, in questa sede d’esame vorrei dissentire, esimi professori, su questo punto, e dichiaro solennemente che il ruolo della rompibal della Mondella nell’evento è meno che marginale.

Ma torniamo a Don Rodrigo, su cui la sorte si è abbattuta in modo così pesante da far ormai pensare alla trama di un film demenziale. Siamo verso la fine del libro, e nessuno degli stratagemmi escogitati dal signorotto, sulla carta infallibili, ha funzionato. Attilio è morto, il territorio è in subbuglio per via della peste e forse ci sono cose più importanti a cui pensare che non a Lucia. Ma mancava giusto l’epilogo: basta una -tutto sommato breve- gita a Milano perchè Don Rodrigo si becchi la peste. E deve pure agonizzare per giorni, a differenza del Griso che muore nel giro di qualche ora. Fine ingloriosa ma tutto sommato prevedibile per uno squallido feudatario che fini per sua disgrazia nelle mani dell’autore sbagliato.

Con la morte del soggetto termina la mia disamina del personaggio, con cui spero di aver chiarito la mia tesi oltre ogni dubbio, e termina anche questo tema. Il quale, esimi professori, se non v’è dispiaciuto affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritto. Ma se in vece fossi riuscito ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

 

Opossum

Nemmeno George Harrison risolleva l’atmosfera

Nemmeno George Harrison risolleva l’atmosfera.
Principalmente la colpa è della sua casa, un concentrato di umidità come poche cose, immagino le mie ossa piene di condensa appena supero l’uscio. È difficile indovinare il colore originale di queste mura, tra muffe di vario genere e colore e poster male appesi per coprire muffe di vario genere e colore. Azzardando un’ipotesi direi un verde pisello.
Il pavimento su cui sono seduto è una lastra di ghiaccio, probabilmente mi ci ritroverò il culo appiccicato una volta che deciderò di alzarmi.
Scansando uno scarafaggio grosso come un paio di Nike messe una sopra l’altra ho tirato fuori i suoi vecchi dischi, stavano già qua al tempo del trasloco ha detto. Non sono molti, giusto nove, li conosco tutti eccetto uno dove ci sono tre negre sorridenti in copertina.
Quando ho messo The Concert for Bangladesh su quel pessimo giradischi sono stato sorpreso dal suono uscito dai due piccoli amplificatori, quasi paura, questo ferro è uno zombie del comparto audio, dovrebbe essere morto ma cammina ancora.
Lp 2 gira e rigira e lei è sempre lì stesa a pancia in giù sul lato sinistro, con un braccio abbandonato al suo destino giù per il letto. Dorme profondamente su quel lenzuolo bucherellato dalle sigarette, coperta da una sottile coperta bianca.
Quando, finalmente, parte While my guitare gently weeps sto ancora fissando l’assestarsi del suo stato d’incoscienza, evidentemente quando è stata al bagno per la pipì ha fatto altro e senza condividere.
D’improvviso mi chiedo come sia menarsi un cadavere, sicuramente dovrei munirmi di qualcosa prima per via della lubrificazione e se proprio volessi potrei togliermi lo sfizio proprio ora.
Ma lo stato di noia e torpore è troppo forte.
Svolto gli occhi verso una macchia di muffa, con una nemmeno tanto abile dialettica sono sicuro di poter convincere un centinaio di persone che in quella macchia si riconosce l’immagine della Vergine Maria. Partirebbero viaggi organizzati e servizi televisivi sul fenomeno della Madonna che appare in uno squallido monolocale portando i soldi dei network e degli stupidi alla sventurata proprietaria, una prova tangibile dell’esistenza divina. L’enorme benedizione riguarderà i trentacinque chili sul letto e gran parte degli spacciatori in zona e Dio avrà operato ancora una volta per vie misteriose.

Con uno sforzo mi alzo, nel frattempo un poster umidiccio abbandona la presa e mi frana in testa.
Lo srotolo, rappresenta un paesaggio rurale. L’umidità ne ha rovinato i colori, ora sono di un bluastro elettrico: cielo, erba e torrente un unico colore.
Lo lascio cadere, vado verso il letto prendo la mia camicia e mentre la abbottono le do un ultimo sguardo disinteressato.
È cominciata Here comes te sun ma nemmeno George Harrison risolleva l’atmosfera.

Slon

I porno dove non si scopa sono una forma d’arte poco capita

Interno giorno; appartamento. L’attrice è la classica bonazza da film porno americano. Lunghi capelli fluenti, tette quinta misura, siliconate. Siliconate male. Ma non importa. E’ nuda e siede sul letto sola, un vibratore acceso in una mano. Lo sguardo fisso avanti a sè, un’espressione smarrita dipinta sul volto.
Si apre l’ingresso, entra lui. Vestito come potrebbe essere vestito uno che fa un importante lavoro dirigenziale in un qualche ufficio tipo megacompagnia di assicurazioni: doppiopetto grigio, scarpe nere lucide, camicia chiara a righine sottili. Il tutto nasconde una muscolatura virile e lascia indovinare la presenza di un pene. Un pene che si intusce smisurato. Un pene che fa provincia.
Non ha l’aria di uno che vuole consumare. Cioè, magari una bistecca sì, ma il sesso no.
Porn groove in sottofondo.
I due si fissano.
Passano i minuti. L’espressione di lei è sempre più confusa e triste; le spalle di lui si abbassano con un movimento imprecettibile ma inarrestabile, fino a che si lascia crollare esausto sulla sedia vicino all’ingresso. La ventiquattrore gli scivola di mano.
Gli sguardi si abbassano sul pavimento. Il vibratore è ancora acceso. Lo spettatore non sa leggere nel pensiero, non può vedere come lei si interroga sul neoplatonismo e lui sui recenti sviluppi nella criogenia applicata. Anche perchè i due non ci stanno affatto pensando.
– Ti va di…?
– No
[pronunciatori intercambiabili].
La telecamera indugia a riprendere gli ultimi frammenti di frasi rimasti in aria, poi si schianta per terra e si rompe. Nero. Si sentono per alcuni istanti gemiti che sembrano provenire da un orgasmo, invece è un match femminile dell’Australian Open.

Titoli di coda.

 

 

 

 

 

– Oh, il film faceva cagare, ma hai visto lei che tette?

Opossum

Un macchiato, grazie.

C’è qualcosa che non va in questo zucchero, lo capisco subito al tatto, prima ancora di aprire la bustina.
Ne strappo un angolo e rovescio il contenuto dentro la tazzina di caffè bollente, e sì, diamine, guarda quei granelli come sono grossi, non dovrebbero essere così grossi, e quel bianco poi, mai visto un bianco così, ma che razza di schifo è?
C’è sicuramente qualcosa che non va, in questo zucchero.
Il fatto che sia magari causa degli acidi che indubbiamente stanno salendo, non mi passa nemmeno per la testa.
Mi guardo intorno, scruto il bancone del bar in cerca di una distrazione qualsiasi, prima che l’idea di una bustina di zucchero radioattivo assassino mi si pianti troppo a fondo nella mente.
Trovo un volantino di un’agenzia immobiliare, lo leggo mentre mescolo lentamente con il cucchiaino.
Foto minuscole di anonime case minuscole, scritte enormi: “Invidiabile porzione di villetta, 260.000 euro”
Caccio una smorfia. Non c’è qualcosa di sbagliato, in questo annuncio? L’invidia non è forse un sentimento di merda, un peccato capitale, insomma qualcosa di viscido da evitare, possibilmente? Non è sbagliato, infilare questa parola in una pubblicità?
Ehy amico, compra questa porzione di villetta, non importano le sue caratteristiche, ti basti sapere che la gente ti invidierà quando l’avrai!
Sì, è decisamente sbagliato, ma in fondo, cosa c’è che non sia sbagliato in questo mondo?
Prendete me, ad esempio. Io ammazzo la gente come lavoro. E quando non lavoro faccio anche di peggio, quindi non dovrei nemmeno permettermi di fare considerazioni morali.
E’ solo che, sapete..io sono un tipo allegro. Mi viene sempre da ridere, a pensare alla gente troppo seria, troppo normale. Cazzo fai il normale, ma ti guardi attorno, non vedi che vivi in un mondo assurdo, storto, fin dal suo fango primordiale? Mi scappa un sorriso, quasi mi inciucco col caffè.

La vibrazione del telefonino mi strappa di colpo da queste riflessioni inutili: rispondo, è Neno.
Sono partiti adesso, dice Neno. Il manzo più due gorilla. C’è poco traffico, arriveranno a breve, mi tengo un po’ dietro.
L’essenziale, non una parola di più. Mi piace Neno, ha i coglioni. Se non avessi visto e fatto di peggio, in contesti diversi, credo che le storie sulla sua adolescenza in Bosnia mi metterebbero addosso una certa inquietudine.

Lancio una moneta sul bancone ed esco dal bar. Attraverso la strada, perdo una manciata di secondi ad osservare la luce dei lampioni, resa violacea dall’LSD, figata. Entro nel palazzo, nessuno in giro, bene. Due rampe di scale e sono davanti alla porta che mi interessa. Troppa luce per i miei gusti.
Alzo il paraluce di vetro e svito la lampadina del pianerottolo. Meglio. Giro l’angolo e salgo fino a metà della rampa successiva. Mi siedo sui gradini gelidi. Sono calmo. Quasi contento, cazzo. Controllo il ferro, caricatore e silenziatore, poi sento il portone d’entrata aprirsi: tre paia di scarpe rumorose sporcano il silenzio, avvicinandosi a me. Il primo paio è un po’ avanti rispetto agli altri, quando arriva sul pianerottolo lo sento rallentare, il buio non gli piace. Gira l’angolo e me lo trovo davanti, scorgo solo i contorni definiti dalla poca luce che arriva dal piano di sotto. Al terzo gradino si blocca. E’ sveglio, ha capito che c’è qualcuno di fronte a lui, tranquillamente accoccolato in una sedia a dondolo di ombre. Forse vede perfino il piccolo cerchio nero che trema leggermente, e capisce. Forse fa in tempo a generare l’impulso elettrico che porterà la sua mano sotto la giacca, ma prima che succeda, sparo.
Pffff.
Il proiettile lo colpisce appena sopra l’occhio destro. La vita lo abbandona con discrezione, senza lamenti, senza rumori. Il sangue invece è più vivace, schizza tutto contento sul muro dietro di lui, non aspetta nemmeno che il corpo finisca di accasciarsi come si deve per formare una piccola pozza rossa sulle piastrelle.
Il Manzo e Secondopaio si fermano, sono davanti alla porta dell’appartamento. Aspettano che Primopaio torni dal buio, rassicurandoli che è tutto a posto, si è solo bruciata la lampadina.
Invece dal buio arrivo io, con un altro tipo di rassicurazioni. Spalancano gli occhi.
Pffff.
Piazzo subito un confetto in gola al Manzo, così, tanto per farlo star tranquillo, tornerò da lui più tardi, con calma.
Lui fa un passo indietro, l’espressione esterrefatta, il tipico gorgoglio di chi ha la gola squarciata, cade aggrappandosi a una pianta finta, trascinandola con sé.
Mezzo secondo dopo ho già Secondopaio nel mirino, ma qui succede qualcosa, un poltergeist giocherellone mi prende la gamba destra e la tira di forza in avanti, la prospettiva sciiiivola, il pavimento mi sculaccia, il ferro mi cade di mano, mi ritrovo a fissare il buio e il probabile soffito dietro di lui.
Beh? Cosa cazzo succede?
Dai, non è possibile. Sono per terra. Sono scivolato sulla pozza di sangue uscita dalla testa di Primopaio? E’ andata così?
Scoppio a ridere, non ne posso fare a meno, è troppo ridicolo, dai. Rido veramente di gusto, smetto giusto un attimo quando il dolore inizia a scavare il suo tunnel personale dentro la mia carne, poi ricomincio a sghignazzare.
Secondopaio mi ha sparato, alla spalla, ha avuto tutto il tempo di mirare con calma. Anche lui è sveglio, vuole prendermi vivo, vuole portarmi da chi sa lui per giustificarsi del manzo senza gola. L’unica cosa che mi stupisce ora è il perchè non stia ridendo anche lui.
Si china su di me, forse vorrebbe tramortirmi, ma è nervoso, chi non lo sarebbe avendo tra le mani uno stronzo killer pieno di sangue con gli occhi spiritati che raglia come un asino?
Vedo le vene gonfiarsi sul suo collo, dio quanto è brutto, hahahah, non capisce, ha cambiato idea, forse ha paura che mi trasformi in un drago a tre teste, ora mi spara per sicurezza, sai mai, ciao ciao mondo storto, io mi son divertito, grazie di tutto.

Aspetto lo sparo.
Lo sparo arriva.
Poi arriva il sangue, denso e caldo, uno schizzo mi si infila diretto nell’occhio e devo chiuderlo, aaww che schifo.
Quando capisco cos’è successo, mi viene quasi da mettere il broncio, ho voglia di urlare: UFFA! da quanto la dinamica è scontata, ma poi no, ricomincio a ridere, so apprezzare un aiuto quando arriva.

Neno entra nel mio campo visivo, la pistola fumante in mano, l’espressione preoccupata ma attenta, vedo i suoi occhi guizzare velocissimi tra me e i tre sacchi di carne morta. Lo sento mormorare giusto un “tu sei scemo”, poi mi carica in spalla, il mondo inizia a dondolare in ogni direzione mentre scendiamo le scale, ora inizio a sentire davvero il dolore, chiudo gli occhi, e restano solo i rumori, le prime porte che iniziano ad aprirsi sopra di noi, il respiro roco di Neno, la mia risata sguaiata, quasi da cartone animato, e poi

e poi

perdo i sensi.

Kire

Salutami la luna

come rientrare da un viaggio strano, fuori, in orbita, dove è freddo e buio e tutto è sconosciuto; la lunga caduta che caduta non è, è altro, non senti l’aria che scorre tra le fessure del corpo, eppure vedi il tuo mondo sempre più vicino, sempre più grande, sempre più come lo ricordavi (bello, brutto, non importa). come rientrare da un viaggio strano, e ricordi perchè l’hai fatto ma forse non come ci sei arrivato lì, e come hai fatto ad arrivare così lontano, mentre rivedi i posti che conoscevi sempre più definiti, monti, mari, pianure, deserti. un frammento di mondo cattura la tua attenzione, è da dove vieni, da dove te ne sei andato quanto tempo fa? la caduta ora è veramente una caduta, sempre più veloce, sempre più si avvicina la fine del viaggio strano, gli alberi e le strade, lassù non vedi più niente: dov’eri arrivato? non lo sai più, il sole o le nubi ti impediscono di vedere sopra di te. e sotto di te c’è già casa tua, non la vedevi da tempo, è ancora com’era un tempo. rientri. chiudi la porta.

“dove sei stato tutto questo tempo?”

 

opossum

La punizione

Prima sensazione, sorpresa mista a spavento, seguita da logiche domande.

Perché non ci vedo ? Dove sono ? Sono legata ?
Rewind mentale in cerca di risposte: era venuto a casa, uno dei tanti, non so nemmeno quale.
Si aggiunga un’altra domanda: come fa a sapere dove abito ?
Mi ha fatto qualcosa, mi ha colpita ? Si, sento la tempia umida.
Mi ha portata via di casa svenuta, ulteriore domanda: E’ possibile che nessuno l’abbia visto ?
Domanda chiave: Dove sono ora ?
Fa freddo, forse un garage ? No sento soffi d’aria fresca sul collo.
Silenzio, qualcosa in lontananza, forse un cane.

Dei passi sempre più vicini interruppero i suoi pensieri, era davanti a lei e con uno scatto di mano le sfilò il sacco dalla testa.
E luce fu.
Quattro pareti di legno, una lampadina fioca, lei legata per bene ad una sedie e difronte il patetico ometto che credeva di controllare.

Ha una sacca stretta e lunga a tracollo, un fucile da caccia forse, una catapecchia di legno, poco illuminata, silenzio assoluto: sono nel bosco!

Potere dell’associazione di idee.

Voleva urlargli un mondo di cose ma lo osservò in silenzio mentre prendeva una sedia, la piazzava davanti a lei e sedeva poggiando contemporaneamente la sacca terra.
Stava sforzando di ricordarsi chi fosse dei circa sette rimbambiti di mezza età con cui aveva avuto a che fare ultimamente.
Sembravano tutti uguali, tozzi e bassi, calvi e sudaticci. Lui non era da meno.

Prima domanda, disse lui, davvero credevi che fossi così stupido ?
Cosa ?
Cosa ? Cosa il cazzo. Con me hai usato la scusa del visto per tua sorella, con gli altri invece ?
Gli altri ? Ora era chiaro chi fosse: il professore coglione che non si era mai sposato. Nemmeno ora ricordava il nome ma non le importava, la domanda era come avesse fatto un coglione a metterla in quella dispari condizione.
Si, gli altri che hai fottuto. Quando vi alzate al mese ? Trentamila ? Cinquanta ?
Cosa dici ? Non capisco.
No quello che non capisco sono io, la domanda è sempre la stessa: credevi che fossi così stupido ?
Lunga pausa silenziosa.
Sì. Che altro c’era da dire ? Preferì la rassegnata sincerità alle scuse, sapeva riconoscere il fesso ed ora non ne aveva davanti uno. Aveva sul volto quell’espressione di gioia, una gioia sadica che lei sapeva riconoscere benissimo. La sua vanità svanì immediatamente, aveva finito di giocare.
Peccato non accorgersene prima.
Apprezzo la sincerità. Bel piano il vostro, gli stronzi abbondano e voi ne approfittate. Parenti malati da far venire qui, soldi in debito da brutta gente, costose operazioni a cui sottoporvi eccetera eccetera eccetera.
Rivuoi indietro i tuoi soldi ? Posso farteli avere.
No, mai interessati molto i soldi.
E allora ? Ti dirò i nomi degli altri due…
Nemmeno.
E cosa vuoi ? Perché mi fai questo ?
Voglio una risposta ad una seconda domanda: credi che per un solo istante io sia stato in tuo gioco ?
Non ho capito.
Credi davvero che io abbia creduto minimamente alle tue parole mentre ti strusciavi addosso per poi raffreddarti al solo pensiero di tua sorella mentre moriva di fame ?
Sì. Il pianto cominciò a farsi strada, questa volta un pianto vero. Una vittoria per lui, il piacere che provava aumentò a dismisura.
Sbagliato, l’ho sempre saputo chi eri e che volevi.
E allora perché mi hai dato i soldi ? Perché sei stato attorno a me ? Chiese urlando tra il pianto.
Brava, la terza domanda è la tua e la risposta è la mia.
Porto le mani verso la sacca, aprì la cerniera e tiro via un fucile da caccia tenuto a lucido. Gli occhi di lei fissavano la canna con orrore.
Sono stato al tuo gioco perché era esattamente quello che volevo, non vedevo l’ora di stare qui difronte a te con lui in mano.
Non capisco.
Come dire, ognuno ha il suo modo di passare il tempo, il mio è occuparmi di quelle come te. Anche se mi serve un alibi per quella roba della coscienza. Unisco il divertimento alla convinzione di fare qualcosa per il mondo.
Il tuo errore non è stato capire cosa io volessi veramente.
Altro lungo silenzio. Lei ripassava in mente la sua risposta, non aveva capito molto.
Si alzò, lei cominciò ad agitarsi cadendo rovinosamente a terra con la sedia, senti un secco crack! e un forte dolore venire dal polso destro ma non gli diede importanza, troppo impegnata a supplicare e promettere soluzioni vantaggiose sparando mille parole al secondo ma fu zittita dal gesto di lui che si chinò e delicatamente le diede baciò al lato della fronte.
Sappi che questa non è una vendetta, è una punizione.
Senti un freddo metallico nel punto dove l’aveva baciata.

Slon

A volte anche la merda è utile; in questo caso da una spinta a continuare a non perdere l’abitudine nel postare qui, come per ricordarti che hai sempre un “impegno” e che averlo ti fa piacere.
Quindi godetevi ‘sta merda di una pagina e mezza di Office.
E sappiate che questo non è un racconto degno di questo blog, ma appunto è ‘na merda.

Ringrazio gli altri due stronzi che scrivono qui, voi sapete il perché. Avete continuato aspettando me (cit.)
Grazie davvero.

Un sorriso anche a Mr Black che ha fatto l’ospitata, per gli altri quaquaraquà: vergogna, siete solo chiacchiere e distintivo =(

Slonna

What happened to you, Michael Collins?

Il contatto radio è cessato e adesso sono davvero solo. Il modulo di comando è angusto e scomodo, ma oramai è come casa mia. E ora sono a casa da solo.
Il LEM è sceso e ora quei due se ne vanno a spasso sulla Luna, e io non potrò mai farlo. Pazienza. Ma non ho molti rimpianti; forse in pochi si ricorderanno di me, ma ho fatto il mio dovere e ne sono onorato. La faccia oscura della luna mi guarda da sotto il modulo. Il mio modulo. La mia luna. Siamo in pochi ad aver visto di persona questo segreto del cosmo. Ricordo di qualche burlone che diceva che i nazisti ci hanno costruito una base. Sorrido tra me all’idea di orde di Schutzstaffel nascoste fra quei crateri. Non sembrano granchè ospitali.
Quarantotto minuti sono lunghi qui. Abbastanza per essere assaliti dall’ansia. Chissà come stanno Neil ed Edwin, chissà cosa stanno pensando a terra. Devo ammettere di avere paura. Tra poco i contatti radio saranno ripristinati, risentirò i ragazzi del controllo a terra e tirerò un sospiro di sollievo.
Eppure credo che mi mancheranno, questi momenti di estremo silenzio che non rivivrò mai più. Questi attimi nei quali mai, dai tempi di Adamo, un uomo ha vissuto una così intensa solitudine.

Opossum

Deleted scenes

La collina era il punto più alto del paese. Digradava dolcemente (ma non troppo dolcemente, in effetti) verso la periferia del piccolo centro abitato, distante qualche centinaio di metri, dove erano accalcate alcune palazzine di pochi piani: condomini per piccoli borghesi e grandi proletari, nè brutti nè belli, con le pareti che stingevano al sole mediterraneo anno dopo anno.
Sul fianco del colle due ragazzi di circa tredici anni si crogiolavano al sole del luglio inoltrato, seduti sull’erba, e si passavano a turno un binocolo che puntavano verso una ben precisa palazzina, una ben precisa finestra aperta. Una ragazza dall’età sconosciuta ma apparentemente diciassettenne dormiva su un letto, perfettamente inquadrata nella cornice della finestra, quasi un quadro del Goya dal vero. Ed era una ragazza veramente carina. Ed era seminuda.
La posizione e l’intensità del sole non permettevano una visuale granchè chiara dell’interno giorno, ma per due adolescenti in tempesta ormonale poteva andare bene anche così. I due voyeur in erba proseguirono a scambiarsi oculari e commenti per parecchi minuti.
– Ehi, che direbbe tua sorella se sapesse che le fai questo?
Era stato uno dei due ragazzi a parlare. Non si era rivolto al suo compare, ma a un terzo figuro che era rimasto sdraiato in silenzio, qualche metro dietro di loro, per tutto quel tempo. Era il fratello della bella addormentata, un ragazzo di quindici anni dall’aspetto trasandato e l’aria svogliata. Ascoltò la domanda come se l’avesse già sentita mille volte, e cominciò a rispondere stringendo le spalle.
– Fatti suoi. Se ci pensasse un attimo si renderebbe conto che cani e porci la possono spiare.
– Ma tanto di qua non potrebbe salire nessuno.
– Come no. Intanto noi ci siamo venuti.
– Sì, ma se ci scoprono ci fanno un culo così. – interloquì il secondo guardone.
Era vero. La collina e il territorio retrostante erano proprietà privata. Per quanto i proprietari restassero più entità leggendarie che figure concrete, data la scarsa frequenza con cui solevano farsi vedere, il terreno era recintato. I tre invasori erano penetrati sfruttando il più classico degli stratagemmi: un provvidenziale buco nella recinzione.
– Mi sa che non corre mica tanti rischi. E comunque non hai risposto: se ti scopre che ti fa?
Altra stretta di spalle – Non ho paura di lei.
– Mi sa che fai male. E’ più grande di te e secondo me ti mena senza problemi. Mi hanno detto che è un tipo che picchia.
I due guardoni risero. Il terzo si sentì punto sul vivo, ma sapeva che le ultime due affermazioni erano vere e non poteva farci nulla. L’irritazione lo fece reagire nel modo più istintivo possibile: si tirò in piedi e dichiarò chiusa la seduta di osservazione. I due protestarono, ma l’altro fu irremovibile.
– Trenta minuti. E sono passati. Sganciate e tagliamo la corda.

Mezz’ora, cinque euro a cranio: la tariffa per godere della visione di una ragazzina dalle tendenze ninfomani, che senza ritegno dormiva quasi nuda nel suo letto. Non aveva mai creduto che potesse essere un business valido, ma ben presto si era accorto che era merce piuttosto vendibile. La sorella suscitava un certo fascino (a ragione, doveva ammetterlo), ingigantito dal brivido della spiata proibita, e soprattutto tra i ragazzini più ricchi c’era sempre chi poteva e voleva spendere qualche soldo per afferrare l’illusione di vedersela concessa. Era una strana, embrionale forma di prostituzione.
Ora, da solo, mentre le ombre di fuori già si allungavano, risalì le scale ed entrò in casa. Si infilò poi nella stanza di lei e chiuse la porta, appoggiandovi le spalle e guardando verso terra.
– Quanto hai fatto?
Aveva anche una voce suadente, maledetta.
– Dieci euro.
– Certo che come ruffiano vali pochino, eh?
A volte arrivavano commenti del genere, e lui reagiva sempre con la sua stretta di spalle standard. Ma oggi era nervoso e non gli andava di subire.
– Non è mica sempre un lavoro facile. Te te ne devi stare solo lì sdraiata a farti guardare. Ma per me è più difficile. E tu ti prendi anche più soldi.
– Oh, il lumpenproletarier alza la testa! – lei si alzò a sedere e lo fissò (lui aveva ancora gli occhi sul pavimento) – Povero piccolo. Ricorda che l’idea è stata mia, e il gioco lo dirigo io. Se non ti va puoi metterti in proprio. Quanto pagherebbero i ragazzi per vedere te nudo?
Il discorso di lei e il suo tono canzonatorio, decise lui, erano andati troppo in là. Alzò finalmente lo sguardo.
– Senti, vaffanculo. Non mi piace più questa storia. Non mi è mai piaciuta. Trova un altro scemo come socio.
Lei non sembrava troppo impressionata dalla inedita rabbia del fratello. Rispose con sufficienza – Ti fai troppi scrupoli.
– Non è questo!
– E allora cos’è?
Già, cos’era. Non se ne rendeva bene conto, ma l’idea gli si chiarì d’un tratto. La esalò con un filo di voce.
– Voglio solo un po’ di rispetto.
Lei sorrise e si ributtò supina.
– Mio fratello che pretende rispetto. E sembra quasi dimostrare carattere. Una cosa nuova. Mi piace. Mi eccita. Dì un po’ fratellino… quanto ce l’hai grosso?
La domanda lo scioccò. Ma non quanto il rendersi conto che in fondo sperava da tempo in una richiesta del genere. Prima ancora di riaversi, si accorse di essersi istintivamente tolto i pantaloni, e che era a pochi istanti dal vendere l’anima a sua sorella.

Opossum